Ho sempre pensato che l’Italia sia un Paese culturalmente molto avanzato e che il suo unico difetto stia nel non saper riconoscere i fautori di questo progresso culturale. Gillo Dorfles, all’anagrafe Angelo Eugenio Dorfles, è stato uno dei protagonisti della nostra contemporaneità, e pochi sanno quanto sia stato importante nella definizione del bello in Italia. Nato a Trieste e cresciuto a Milano, dove conobbe Italo Svevo e Umberto Saba, si è laureato in Psichiatria, per poi dedicarsi alla pittura e alla critica: con Munari, Monnet e Soldati ha creato il Mac (Movimento Arte Concreta) per promuovere l’arte non figurativa.
La sua morte, avvenuta il 2 marzo di quest’anno, è passata in sordina. Se n’è parlato sui giornali e in qualche notiziario, certo, ma pochissimi avevano – e hanno – veramente idea di cosa abbia determinato il pensiero di questo intellettuale per l’Italia. La cosa che ha fatto più scalpore infatti è che era molto anziano: 107 anni. Ma la verità è che Dorfles è stato per il nostro Paese un profeta, in un periodo storico durante il quale la bellezza, l’eleganza e la moda erano una cosa per pochi, anzi, pochissimi.
La moda oggi è veicolata da fenomeni di massa, appartiene a tutti e a nessuno, ma un tempo le cose erano molto più difficili. Riconoscere qualcosa di “cattivo gusto” era un’impresa ardua e le persone avevano bisogno di linee guida ben specifiche per rendersene conto. Nel secondo dopoguerra il nostro Paese stava vivendo un periodo di materialismo frenetico dovuto al boom economico, e vedeva la nascita di una nuova borghesia, lo zoccolo duro dell’Italia del post-piano Marshall. Questa nuova classe media doveva però rispondere a una richiesta estetica ben precisa: le case degli italiani, i loro vestiti e il loro stile di vita dovevano riflettere il loro nuovo status sociale, e dovevano farlo attraverso oggetti, forme e materiali che oggi definiremmo spesso brutti, di cattivo gusto, o ancora meglio, kitsch.
Il termine “kitsch” deriva dal tedesco “scarto” (o, secondo altri, dall’inglese “sketch”, ovvero schizzo) ed è il termine con il quale veniva definito, nella Germania del 1860, l’opera d’arte commercializzata, la cui facile realizzazione la rendeva accessibile a chiunque, a discapito della sua unicità. Sebbene il termine fosse più antico, solo nel 1939 il kitsch iniziò a determinarsi come lo conosciamo, attraverso uno scritto del critico d’arte americano Clement Greenberg, che lo analizzò per primo nel suo manoscritto L’avanguardia e il kitsch, dove descriveva questo “fantastico fenomeno” come una “retroguardia” dell’avanguardismo di quel tempo. L’essenza del kitsch è l’imitazione eticamente scorretta di ciò che è stato fatto, anche in maniera goffa, poco simile al reale – è, per citare Walter Benjamin: “Una gratificazione emozionale istantanea senza sforzo psicologico, senza sublimazione.”
In parole povere, il kitsch è la “volgarizzazione”, in quanto divulgazione di massa, dell’arte per fini speculativi. Definire il kitsch “brutto”, però, è improprio. Per riprendere le parole di Dorfles, si tratta di “Un’ambigua condizione del gusto.” Anche perché, il semplice “brutto” non definisce la moltitudine di forme che il kitsch può assumere dal punto di vista sociologico e antropologico: dai villaggi turistici ai rosari fluorescenti in omaggio con i giornali religiosi, passando per diversi riti posticci appartenenti alla cultura New Age.
Del fenomeno ne hanno parlato critici, scrittori e artisti in tutto il mondo. Milan Kundera lo ha raccontato nel suo libro L’insostenibile leggerezza dell’essere, attraverso il personaggio di Sabina, che si interroga sulla possibilità che l’uomo possa creare qualcosa di così “sbagliato”, prendendo come esempio una delle azioni più naturali dell’uomo: la defecazione. Se è vero che la merda è una cosa naturale, perché ce ne vergogniamo? La domanda ovviamente è retorica, ed è posta per forzare la riflessione sul fatto che non tutto ciò che l’uomo crea è necessariamente “bello”, anzi. La verità è che il cattivo gusto ha sempre appassionato, nonostante il lascito del secolo scorso, con la sua ricerca del bello nella semplicità. C’è sempre stato posto per l’abbondanza a poco prezzo. La televisione ha poi contribuito a portare nelle case di milioni di persone, insieme all’alfabetizzazione, il kitsch, e Andy Warhol ha coniato il termine “trash”, spazzatura, con l’omonimo film da lui prodotto.
