Giacomo Leopardi è il poeta “a cui la vita è male”. Lo sfigato degli sfigati, gobbo, brutto e pure vergine. L’unica ragazza che gli è piaciuta, Silvia, muore. Mentre tutti fanno festa, lui se ne sta chiuso nella sua camera di Recanati a guardare gli altri dalla finestra. A scuola te lo insegnano così: pessimismo individuale, poi storico, poi cosmico. Il poeta marchigiano è rimasto cristallizzato in un’eterna aura di tristezza e desolazione e risulta difficile immaginarselo giovane, ardente di desiderio e di slancio vitalistico. Ma Leopardi giovane lo è stato e a tratti anche felice: è lui stesso a dircelo, nei Pensieri, più noti con il nome di Zibaldone, monumentale raccolta di riflessioni in cui il poeta si interroga sui temi più disparati: “Questo stato divino l’ho provato io di sedici e diciassette anni per alcuni mesi ad intervalli”.
Quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario della sua poesia più famosa, “L’infinito”, conclusa nel 1819 all’età di ventuno anni, e pubblicata nella raccolta degli Idilli del 1826. Questa poesia è un perfetto esempio di quella che Rolando Damiani definisce una “sublime nevrosi dell’incompiutezza”. Il poeta ama farsi domande, non fornire risposte. Per questo il suo pensiero è così articolato: la sua è una sfida continua al rialzo. Leopardi non sente mai di essere giunto a una conclusione o a un punto di non ritorno, nemmeno quando approda a quello che viene convenzionalmente chiamato “pessimismo cosmico”. In questo senso, “L’infinito” è particolarmente significativo: gli “interminati spazi […] e sovrumani silenzi, e profondissima quïete” sono per lui la continua urgenza a osare di più, a spingersi oltre. Già questa considerazione basterebbe per smontare l’idea di un uomo triste, depresso e sfigato e a costruire quella di un intellettuale eternamente proteso in avanti, contrario a ogni tipo di immobilismo e rassegnazione.
Tra le domande che si fa, forse la più ricorrente è cosa sia la felicità, e se sia possibile raggiungerla. Nello Zibaldone, in effetti, questo lemma compare più di cinquecento volte. Il critico Vincenzo Guarracino si è occupato a lungo di come questo tema venga trattato nella poetica dell’autore, in particolare a partire da una frase delle sue memorie: “Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo”. Guarracino evidenzia come per Leopardi la felicità sia strettamente legata al dispositivo della memoria e quindi non può che essere un’esperienza conclusa e confinata nel passato. Questo però non significa che sia un obiettivo irraggiungibile e che quello che resta sia solo sofferenza: essendo la felicità per il poeta un’esperienza direttamente dipendente dalle condizioni materiali, possiamo accontentarci di soddisfare il nostro “desiderio infinito di piacere” continuamente. La felicità di Leopardi è quindi una felicità minuta ma schietta, semplice ma fremente, che si costruisce nel quotidiano.
Sappiamo che per Leopardi le condizioni materiali dell’esistenza non furono a suo favore, soprattutto per quanto riguarda la salute. Sono state fatte molte congetture sulla natura della sua malattia cronica: le più recenti sostengono che non fosse tubercolosi ossea o morbo di Pott, come si è sempre pensato, ma una malattia genetica rara, la spondilite anchilopoietica, manifestatasi verso i 16 anni. Leopardi, quindi, era una persona con disabilità che lamentava spesso delle difficoltà oggettive dovute alla sua condizione, ma che non per questo era depresso, a meno che non accettiamo l’idea che tutte le persone disabili abbiano necessariamente una vita infelice. Anzi, nello Zibaldone esalta con gioia ogni tipo di piccolo piacere: il sonno, i dolci, il vino, il tabacco, il gelato e persino la droga.
