Come l’autore de Il giovane Holden si isolò per amore della scrittura
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Pochi giorni dopo la morte di Honoré de Balzac, nel 1850, il critico letterario Charles Augustin de Sainte-Beuve scrive un elogio del romanziere di Tours e tra le sue qualità insiste su come lo scrittore abbia gestito la celebrità: “L’artista deve affrontare, il giorno dopo la vittoria, una prova ancora più temibile. […] Per essere all’altezza di quella vittoria, per reggere la fama, per non esserne né impaurito né scoraggiato, per non venire meno e non abdicare […] bisogna avere una forza reale e sentirsi arrivato al proprio livello. Balzac possedeva questo genere di forza”. Nel 1953, due anni dopo l’uscita e l’incredibile successo de Il giovane Holden, J.D. Salinger lascia i salotti di New York e si ritira nella campagna del New Hampshire, dove resta fino alla morte, scomparendo. Per sessant’anni Salinger viene braccato da fan e giornalisti che cercano di catturarne una foto. Nella più famosa, in piedi sul balcone, sembra non tanto cacciare via i curiosi, come un Dinamite Bla, ma nascondersi dalla luce, come un vampiro.

Quando morirà nel 2010 i suoi obituari nei giornali lo metteranno tra Greta Garbo e Howard Hughes come “recluso più famoso del mondo”, “literary recluse” o “Eremita”. Salinger è quasi più conosciuto per questo suo presunto isolamento che non per i suoi libri. In BoJack Horseman – dove appare il suo personaggio che dice di aver finto il proprio decesso per lavorare prima in un negozio di tandem e poi nella produzione televisiva di un programma di gossip a LA – c’è una running gag in cui chi lo incontra non ricorda mai i suoi altri libri, se non, appunto Il giovane Holden.

Il libro in Italia uscì prima nel ’52 per la Casini di Roma, con il titolo Vita da uomo. Nel 1961 venne poi ripubblicato da Enaudi, ma la scelta del titolo ricadde su quello didascalico con cui è conosciuto oggi. Il giovane Holden però toglie completamente l’aura elegiaca del The Catcher in the Rye originale – letteralmente: “Il prenditore nella segale”, personaggio tratto da una poesia di Robert Burns. Almeno i francesi hanno provato a metterci un po’ di fantasia chiamandolo L’Attrape-Coeurs (il rubacuori), mentre in Germania è rimasto esattamente uguale (Der Fänger im Roggen). Non c’è da stupirsi; nel nostro Paese dopotutto si è riusciti a tradurre il titolo del film di Truffaut Domicile Conjugal con Non drammatizziamo… è solo questione di corna.

Non drammatizziamo… è solo questione di corna (Domicile conjugal) di François Truffaut, 1970

Il 1951 è l’anno in cui in Italia escono Il conformista di Alberto Moravia e il Visconte dimezzato Italo di Calvino; in Francia le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Anche Marcello, il protagonista del romanzo di Moravia, come Holden è costantemente animato dall’inadeguatezza e dal senso di colpa che lo fa comportare in modo anormale; è distaccato dagli altri, in ansia. Il visconte Medardo, del libro metaforico di Calvino è, stricto sensu, spezzato. L’autore disse del libro: “Ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizzano una parte di noi stessi e non l’altra”.

In Holden, il dimezzamento di cui parla Calvino contiene la sua sintesi al conflitto tra il bene e il male, che Giorgio Manganelli, in una recensione de ‘62 identifica nel fool che, per sua stessa ammissione, mente in continuazione. “Per estremo, conclusivo paradosso, il discontinuo, l’adolescente Holden è pietra di paragone, unità di misura degli adulti, del mondo della storia. A questa, come a tutta la realtà sociale, Holden è estraneo: in qualche modo la precede, ad essa è irriducibile; è dumb, come dice di sé, è lo sciocco, lo stultus, e forse su di lui si rintracciano i segni – le stimmate – del fool, del matto shakespeariano”.

The Catcher in the Rye diventerà un vero best seller da almeno 250mila copie all’anno, e bibbia definitiva, non di una generazione, ma di tutte le generazioni di ragazzini a cui piace definirsi intelligenti ma ribelli – le Lisa Simpson del mondo non possono essere “generazionali”, ma sono necessariamente elitiste. The Catcher in the Rye è il libro che hanno in tasca i giovani che si sentono artisti, puri e brillanti, e anche quelli che si sentono circondati da persone false e che poi sparano a John Lennon. Nella copia che troveranno in tasca a Mark David Chapman c’è scritto “This is my statement”.

John Lennon

Salinger pubblicò solamente altri tre libri, e mai più un romanzo. Usciranno: Nove racconti; Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione, ognuno formato da due novelle collegate, tutte sui personaggi della famiglia Glass. La famiglia Glass è formata da sette fratelli e sorelle, tutti di estremo talento e intelligenza – Wes Anderson ci si è ispirato per I Tenembaum – ma sono menti brillanti a disagio, che a fatica si assimilano e non trovano serenità all’interno della società. Ognuno cerca il suo modo per “sopravvivere” a questo scarto: Zooey con la misantropia, Walker facendosi monaco certosino, Walt morendo nella seconda guerra mondiale, Beatrice con la maternità, Buddy con la scrittura, Seymour con il suicidio e Franny con la lettura di un testo mistico. Franny è ancora troppo giovane, è in quel momento della sua vita in cui non riesce a uscire con i ragazzi della sua età perché al contrario di lei e dei suoi fratelli non contengono moltitudini.