Il kitsch, per quanto fenomeno di massa, ha il merito di aver concesso al popolo un mezzo per riappropriarsi dell’arte, sia pure falsificandola e commercializzandola. Il rischio, in questo inevitabile processo, era quello di affezionarsi alle cose brutte, creando un gusto distorto del bello. A evitare l’apocalittico scenario ci pensò Dorfles con il suo libro cult: Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, pubblicato nel 1968. Negli anni dei pantaloni a zampa di elefante, dello space look e dei temi optical su abiti e pareti, veniva utilizzato nei salotti letterari come bibbia contro il cattivo gusto, che avrebbe risparmiato le generazioni future. Eppure, in quanto intellettuale, Dorfles non ebbe un vero impatto sulla società di massa, se non diversi anni dopo, quando il suo lavoro fu preso in considerazione e studiato da appassionati e accademici, che riconobbero il valore profetico delle sue opere. Del resto, l’Italia è il Paese degli avanguardisti impopolari, dei futuristi bistrattati, dei geniali ideatori non finanziati; ci accorgiamo del valore delle cose quando realizziamo di averle perse.
Dorfles parlò apertamente agli italiani e fece il possibile per mettere in guardia i lettori dei suoi scritti dai mobiletti, dai soprammobili e dal turismo visto attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica usa e getta. Il suo profetismo però non stava solo nell’aver tradotto un concetto – il kitsch – che era già diffusissimo in tutto l’occidente, ma di averlo analizzato dal punto di vista sociologico, dando un quadro più o meno realistico dell’uomo moderno. Nel farlo, fece riferimento al cosiddetto kitsch-mensch (l’essere-kitsch), citato già da Greenberg – sebbene il termine fosse stato coniato dallo scrittore austriaco Hermann Broch per definire la piccola borghesia tedesca. Le caratteristiche fondamentali di questo essere sono tre: moralismo, sentimentalismo e mancanza di cultura. Secondo Dorfles, infatti, l’uomo kitsch è l’individuo che usufruisce dell’opera d’arte in maniera inconsapevole. È ad esempio “Colui che predilige la Pastorale di Beethoven alla Nona per il semplice motivo di trovarla più gradevole.”
L’essere-kitsch della modernità si emoziona a un concerto di musica classica perché immagina che così debba essere, senza riconoscere l’effettiva qualità del suono o dell’interpretazione, apprezza indiscriminatamente qualsiasi opera del passato senza porsi il problema di saperla realmente comprendere, si strugge nel vedere un artista di strada omaggiare Klimt, Picasso, o quei pochi altri artisti ai quali sa fare riferimento. L’individuo in questione è una vittima del conformismo, della produzione di massa, e, in quanto tale, è una vittima (inconsapevole) del kitsch. Dorfles, però, non ha inteso il kitsch-mensch come un individuo prettamente negativo per la società, quanto più una parte integrante di essa. Del resto, nessuno è esente da questo fenomeno, tanto che, per sua stessa ammissione: “È necessario conoscerlo, anche frequentarlo, e perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cattivo gusto è sempre in agguato.”
Quanto è spessa la linea che divide l’ultima canzone di Calcutta dalle composizioni di Bruckner? È un paragone che fa sorridere, ma che non dobbiamo dare per scontato. Il merito di Gillo Dorfles, quindi, fu quello di stabilire degli standard per la cultura estetica italiana di quegli anni, ponendo delle precise caratteristiche al concetto di bello. Il suo contributo alla modernità fu indispensabile per sviluppare il gusto (e di conseguenza, il cattivo gusto) che oggi involontariamente ci appartiene e che, nel corso degli anni, ha contribuito a formare una coscienza critica collettiva. Il primo vero parametro della bellezza oggettiva.