Harry Styles è la prova che il pop è un genere più interessante degli snob che lo ignorano

Quando il 7 aprile 2017 Harry Styles ha pubblicato la canzone “Sign of the Times” gli snob della musica non erano pronti a fare i conti con quanto sarebbe successo. Harry Styles, fino a quel momento, d’altronde non era altro che un ex componente di una boyband creata a tavolino in un talent show, tutto quel che avevano sempre combattuto a livello ideologico e musicale. Eppure quella canzone li fece impazzire. Gli One Direction erano figli della generazione X Factor, cinque giovani piacenti messi nelle mani di abili produttori e gettati nel tritacarne mediatico. Milioni di copie vendute, un pubblico prevalentemente di dodicenni, una musica senza grandi pretese, creata ad hoc per vendere. Quando Harry Styles si è lanciato nel progetto solista però ha disatteso ogni aspettativa sul suo conto presentando un prodotto del tutto distaccato dalla sua precedente esperienza. Per chi un minuto prima ascoltava i Radiohead, e un attimo dopo si è ritrovato a condividere le visualizzazioni con le directioners è stato un duro colpo.

È stato un azzardo presentarsi al mondo con una ballata fuori dal tempo, che esplode nel ritornello con echi che ricordano David Bowie – lo slide della chitarra, il crescendo “spaziale” alla “Space Oddity” – e arrangiamenti che strizzano l’occhio al glam rock. Nell’epoca dei suoni campionati e dei software che dettano le regole del gioco, le nostre orecchie hanno trovato conforto in una chitarra che suona come una chitarra, in un pianoforte vero, in una batteria che non sembra fatta da un produttore svogliato su GarageBand. Nonostante uno dei videoclip più cringe di sempre – Harry che fa un salto e spicca il volo – l’effetto è stato ottenuto: eravamo tutti in attesa dell’album. Quando poi è uscito il mese successivo, con il titolo Harry Styles, ci siamo accorti di avere un problema ancora più grande: essere diventati dei fan sfegatati.

L’album si apre con “Meet me in the Hallway” e subito si nota la natura dell’intera opera, che non disdegna sfumature psichedeliche. Il basso ipnotico e il riverbero che fa tanto Fleet Foxes o Grizzly Bear ci hanno conquistano al primo ascolto. Styles avrebbe potuto continuare sulla scia dei brani degli One Direction, portandosi dietro una schiera di fan adoranti, non l’ha fatto. Non soltanto grazie all’abilità dei suoi produttori, ma per un’evidente scelta personale, essendo co-autore di tutti i brani. “Carolina” sembra uscire da una session allucinogena della Summer of Love, “Only Angel” ha il potere di trasformare Styles in Mick Jagger, “Woman” potrebbe essere in un album dei Tame Impala che non sfigura tra gli altri.

Styles viene scelto per recitare in Dunkirk, film del 2016 di Christopher Nolan. È già l’idolo delle teenagers di tutto il mondo, eppure lo scrupoloso regista non si lascia abbindolare dalla fama del ragazzo, che è costretto a partecipare a un’audizione con centinaia di altri candidati. E ottiene la parte. Poliedrico e affascinante, Styles viene scelto anche come testimonial di Gucci per diverse campagne. È proprio nel look che risiede uno dei suoi tratti distintivi, come per molti altri musicisti della storia. Si tiene alla larga da definizioni come metrosexual, storce il naso quando qualcuno parla di “vestiti femminili”, come quando dichiara al Guardian: “Quello che indossano le donne, quello che indossano gli uomini… Per me non ci sarebbe neanche da porsi il problema. Se io vedo una t-shirt carina e mi dicono che è da donna, quello che mi viene da dire è: E quindi?”. Sul tema della sua sessualità i tabloid hanno scritto articoli su articoli. Lo stesso Styles ha chiarito: “Viviamo in un’epoca molto libera, e la cosa mi piace tantissimo. Non solo nei vestiti i confini sono più sfocati, questo si può applicare anche alla sfera sessuale. Non sto spargendo pillole di ambiguità sessuale per cercare di essere più interessante. Voglio semplicemente che le cose siano in un certo modo, non perché mi fanno sembrare gay, etero o bisessuale, ma perché penso semplicemente che siano belle”.

Dunkirk (2016), regia di Cristopher Nolan.