Tutti i personaggi della famiglia Glass e Holden sembrano volatili pezzi di quel puzzle enigmatico che è J.D. Salinger: l’adolescente di Park Avenue che vaga per le strade di New York e si chiede dove vadano le anatre in inverno; l’ebreo con il padre che commercia in carni e formaggi e la madre convertita all’ebraismo; il pesce banana che si nasconde nella sabbia e l’inventore dei Pescibanana. È stato il soldato che in “Per Esmé con amore e squallore” parla di Vedanta e di scrittura a una ragazzina inglese. Salinger è il soldato morto in guerra.

J.D. Salinger

Si dice che avesse partecipato allo sbarco in Normandia con la prima stesura de Il Giovane Holden nello zaino. Entrato nel controspionaggio interrogò prigionieri di guerra e nel ’45 e fu tra i liberatori di un sotto-campo di Dachau. Rimase per un po’ in Germania a occuparsi della denazificazione del Paese, sposando una tedesca che alcune voci dicevano esser stata membro della Gestapo. Salinger è stato padre di figli che non hanno mai voluto parlare di lui o ne hanno voluto parlare troppo. Matt, attore che ha portato la maschera di Capitan America (prima che la Marvel diventasse al cinema l’unica fonte di intrattenimento statunitense) ha sempre mantenuto un totale silenzio sul padre scrittore; la figlia Margaret invece ha scritto un libro, The Dream Catcher, dove dipingeva il padre come un fissato con la dieta macrobiotica e il suo passato militare. Matt ha poi negato tutto in un articolo, definendo le storie della sorella un “racconto gotico”. Ma raccontare la vita di uno scrittore che non voleva nemmeno che apparisse la propria biografia sulla quarta di copertina dei suoi libri sembra quasi una mancanza di rispetto, pornografia da fan.

La scelta del ritiro dalle scene è spesso stata vista come una “fuga”, per citare Sainte-Beuve, come un’abdicazione. Non ci sono però la schermatura dello pseudonimo, o trucchetti da marketing à la Elena Ferrante; c’è solo un decidere che la scrittura è talmente importante, così alta, da rimanere privata. Quella che i giornali hanno chiamato reclusione in realtà era la ricerca di una vita da non celebrità: Salinger aveva degli amici, si incontrava con delle persone, scriveva lettere alle universitarie, andava al mercato, ma ha fatto ciò che ogni scrittore dovrebbe desiderare di poter fare: scrivere senza pubblicare. “Nel non pubblicare c’è una pace meravigliosa. È davvero rilassante. Pubblicare è una tremenda invasione della mia privacy. Mi piace scrivere. Adoro scrivere. Ma scrivo per me stesso e per il mio piacere personale,” ha detto nella sua ultima intervista. Sembrerebbe proprio il contrario dell’abdicazione. Salinger si è fatto monaco della scrittura superando quello che per gli scrittori è troppo spesso fondamentale: il rapporto col pubblico. E già lo diceva Holden: “La gente applaude sempre per le cose sbagliate. Io, se fossi un pianista, il piano lo suonerei in un accidenti di sgabuzzino”.

Speculando possiamo ricercare nel buddismo, a cui Salinger si avvicinò con passione dopo la guerra, e nel libro che legge Franny I racconti di un pellegrino russo, la chiave del suo distaccarsi dai riflettori. Nel libro, il pellegrino si mette alla ricerca di una persona che possa guidarlo nel vivere normalmente e allo stesso tempo essere in costante preghiera verso Dio. Gli viene così insegnata la “preghiera del cuore”, una ripetizione incessante di “Gesù Cristo, mio Signore, abbi pietà di me”, seguendo il ritmo del respiro. Spiega Franny che se si continua a ripetere la preghiera senza fermarsi, questa diventa “autoattiva”. “Non so cosa, ma qualcosa succede, e le parole si sincronizzano con i battiti del cuore, e allora preghi davvero senza fermarti mai. E questo ha un formidabile effetto mistico su tutto il tuo modo di pensare. Voglio dire, questo è più o meno il succo di tutto quanto. Cioè, tu preghi per purificarti completamente e avere una visione tutta nuova del significato delle cose”.

Non sembra diverso da quello che Salinger ha fatto con la letteratura, facendosi monaco. Si dice che nella sua cassaforte ci siano manoscritti che parlano di un Holden che diventa adulto e forse altri Pescibanana e testi su Buddha. Non so se Salinger festeggiasse il suo compleanno, che questo gennaio avrebbe 100 candeline, di sicuro non avrebbe voluto fiori sulla tomba. Dice Holden a un certo punto: “Ragazzi, quando morite vi servono di tutto punto. Spero con tutta l’anima che quando morirò qualcuno avrà tanto buonsenso di scaraventarmi nel fiume o qualcosa del genere. […] La gente che la domenica viene a mettervi un mazzo di fiori sulla pancia e tutte quelle cretinate. Chi li vuole i fiori, quando sei morto? Nessuno”.

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