Il 25 gennaio 1939 nasceva a Milano Giorgio Gaber – nome d’arte di Giorgio Gaberscik – friulano di origine, attore, cantautore, musicista e intellettuale che attraverso la sua vasta produzione, divisa tra la musica “leggera” e l’impegno politico, ha donato al pubblico un prezioso patrimonio artistico caratterizzato da un pensiero mai scontato e da una voce sempre fuori dal coro.
Quando aveva meno di vent’anni Gaber, appassionato di jazz e rock’n’roll, suonava la chitarra, una passione che lo portò a conoscere altri giovani musicisti dell’epoca come Enzo Jannacci, Adriano Celentano, Luigi Tenco e tanti altri artisti allora alle prime armi. Tra l’Hot club e il Santa Tecla, due locali jazz di Milano, passando per le frequentatissime balere e i tour in Europa con Celentano iniziò la sua lunga carriera nel mondo dello spettacolo.
Anche la televisione, che all’epoca muoveva i primi passi e ospitava le diverse novità che animavano il Paese, si accorse di questo gruppo di giovani e irrequieti musicisti. Bastarono pochi passaggi su quell’unico canale televisivo nella trasmissione Il Musichiere, cantando uno dei primi brani rock in Italia, “Ciao ti dirò”, per rendere Gaber un fenomeno da palcoscenico. Immediatamente riconoscibile, con quella figura longilinea e l’andatura dinoccolata, il naso importante, un’eleganza garbata e irresistibilmente simpatica, Gaber divenne uno di quei cantanti che all’epoca la stampa, non senza un pizzico di perfida ironia, definiva “gli urlatori” per differenziarli dagli interpreti compassati del passato.
La prima parte della carriera artistica di Gaber fu rappresentata da una stagione caratterizzata da trasmissioni come il Cantagiro e il Festival di Sanremo, da canzoni d’amore o ironiche, espressione di un’Italia che si curava le ferite della seconda guerra mondiale ed esigeva una rinnovata serenità e leggerezza. A Gaber venne affidata anche la conduzione di popolari trasmissioni televisive dove si scorgeva già la nascita di un interesse più complesso e raffinato rispetto ai dettami televisivi. Il giovane musicista milanese costruiva i suoi spettacoli inserendo richiami a tematiche profonde, come le canzoni popolari e di protesta e invitava attori impegnati del cinema e del teatro, come Gian Maria Volontè, a leggere i testi della musica leggera interrogandosi sul valore poetico di quei brani.
Nel 1967 il suicidio di Luigi Tenco, avvenuto in una delle stanze dell’Hotel Savoy durante i giorni del Festival di Sanremo, gettò un’ombra su quel periodo di generale spensieratezza e sul gruppo di amici e colleghi del cantautore ligure, di cui faceva parte anche Gaber. Pur non imputando solo a quel tragico episodio la sua volontà di chiudere con il mondo della televisione e del varietà, Gaber decise che era tempo di esplorare altre strade, più congeniali al suo desiderio di raccontare la società contemporanea. “In generale l’aria della musica leggera non mi piaceva; avevo già lavorato in televisione e la scoperta del palcoscenico, della dimensione teatrale, mi diede un altro tipo di spinta, di stimolo”, disse in un’intervista rilasciata alla rivista Blu – Il mensile di musica tutta italiana nel 1990.
I nuovi testi composti da Gaber a partire da quel momento esigevano un’attenzione diversa da parte del pubblico, una partecipazione, persino un confronto, che non poteva essere rinchiuso all’interno della scatola televisiva, la quale al contrario prevedeva una platea passiva. Al Piccolo di Milano, Paolo Grassi e Giorgio Strehler compresero le sue esigenze e considerarono la possibilità di organizzare uno spettacolo teatrale composto da canzoni e monologhi. Nacque così il “teatro canzone”: un esperimento rivoluzionario che coniugava l’intrattenimento alla filosofia, la recitazione alla politica, la musica all’impegno sociale.
Con la collaborazione costante nella scrittura dei testi del pittore viareggino Sandro Luporini, nacque il signor G: un alter ego di Gaber il cui ruolo era quello di rappresentare le paturnie, le manie e le passioni dell’uomo moderno: “Il signor G rappresentava, e rappresenta ancora […] la sincerità. Io venivo da un mondo tutto diverso basato sull’intrattenimento. Scegliendo il teatro ridussi ulteriormente il mio nome e creai una sintesi tra me e il personaggio”, disse Gaber, “Il signor G – dove quella G voleva anche dire “gente” – era un signore un po’ anonimo […] in bilico tra un desiderio di reale cambiamento e un inserimento nella società”.