Non si è però limitato alle parole: da sempre Styles è un attivista che sostiene diverse cause sociali. Ha più volte manifestato la propria vicinanza al movimento LGBT, partecipando anche a iniziative benefiche, come quando ha realizzato magliette per GLSEN, organizzazione che lavora per porre fine alle discriminazioni, alle molestie e al bullismo basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Si è battuto anche a fianco di Black Lives Matter, movimento della comunità afroamericana impegnato nella lotta contro il razzismo, e ha più volte lanciato messaggi contro l’uso smodato delle armi negli Stati Uniti. L’importanza di certe prese di posizione è legata soprattutto alla cassa di risonanza di Styles. Quando certi messaggi provengono da una delle più note popstar del mondo, le parole si estendono a una velocità tale da creare una sensibilizzazione ad ampio raggio. Soprattutto perché il pubblico di Harry Styles rappresenta il nostro futuro.

La sua missione però è anche nella musica, non soltanto nel sociale. Styles sta accompagnando il suo pubblico in una direzione sonora raffinata, slegata dai diktat dell’industria discografica. Proporre una cover dei Fleetwood Mac vuol dire prendersi la responsabilità di far conoscere una band che magari i suoi fan non avrebbero mai scoperto. Così per due anni tutti, anche i più snob, sono stati in attesa del nuovo album. Quando è arrivato, lo scorso dicembre con il titolo “Fine Line”, il timore era che il disco d’esordio si rivelasse un’eccezione. Ma questo timore era infondato: “Fine line” è la sua naturale evoluzione, un tassello in più verso la sua maturità artistica. Registrato durante sessioni in cui giravano allegramente funghi allucinogeni, risuonava “Ram” di Paul McCartney e circolavano libri di Murakami, il disco è, parole di Styles, “tutto sul fare sesso e sentirsi tristi”. Manca il masterpiece alla “Sign of the Times”, ma nell’insieme i suoni sono ancora più coraggiosi. Le canzoni più lente hanno il sapore soffuso delle elegie di Sufjan Stevens, la componente psichedelica è sempre più accentuata (come in “She” o in “Treat People with Kindness”) e il gioco dei rimandi prosegue spedito, senza però trascendere nel derivativismo: “Sunflower, Vol.6” sembra un brano dei Vampire Weekend, “Canyon Moon” potrebbe essere un inno cantato a Woodstock, “To Be So Lonely” ha tutto quello che serve per finire in una playlist indie insieme a Kurt Vile e Bon Iver. Soltanto “Falling” pende verso le sirene degli One Direction, ma glielo si perdona.

“Fine line” è la definitiva consacrazione di un artista che ha capito il segreto per parlare al proprio pubblico, smettendo di demonizzare il concetto di pop, più volte avvicinato ingiustamente al termine “commerciale”. Seguendo questa contorta logica allora erano commerciali anche i Beatles, i Rolling Stones e i Led Zeppelin, considerando il loro impatto sulla gente, le copie vendute e le influenze sulla cultura popolare. Semplicemente esiste un pop variegato, un insieme di stili che confluiscono in un’unica materia viva con l’intenzione di andare oltre la scrittura di un brano orecchiabile. “Fine line” si distingue dal resto del pop radiofonico per il suo gusto, per la ricerca di un suono particolare che non sia per forza quello del momento, e anzi è spesso un richiamo al beat anni Sessanta o, come nel singolo “Adore You”, alle sonorità degli anni Ottanta. A tutto questo va aggiunto il carisma di un personaggio magnetico, ben consapevole dei mezzi che ha a disposizione e del suo talento, e milioni di fan pronti ad assecondare i suoi esperimenti.

Oggi Harry Styles ha il mondo in mano. È riuscito a traghettare il suo pubblico verso orizzonti inesplorati, eppure resta perfettamente ancorato alla realtà, alla generazione del risveglio ambientale e della lotta per i diritti sociali. Non è una star disinteressata e chiusa nella torre d’avorio dei suoi privilegi, ha il potere di esprimersi e non ha paura di usarlo, risultando credibile sotto ogni veste. Fa parte di quei ragazzi che non si accontentano di vivere il mondo dei padri, ma vogliono crearne uno loro, che li rispecchi. Questa è l’epoca di Harry Styles, di Timothée Chalamet, di Greta Thunberg e di Billie Eilish, di chi ha qualcosa da dire e non ha paura di esporsi. Che sia musica, cinema o attivismo ambientale, queste persone dimostrano che è possibile farlo, anche, e soprattutto, se si ha meno di trent’anni.

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