Nel 1995 venne diffuso per la prima volta in Francia L’Abécédaire di Gilles Deleuze, un’intervista di otto ore girata tra il 1988 e il 1989 in cui il filosofo francese affronta un diverso tema filosofico per ogni lettera dell’alfabeto. Partendo dalla “A comme Animal” e arrivando alla “Z comme Zig-Zag”. Alla voce “G comme Gauche” Deleuze ci fornisce una singolare e tuttora attuale definizione di sinistra, o meglio di cosa significhi essere di sinistra. Le parole di Deleuze, infatti, pur essendo vecchie di trent’anni, colpiscono ancora per la loro rilevanza rispetto alla situazione politica odierna.
Deleuze è forse l’unico intellettuale di sinistra della sua generazione a non essersi iscritto al Partito Comunista, il che gli permise di sviluppare una visione critica e autonoma dalle dinamiche interne al partito, rendendolo una delle voci più autorevoli e suggestive del Sessantotto. Non risparmia critiche ai comunisti francesi, evidenziando che tutti loro sapevano degli orrori dello stalinismo, fingendo però di essersene accorti solo dopo la morte di Stalin. Così come tutti sapevano che le rivoluzioni falliscono, inesorabilmente: la Rivoluzione russa ha portato a Stalin, quella francese a Napoleone, quella inglese a Cromwell, quella americana a Reagan. Per cui è inutile rifugiarsi nel revisionismo.
Quella di Deleuze non è una posizione conservatrice o antirivoluzionaria, va intesa al contrario come un insegnamento, o meglio come un’indicazione della strada da seguire, che anche la sinistra contemporanea forse farebbe bene ad ascoltare e ad accogliere. Storicamente, infatti, la sinistra è da sempre chiamata a occuparsi dei diritti e dell’emancipazione sociale dei più deboli, impedendo alla radice soprusi di ogni tipo. Per Deleuze “Tutti gli abomini che l’uomo subisce sono dei casi. Non sono la negazione di diritti astratti, sono casi abominevoli, quindi serve una giurisprudenza in grado di impedire che questi casi si ripetano. […] Agire per la libertà, divenire rivoluzionario vuol dire operare nella giurisprudenza”. Secondo lui, infatti, se è vero che le rivoluzioni finiscono male, è altrettanto vero che esiste nell’uomo una spinta rivoluzionaria, anzi un “divenire rivoluzionario”, che nessun fallimento può cancellare. È nelle situazioni di oppressione, infatti, che lo stato di diritto viene meno e che gli uomini sentono la necessità di riconquistare la libertà perduta, che nella pratica assume la forma di una possibilità legislativa concreta. Non si tratta, però, di un’azione che può compiere solo chi è al governo – che quindi può mettere mano effettivamente alle leggi – quanto piuttosto di una pratica politica collettiva volta a un cambiamento radicale e permanente, che finisce per stabilire i confini entro i quali i vari governi possono muoversi.
Un esempio di divenire rivoluzionario, per Deleuze, è dato dalla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, che in quegli anni era in pieno svolgimento. Ma anche nell’Italia del secondo dopoguerra, si potrebbe aggiungere – anche se il filosofo non vi fa esplicito riferimento. L’Assemblea Costituente di fatto si trovò in un divenire rivoluzionario e creò una nuova giurisprudenza, racchiusa poi nella nostra Costituzione, il cui obiettivo era – ed è – quello di impedire che quel “caso abominevole” che è stato il fascismo trovasse ancora terreno fertile nel Paese. “Questo è essere di sinistra: creare diritto”, dice ancora Deleuze. La destra per Deleuze, non crea diritto perché crea privilegio e fa di tutto perché chi è privilegiato continui a esserlo, lasciando ai margini tutte le altre questioni. Guardare le cose da una prospettiva di destra significa mettere se stessi al centro e considerare il proprio orticello come il centro del mondo: “Si comincia da sé nella misura in cui si è privilegiati, vivendo in Paesi ricchi; perciò ci si chiede: come posso fare affinché tale situazione duri?”.
Per questo motivo non si può non restare perplessi nel vedere come il Pd, nel suo forsennato tentativo di imitazione della destra, si proponga come forza politica in grado di realizzare quella “rivoluzione liberale” che è da sempre il principale cavallo di battaglia berlusconiano e che è quanto di più lontano si possa pensare dal divenire rivoluzionario deleuziano. Inutile aggiungere, poi, che recentemente anche il M5S si è aggiunto alla folta schiera dei rivoluzionari liberali. Del resto, continua Deleuze, “Non esiste un governo di sinistra; […] al massimo può esserci un governo favorevole a certe esigenze o istanze della sinistra. Ma un governo di sinistra non esiste, perché la sinistra non è questione di governo”. Essere di sinistra, infatti, non è altro che una questione di prospettiva, ossia consiste nel ribaltare la visione egocentrica della borghesia reazionaria europea. Ed è esattamente questo che la sinistra di oggi non riesce più a fare, perché nel momento in cui insegue la destra sul proprio terreno ne legittima automaticamente il punto di vista.
