Per paura di essere esclusi, accettiamo scelte altrui anche se sbagliate: è l’ignoranza pluralistica - THE VISION

Qualche anno fa, durante la presentazione di un libro, il moderatore dell’evento iniziò a fare dei discorsi sulle teorie di Jung che mi sembravano del tutto errati. Una rivisitazione degli archetipi parecchio distante dal pensiero dello psicoanalista svizzero. Mi guardai intorno, e nella sala la gente annuiva, ogni tanto azzardava un applauso. Più passavano i minuti, più iniziavo ad accettare quelle parole. D’altronde lui era laureato in psicologia, io no. E di certo gli spettatori ne sapevano più di me, ero convinto che ci fosse anche qualche accademico tra il pubblico. Finita la presentazione, l’applauso che si levò fu parecchio convinto, e io stesso mi resi conto di essermi accodato all’entusiasmo generale: non volevo correre il rischio di passare per il pazzo contromano in autostrada che accusa tutti gli altri di andare nella direzione sbagliata. Fuori dalla libreria, mentre fumavamo una sigaretta, un conoscente mi disse: “Quel tizio ha detto solo cazzate”. Dapprima mi sentii sollevato, poi iniziai a considerarmi un debole e mi accorsi di essere stato manipolato. Non dal moderatore, ma dalla mia stessa credenza che gli altri fossero nel giusto in quanto massa, e di certo più preparati di me. Questo fenomeno nella psicologia sociale viene chiamato ignoranza pluralistica. Finché si riduce a una bazzecola durante la presentazione di un libro tendiamo a non dargli chissà quale peso. Il problema è che il meccanismo si espande fino a far credere a un cittadino di dover comprare un prodotto o di dover portare al governo una certa forza politica, contaminando tutta la società.

Il termine è stato coniato nel 1924 dallo psicologo statunitense Floyd Allport. Indica un errore cognitivo che si verifica quando dei soggetti all’interno di un gruppo si conformano a una norma ritenuta corretta solo perché hanno la percezione che gli altri la considerino tale. L’omologazione avviene per diversi fattori. Principalmente il singolo individuo fraintende i pensieri del gruppo, credendo che siano diversi dai suoi, e si adegua adottando dei comportamenti con cui non si identifica per paura di venire escluso o di non dimostrarsi all’altezza. L’essere umano ha un bisogno ancestrale di far parte della collettività, e spesso i nostri atteggiamenti seguono delle dinamiche di emulazione per assicurarci di non restare ai margini. Vale per tutti i campi. Se in ufficio il nuovo capo si presenta dichiarando di “voler lavorare sull’environment per incapsulare il concept del minimalismo nel field della produttività attiva attraverso un sinergy project”, probabilmente nessuno ha capito una mazza del discorso, ma credendo che gli altri lo abbiano appreso, o anche solo per timore di far notare il proprio disorientamento, il singolo individuo non chiede spiegazioni e accetta passivamente, arrivando anche a fingere entusiasmo. 

Nel corso dei decenni, dall’ignoranza pluralistica si sono diramate diverse sotto-categorie strettamente collegate al fenomeno principale, come il paradosso di Abilene,  quando in un gruppo di lavoro si crea un problema di comunicazione dettato dalla convinzione che il parere personale sia contrario a quello degli altri, o l’effetto spettatore, conosciuto anche come diffusione di responsabilità o apatia degli astanti. Se, ad esempio, un gruppo di persone assiste a un incidente, c’è la tendenza all’inazione in attesa dei comportamenti degli altri, e anche la percezione della gravità dell’incidente stesso varia in base al movimento del gruppo, non alla preoccupazione individuale. 

