Chi ama leggere può averlo sperimentato spesso: nei periodi particolarmente intensi, in cui si è stanchi, stressati per il lavoro ed emotivamente provati, mettersi a letto la sera con un libro che si è particolarmente amato durante l’infanzia o l’adolescenza può essere un conforto. Non è troppo diverso da questa abitudine il dilagare di passatempi, mode e consumi culturali dall’estetica infantile: è una tendenza che stiamo adottando dal Giappone, dove migliaia di eterni bambini, attraverso questo rifugio, cercano il proprio modo di gestire pesi, responsabilità e pretese della vita adulta di riconoscersi in una comunità creativa assieme a cui resistere al grigiore di un’esistenza scandita da ufficio e bollette.
Nel mondo anglosassone li chiamano kidults e sono loro i responsabili di un quarto delle vendite globali di giocattoli all’anno, per un valore di circa 9 miliardi di dollari, e il principale motore di crescita dell’intero settore. Mattel, Lego e il merchandise di Harry Potter oggi fanno fortuna non tanto con i bambini, ma con gli adulti. Chi li volesse bollare come eterni bimbi sperduti che a trentacinque anni si rifiutano ancora di assumersi le loro responsabilità, però, sarebbe decisamente fuori strada e proprio guardare al Giappone, con la sua fertile cultura pop, ce lo fa capire. La nostra quotidianità di europei, in realtà, è molto influenzata dalla cultura nipponica e non è un caso che ciò che più nutre il nostro immaginario, facendoci sentire tanto attratti da questo Paese, sia proprio tutto ciò che è carino e ammantato da un’estetica infantile. Basti pensare alla cancelleria kawaii, termine traducibile con “carino” ma che racchiude un intero mondo e strizza l’occhio a un universo di colori pastello, gattini, piatti tipici in miniatura e arcobaleni, che ci riporta come un flashback al momento rassicurante di preparare la cartella per la scuola.
Le radici di questo ritorno adulto all’infanzia in Giappone sono rintracciabili negli anni Novanta: dopo essere uscito dalla seconda guerra mondiale completamente distrutto e martoriato, il Paese stupì il mondo ricostruendosi dalle fondamenta nel giro di appena un paio di decenni e sperimentando una crescita economica tanto rapida quanto marcata, varcando la soglia degli anni Settanta come seconda economia mondiale, trainata da elettrodomestici e tecnologia. L’eroe quotidiano sulle cui spalle si è retta questa crescita era ed è tuttora l’impiegato, il salaryman, al quale il lavoro ha cominciato a essere imposto sempre meno come un mestiere e sempre più come una vocazione eretta sui pilastri di responsabilità, competenza e ambizione. Non c’era più spazio per il bambino nascosto dentro a ciascuno di noi. Ma non solo: i bambini stessi erano caricati di responsabilità e pressioni fin da piccoli, perché dovevano gettare le basi per la propria professione, per il prestigio e il benessere economico della famiglia, in una concorrenza spietata di studio matto e disperatissimo e disciplina inflessibile. Non è un caso che la passione per l’estetica infantile si riscontri anche in altri Paesi asiatici, come Cina e Corea del Sud, in cui il sistema scolastico e le aspettative delle famiglie caricano i bambini, fin da piccoli, di un grosso peso: è come se chi non ha avuto la possibilità di vivere a pieno la propria infanzia la reclami poi da adulto. Perché non solo l’infanzia, ma anche una certa dose di spensieratezza a essa associata sono necessarie nella nostra vita, anche in quella del manager più affermato e integerrimo: basti pensare allo spazio che tradizionalmente tutte le civiltà riservano a queste uscite dagli schemi, occasione fornita per certi versi anche dal Carnevale.
La cultura tossica del lavoro ha dato i suoi frutti economici, ripagando i cittadini giapponesi con una nuova agiatezza fino a quel momento sconosciuta, salvo portare a galla dei nodi sociali aggrovigliati da un capitalismo spinto che nella sua equazione non aveva inserito benessere personale e giustizia sociale; il mercato azionario in espansione scoppiò, crollando assieme a quello immobiliare e soffocando così la crescita del Paese. Sia l’ossessione per la produttività che la conseguente crisi economica, con il suo carico di delusioni, spinsero per reazione la nascita di una ricca cultura alternativa che oggi rintracciamo nell’ispirazione manga e nelle iconografie kawaii.
Gli economisti giapponesi parlano degli anni Novanta e Duemila come di “decenni perduti” che hanno portato, insieme a quella economica, anche a una depressione psicologica, che ha causato tassi di suicidio tra i più alti del mondo industrializzato – una fama purtroppo ancora oggi legata al Giappone – e che ha dato luogo a tutto un lessico specifico per descrivere la nuova deprimente realtà non solo giapponese, ma sempre più endemica nel resto del mondo: trentenni che vivono con i genitori spendendo la propria paga in vestiti e discoteca invece di pianificare un loro futuro indipendente; hikikomori che abbandonano la società rifugiandosi nello spazio privato della propria casa o addirittura della propria cameretta, uscendone solo di rado; freeter, che passano la vita tra un lavoretto part-time e l’altro, e karoshi, letteralmente i morti per troppo lavoro.