Essere di sinistra vuol dire percepire il mondo a partire dall’orizzonte, dal limite, da ciò che sta sullo sfondo. In pratica, mettere al centro non più se stessi (come fa la destra, il liberalismo e il capitalismo), ma gli emarginati, gli invisibili, gli ultimi. “Se si comincia dal limite, si è di sinistra. E in un certo modo si capisce che sono quelli i problemi da risolvere. […] Essere di sinistra è sapere che i problemi del Terzo Mondo sono più vicini a noi dei problemi del nostro quartiere. È veramente una questione di percezione, non di anime belle”. Insomma, questo modo di concepire il mondo è l’esatto contrario del “Prima gli italiani!” salviniano (ma anche dell’America first trumpiano), apprezzato anche dalla neonata sinistra “sovranista” di Stefano Fassina. È proprio partendo da una prospettiva di destra, dal mettere se stessi al centro, che si giunge a sostenere questi slogan e a percepire l’immigrato come delinquente che minaccia il proprio “legittimo” privilegio. Ora, non c’è da stupirsi finché a sostenere certe idee sono Salvini o Trump; il guaio, invece, è quando anche esponenti del Pd come Debora Serracchiani arrivano a pensare che un crimine è più grave se commesso da un immigrato, spacciando per buon senso quello che di fatto è razzismo.
Essere in maggioranza non equivale a essere nel giusto, all’epoca di Deleuze così come nella nostra. Il che ci porta all’ultimo punto del suo ragionamento: essere di sinistra, oltre al divenire rivoluzionario e al creare diritto, significa anche “divenire minoritari”, come urlava Nanni Moretti in Caro diario: “Farò sempre parte di una minoranza”. La sinistra, infatti, non è mai maggioritaria, dal momento che la maggioranza presuppone un’unità di misura, che in Occidente coincide con “l’immagine dell’‘uomo’, ‘adulto’, ‘maschio’, ‘cittadino urbanizzato’”. Non si tratta però di minoritarismo elettorale o di settarismo; al contrario, si tratta di rifiutare quest’unità di misura vuota e impersonale nella sua generalizzazione, contrapponendole un diverso modo di vedere – e misurare – il mondo, e quindi di agire, centrato sulle minoranze. Maggioranza, quindi, nella visione di Deleuze significa esclusivamente saper rappresentare, in un dato momento storico, l’unità di misura del “maschio-adulto-urbanizzato”.
Le donne, ad esempio, sono escluse dalla suddetta maggioranza e perciò devono sottostarvi per essere considerate nella società. Esiste, però, un “divenire donna”, che per Deleuze investe sia le donne che gli uomini e che consiste sostanzialmente nel riaffermare la propria libertà e indipendenza rispetto alla vuota e astratta unità di misura, ossia nel non riconoscersi come “misurabile” dal metro dell’astratta maggioranza maschile. Perciò, “Nessuno è maggioranza, tutti sono minoranza. Questo è essere di sinistra, sapere che tutti sono minoranza. Ed è qui che si danno i fenomeni di divenire”, come il divenire rivoluzionario, minoritario e donna. È qui, cioè, che ci si sottrae all’immagine standard del maschio-adulto-urbanizzato e si rovescia la prospettiva egocentrica da cui quell’unità di misura deriva.
Le parole di Deleuze, come già detto, suonano ancora di grande attualità, perché mettono in luce con acume i problemi che la sinistra europea postcomunista si porta dietro. La sinistra sembra infatti essersi trincerata dietro a una presunta superiorità intellettuale e morale, e dietro a quelli che Deleuze chiamava i “discorsi odiosi di intellettuali senza idee”. Ma non basta volere la rivoluzione per essere rivoluzionari; non basta essere a favore delle “quote rosa” per sostenere le donne; non basta approvare una legge sulle unioni civili e una discutibile legge sull’immigrazione per creare diritto. Così facendo la sinistra non ribalta la prospettiva reazionario-borghese e non parte dal limite, ma usa il limite come strumento di propaganda da sfruttare all’interno di quella stessa prospettiva. Le quote rosa sono una concessione alle donne fatta dall’uomo che detiene – o meglio, che rappresenta – la maggioranza; e lo stesso vale per le unioni civili e le politiche del centrosinistra per l’integrazione dei migranti, che non creano diritto ma semplicemente tollerano un’eccezione rispetto al maschio-adulto-urbanizzato (per antonomasia bianco ed eterosessuale). Tutte queste cose non ribaltano la prospettiva che vuole chi rientra nel modulo come centro del mondo, ma al contrario sono apparenti concessioni che non solo non scalfiscono la centralità della stessa unità di misura, ma la abbelliscono e la presentano come buona e giusta, agendo in una visione di destra. La sinistra dovrebbe imparare a riscoprire il coraggio di negare e rovesciare questa prospettiva e di partire davvero dalla minoranza deleuziana fornendo gli strumenti per “agire nella giurisprudenza” e non sfruttandola esclusivamente per un suo tornaconto elettorale. L’anonimo maschio-adulto-urbanizzato deve quindi finalmente abdicare alla propria centralità e al proprio privilegio, lasciando spazio alla diversità di genere, orientamento, etnia e status sociale.