Si tratta di un condizionamento che può produrre un effetto a catena su una fetta enorme della popolazione, e spesso i politici fanno leva su questo meccanismo per imbastire la loro propaganda. Così, in aggiunta, si crea quello che potremmo chiamare l’effetto bar. Un gruppetto di persone davanti al bancone discute su un tema d’attualità usando il gergo di qualche politico populista. Prendiamo come esempio l’immigrazione. Il soggetto che assiste alla scena ascolta frasi sui migranti che ci rubano il lavoro o su una fantomatica sostituzione etnica. Probabilmente nemmeno crede a quelle teorie, ma la persuasione della massa lo porta a non volersi sentire in difetto, emarginato, e dunque inizia ad abbracciare dei pensieri che nemmeno fanno parte del suo modo di pensare ma che comincia ad assimilare come giusti, perché crede che tutti all’interno di quel bar vadano nella stessa direzione. È una sorta di tacito passaparola, un’autoconvinzione generata dal martellamento mediatico che si prolunga anche nelle relazioni interpersonali e diventa, di conseguenza, una norma sociale. Dopo un po’ di tempo magari ci si accorge che in realtà nemmeno gli altri la pensavano in quel modo, e si cambia prospettiva. È il motivo per cui l’elettorato è così fluido, e un cittadino può votare un partito politico e, alla tornata elettorale successiva, un altro dalle ideologie totalmente opposte. Come certi pesci seguono la corrente, noi facciamo lo stesso con un sentiero immaginario contrassegnato da false credenze e dalla convinzione che la massa abbia sempre ragione, o che sia un’entità monolitica con un pensiero unico e conveniente per tutti.

L’ignoranza pluralistica comporta anche la sopravvalutazione degli altri soggetti, soprattutto se questi hanno un certo seguito o sono in una posizione di vantaggio. Ad esempio tendiamo a distorcere non soltanto il pensiero altrui, ma anche gli aspetti riconducibili alla sfera emotiva, come il livello di felicità. Su questo hanno contribuito i social attraverso l’immagine percepita, che raramente coincide con quella reale. Spesso viene seguito un influencer pensando che quello sia l’ideale di ispirazione, il tenore di vita a cui ambire, ed è determinato dal condizionamento dei numeri. Più follower ha l’infuencer, più gli attribuiamo una credibilità in realtà astratta, come se fosse un certificato di attendibilità. Anche se una parte di noi considera sbagliate certe affermazioni, il modo di ostentare i propri successi o qualsiasi altro tratto del personaggio in questione, tendiamo a pensare che gli altri non abbiano le nostre stesse titubanze e che aderiscano al culto social senza riserve. Dunque il nostro cervello si attiva per portare anche noi in quella direzione, un po’ per la teoria del branco e un po’ perché “di certo, tutte queste persone non possono sbagliarsi”. Così l’influencer, il politico o il datore di lavoro possono contare su un seguito che aprioristicamente accetta quello che a tutti gli effetti diventa un dogma.

Il modo per schivare le insidie dell’ignoranza pluralistica è il confronto. Può sembrare una soluzione semplice, ma quando vige l’ossessione del conformismo sociale si instaura il desiderio di aderire ai comportamenti del gruppo senza nemmeno interrogarsi sulla direzione intrapresa, perché all’interno di questo insieme l’individuo si spersonalizza diventando massa. E quest’ultima è per sua natura una materia omogenea in cui tutti annaspano per farne parte e non restare indietro. In realtà, attraverso il dialogo possiamo accorgerci di come non tutti siano d’accordo con un pensiero o con un comportamento. Il noto sociologo francese Émile Durkheim diceva che “la società può rendere i comportamenti collettivi migliori di quelli individuali nella massima parte dei casi, purché la società intervenga attivamente”. Dunque occorrerebbe una sorta di pedagogia della percezione, insegnando sin dalla scuola il valore dell’indipendenza comportamentale e del dialogo come mezzo per comprendere le reali esigenze e necessità altrui. Proprio per evitare di credere che gli altri pensino o agiscano con un’estraneità che invece è una proiezione delle nostre insicurezze. 

Un ragazzino alle prime uscite è convinto che tutti gli altri vogliano ubriacarsi e si adegua controvoglia, quando probabilmente anche i suoi compagni non hanno tutta sta gran voglia di farlo, ma nessuno osa dirlo. La norma sociale percepita dal ragazzino assume altre forme nel corso del tempo, ma rimane tale anche per l’adulto all’interno della comunità. Forse basterebbe accorgersi delle diversità di pensiero, e che in fondo l’emancipazione non consiste in una trasformazione in reietti o scarti della società, ma nello sviluppare un’immunità all’automanipolazione e quindi all’assoggettamento di un mondo che sembra imporre di doversi rifugiare nella massa per sentirsi al sicuro, quando in realtà è spesso una forma di annullamento dell’individuo.

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