Per Leopardi era la felicità intesa come stato perenne a non essere possibile. Ma si può dire che chiunque abbia un minimo di realismo prima o poi arriva a una conclusione simile: non è possibile essere sempre felici, al massimo si possono fare cose che ci fanno stare bene, e ricordare con piacere e un po’ di nostalgia i rari momenti di autentica gioia. E Leopardi aveva fame di sentire e di vivere queste emozioni, di viaggiare, di divertirsi con gli amici. È vero, è considerato un precursore della filosofia nichilista (anche se la critica più recente ha ridimensionato questo aspetto), ha constatato prima di Nietzsche e di Heiddeger la vanità del tutto, ma questa sua visione non cozzava con il suo essere pieno di vita, testardo, appassionato, col non vedere l’ora di “speculare minutamente le viscere dell’amore”.
Ma forse l’esempio più vibrante ed entusiasta del vitalismo di Leopardi è contenuto nel suo epistolario, definito da Gianfranco Contini “uno dei più bei libri della letteratura italiana”. Gli amici, per Leopardi, sono una parte fondamentale della propria vita: ne ha molti e coltiva con cura il rapporto con loro, consolandoli nei momenti di difficoltà, raccontando loro le piccole sfighe e gioie quotidiane, aggiornandoli sulle sue nuove letture e interessi. Questa attitudine la si può leggere in un estratto del suo epistolario curato da Marco Federici Solari, Con pieno spargimento di cuore, che cerca di raccontare Leopardi in una nuova veste. Così, in una lettera del 1820 al mentore Pietro Giordani il poeta si chiede “come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo”. Oppure, per cercare di confortarlo nella sua depressione, fa notare al maestro che “se la felicità vera si potesse conseguire in qualunque modo, la realtà delle cose non sarebbe così formidabile”.
Leopardi era un ribelle che odiava ogni tipo di autorità. La sua alta considerazione della libertà come condizione necessaria per la felicità è evidente sin dal noto piano fallimentare elaborato a 21 anni per fuggire dalla casa paterna, proprio con la complicità di Pietro Giordani. Di lì a poco comincerà a scrivere le Operette morali e il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, dove la sua idea politica di rigetto antiautoritario assumerà una forma più sistematica. Ma già nel 1821 scriveva al suo editore Pietro Brighenti: “Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terraqueo. Il mondo è fatto al rovescio […]. E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo”. Leopardi contesta il mito del progresso – che secondo lui nasconde sempre un’idea di dispotismo – e lo fa con un’ironia sagace e tagliente e con la volontà di scuotere le coscienze.
A duecento anni dalla composizione della poesia più bella della letteratura italiana, decostruire l’idea di Leopardi come un poeta sfigato e passivo dinnanzi alla realtà è più che mai necessario. La sua ostinata caparbietà, le sue ambizioni emotive e sentimentali sconfinate e la profondità del suo pensiero ne fanno ancora oggi una figura che non merita di essere relegata a uno stereotipo da manuale di italiano per le scuole superiori. In questo senso, non si può non citare l’operazione culturale che più si è avvicinata a questo intento, ovvero il film biografico del 2014 Il giovane favoloso, diretto da Mario Martone e che è valso un David di Donatello al protagonista Elio Germano. Quest’opera ha il merito indiscusso di aver realizzato una delle più belle letture ad alta voce de “L’infinito” e di aver reso più accessibile al grande pubblico il lato più umano e spesso trascurato del poeta.
D’altronde è Leopardi stesso a metterci in guardia dall’errore che tutti commettono da oltre due secoli. “È soltanto per effetto della viltà degli uomini”, scrive nel 1832 all’amico francese Louis de Sinner, “che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche con il risultato delle mie sofferenze personali. […] Prima di morire, protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregherò i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie”.
Ricordare Leopardi senza cadere nella semplificazione contro cui lui stesso ci ha messi in guardia è un atto dovuto. Non solo nei confronti della memoria del più grande poeta della nostra storia, ma anche del nostro piacere. Per naufragare meglio nel “dolce mare” che è il suo pensiero.