Gaber condivise i valori della contestazione del sessantotto, nel 1971 incise l’album I borghesi, una feroce critica all’ipocrisia di quella classe. Eppure, nonostante aderisse ai principi della rivoluzione culturale del Sessantotto, la sua costante ricerca filosofica, artistica e umana lo portò, alla fine, a distanziarsi pubblicamente dal quel movimento. Anni dopo ricostruì così quel passaggio: “Proprio in quel momento si cominciavano a staccarsi dai gruppi extraparlamentari frange le quali affermavano che forse anche i fatti privati c’entravano con quello che ci accadeva intorno. Anch’io ribadivo che non c’era differenza tra pubblico e privato, tra politico e personale, tra contenuto e forma”. Una tematica che richiama alla mente il monologo di Vittorio Gassman in La terrazza di Ettore Scola: un dirigente del Pci parla della sua vita privata al congresso del partito, nell’incredulità generale.
Il disappunto di Gaber era evidente in canzoni come “Al bar Casablanca”, in cui lui e Luporini prendevano in giro quelli che oggi, in sintesi, verrebbero chiamati radical chic: persone mediamente impegnate in politica, genericamente allineate a sinistra, ma in concreto pigre, chiacchierone, inutili alla causa. “La mia posizione era di partecipazione al ‘collettivo’ ma con delle riserve. Quando portai in scena Dialogo tra un impegnato e un non so mi veniva già rivolta l’accusa di qualunquismo che mi sono trascinato per anni”, rivelò nell’intervista alla rivista musicale Blu. “In realtà io e Luporini mettevamo in dubbio l’accettazione acritica della massificazione, dell’essere contro, che in parte condividevamo ma senza aderire a certi slogan. Ecco perché io mi identificavo sia nell’impegnato sia nel non so”.
Il disco che segnò la rottura definitiva con le ideologie acritiche della sinistra italiana fu Polli d’allevamento del 1978. Un album che si chiudeva con il contestatissimo brano “Quando è moda è moda”, una critica senza mezzi termini al movimento giovanile di quegli anni, accusato di velleitarismo e conformismo. “Guardo molto dentro me stesso. Non è rabbia: è autoanalisi. Serve a farmi capire gli altri, ma serve anche a me per resistere all’omologazione imperante,” disse Gaber.
La poetica di Gaber è incentrata su una forte coscienza civile, non ideologica, e da un uso magistrale dell’ironia che gli ha permesso di entrare in empatia con un pubblico vasto senza mai perdere la profondità del suo messaggio. Gaber fu promotore di un’analisi collettiva, dai connotati storici, e riuscì a farlo senza mai cadere nel paternalismo. Gaber e Luporini offrirono al pubblico una produzione artistica di ampia portata, brani legati all’attualità che diventavano riflessioni universali sulla condizione umana, sulle esigenze e le nevrosi della società.
La forza di quei testi era anche nei riferimenti letterari altissimi a cui decisero di attingere: Giacomo Leopardi, Samuel Beckett, Theodor Adorno, Jacques Prévert e soprattutto Louis Ferdinand Céline. Gaber raccontò l’atroce bellezza di essere liberi pensatori, basti pensare alla ferocia e alla disillusione evidenziate in “Io se fossi Dio”, e non nascose mai la fatica di essere cittadini realmente consapevoli, come nel celebre brano “Io non mi sento italiano”. La produzione artistica di Gaber spazia dalla canzone leggera degli anni Sessanta al teatro-canzone, costruito sulla rabbia, l’indignazione e la sua tracimante presenza scenica, che animò fino alla fine della sua vita, avvenuta la notte di capodanno del 2003.
Gaber ci ha insegnato che nel cammino personale di ognuno di noi non esistono traguardi, non esistono verità assolute da abbracciare acriticamente o peggio da farsi consegnare; ci ha avvertito che bisogna diffidare da chi si autoproclama maestro, e bisogna dubitare delle risposte immutabili, perché la realtà è un continuo divenire come la nostra vita.