È questo il contesto in cui emerge l’altra faccia della medaglia, coloratissima, rumorosa e spensierata: le sale giochi delle grandi città sono piene di adulti, che sfoggiano outfit fantasiosi e sopra le righe, per affollarsi poi ai festival di anime e manga vestiti da cosplay per incarnare un immaginario che è a tutti gli effetti una forma di resistenza contro la grigia regolarità che scandisce la vita di un lavoratore adulto e responsabile, uno sberleffo alle troppe pretese della società. Negli anni Novanta erano chiamati otaku, ovvero persone che si concentrano troppo sui propri hobby, anche a scapito di tutto il resto, ma poco a poco hanno smesso di essere considerati un fenomeno marginale, espandendosi sempre di più e arrivando negli Stati Uniti e in Europa, dove i fissati dei videogiochi, dei mattoncini da costruzione e dei giochi di società non sono più considerati nerd ma rappresentano una semplice espressione dei millennial. Gli idoli pop, intanto, hanno virato sulle voci efebe, sulle coreografie TikTok-friendly e sull’estetica giovanile, allargando il kawaii alle masse, mentre Hello Kitty è ormai un’icona dell’innocenza infantile su scala mondiale, valida anche – e soprattutto – per gli adulti, ovvero i bambini degli anni Ottanta e soprattutto Novanta.
Questa tendenza – ancor più dopo la crisi economica esplosa nel 2008 – è dilagata nel mondo anglosassone, spingendo gli esperti di media negli anni Dieci a inventare o riproporre neologismi per definirla, come rejuveniles, adultescents e addirittura kiddification, una sorta di “bambinizzazione” della società, insomma, attraverso l’ampliamento della sensibilità infantile, che secondo i critici – dai conservatori che difendono le tappe e i confini tradizionali che renderebbero la vita più facile e controllabile, ai progressisti che vi vedono invece un’erosione della realtà – non preparerebbe le persone al mondo reale. L’aumento della sensibilità infantile è infatti interpretato come una disfunzione, un rifiuto dell’autonomia, persino in alcuni casi un disturbo mentale, e per Sigmund Freud la regressione in termini psicologici è un “auto-sabotaggio”. I bambini, d’altronde, nel mondo contemporaneo sono visti troppo spesso come persone incomplete, improduttive, in definitiva inutili. Nel 2014 il New York Times titolava denunciando la morte dell’età adulta, e se non è una novità che ogni generazione dal dopoguerra in poi etichetti come fannullona, infantile, viziata e irresponsabile quella successiva, il fenomeno in questo caso non sembra essere facilmente liquidabile con un giudizio paternalista.
Abbracciare i nostri lati infantili è una risposta al mondo reale e alle pressioni che l’oggi ci impone – dalle difficoltà lavorative alla pandemia, dalla crisi climatica a quella economica, dalle pressioni sociali alla guerra. I dati ci dicono che i millennial statunitensi guadagnano il 20% in meno rispetto a quanto guadagnavano i boomer alla stessa età, mentre il costo della vita sale. Il Giappone dimostra come, nelle giuste circostanze, la regressione possa rappresentare non tanto un rifiuto di crescere ma, al contrario, una nuova forma di progresso, sperimentazione e gioco che può nutrire la parte più idealista e creativa di noi, che la quotidianità soffoca e schiaccia, in nome di un solo diktat: la produttività e l’obbedienza. Non si tratta di una resa, ma di un nuovo modo, più giocoso e colorato, di approcciare la vita adulta, che può anche aiutare a vedere il mondo con occhi nuovi, ad avere una prospettiva propria e non conformata a quella approvata dalla massa.
Rivolgersi al proprio “bambino interiore” non è necessariamente una negazione della realtà, ma può essere espressione di una ricerca di possibilità alternative e un segno di resilienza nei confronti dei tempi difficili in cui viviamo, tra giornate lavorative infinite a causa degli stipendi sempre troppo bassi, vicissitudini personali e notizie drammatiche dal mondo. Che si tratti di Hello Kitty o dei matrimoni a Disneyland, i passatempi e l’immaginario estetico infantile possono essere l’aspetto esteriore di una forma di resistenza alle troppe pretese e umiliazioni della vita adulta e, come dimostra l’esperienza giapponese, non è necessariamente una negazione della realtà, ma può anzi aprire la strada a vederla in modo nuovo, più umano e sicuramente più divertente; in fin dei conti, come l’infanzia è la pagina bianca di un libro ancora da scrivere, anche questa seconda infanzia può aprire nuove strade per reinventarsi. Prendere atto di questo fenomeno può quindi dare l’occasione per scrivere nuove regole per un’età adulta che non sia per forza responsabilità schiacciante, ritmi serrati e punizioni, ma che dia spazio al gioco, alla fantasia e alla libertà.