Germano Celant è stato la figura più importante di 50 anni di arte italiana

Mentre il sistema dell’arte cerca nuove forme e soluzioni per adattarsi al distanziamento sociale e alla ripartenza dopo la chiusura forzata a causa della pandemia di COVID-19, il mondo ha perso una delle figure tra le più incisive del panorama artistico: Germano Celant. Lo storico dell’arte, critico e curatore italiano ha contribuito a modellare con la propria visione il modo di organizzare le mostre come oggi tutti ne fruiamo, ha aggregato talenti e inventato nuove definizioni.

Nato a Genova nel settembre del 1940, pochi giorni prima dell’invasione italiana dell’Egitto durante la seconda guerra mondiale, Celant fu allievo del critico Eugenio Battisti, iniziatore del Museo sperimentale d’arte contemporanea e fondatore della rivista Marcatré. Portavoce delle avanguardie, vi venivano pubblicati saggi di architettura, design, musica, letteratura, arte contemporanea, e nel comitato direttivo riuniva esperti di più discipline come Umberto Eco, Diego Carpitella ed Edoardo Sanguineti. Fu lavorando come segretario di redazione che Celant apprese da quell’ambiente la capacità di dilatare il proprio campo di indagine e di iniziare a sperimentare la cross-pollination, come lui la chiamava, che diventerà uno degli elementi caratterizzanti del proprio lavoro: le contaminazioni tra le arti. Il curatore sviluppa infatti la sua indagine non considerando singolarmente le varie discipline, ma indagandole una in rapporto all’altra e nella loro fusione, trasformando l’arte nel tassello di una visione più ampia.

Alla fine degli anni Sessanta radunò attorno a sé un gruppo di artisti tra cui Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Emilio Prini per dare vita a uno dei movimenti più innovativi dell’ultimo secolo. Mutuando l’espressione dal teatro del regista polacco Jerzy Grotowski, lo chiama “Arte povera”, per definire il rifiuto dei mezzi tradizionali come la pittura e la scultura e la scelta di impiegare materiali più umili, come il legno e gli scarti industriali. Contrapponendosi all’imperante società dei consumi che la Pop Art incarnava meglio di ogni altra corrente, l’Arte povera mirava a riconquistare il rapporto tra l’uomo e la natura e a rendere centrale il momento pragmatico della realizzazione dell’opera.

Germano Celant, Courtesy Lia Incutti Rumma Archive, fotografia di Bruno Manconi, 1968
Giulio Paolini e Germano Celant, Galleria Toselli, Milano 1973
Alighiero Boetti in uno scatto di Enrico Cattaneo

“Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx) […] L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto”, scrive nei suoi Appunti per una guerriglia, il manifesto pubblicato su Flash Art il 23 novembre 1967, due mesi dopo la mostra “Arte Povera – IM Spazio” alla Galleria La Bertesca di Genova, in cui, dividendoli in due gruppi, aveva presentato artisti emergenti connotati dalla rottura estetica e formale verso l’arte di quegli anni. Non inventa nulla, ma il suo sguardo era stato capace di cogliere movimenti già in atto: “Questo testo nel suo farsi è già lacunoso. Siamo infatti già alla guerriglia.”

Il suo modo di essere curatore non era accademico, ma militante, improntato sul vivere l’esperienza degli artisti insieme a loro, sostenendoli e condividendo l’organizzazione della mostra, senza mai esserne solo interprete teorico. L’impegno di promuovere l’arte italiana nel mondo e di importare il contemporaneo americano – la performance, la land art – lo ha portato a realizzare mostre nei musei più importanti: Identité italienne (1981) al Centre Pompidou di Parigi, Italian Art in the 20th Century: Painting and Sculpture (1989) alla Royal Academy of Arts di Londra e Futurismo & Futurismi (1986) a Palazzo Grassi a Venezia, con cui per primo riscattava il Futurismo dall’ostracismo che aveva subìto perché considerato fascista. L’importanza maggiore nel tentativo di far conoscere il made in Italy in America l’acquisì l’esposizione The Italian Metamorphosis, 1943-1968 realizzata nel 1994 al Guggenheim Museum di New York, dove Celant aveva assunto l’incarico di senior curator già da anni. Definita dal curatore “uno sbarco alla rovescia“ e recensita dal New York Times come esplicativa del fatto che “la storia dell’arte italiana del dopoguerra è in parte la storia di un dialogo transatlantico con l’America, ma non – come tendono a pensare gli americani sciovinisti – una in cui l’Italia è rimasta solo a guardare”, la mostra conteneva 850 lavori e raccontava i tempi dalla caduta del fascismo al boom economico e agli anni della contestazione.

Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970
Jannis Kounellis, Untitled, 1969
Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto 1967, foto di Jean-Pierre Dalbéra
Mario Merz, Igloo di Giap, 1968

The Italian Metamorphosis, 1943-1968 è il preludio a quello che diventerà il Celant più maturo, perché sembra già contenerne tutti gli elementi identificativi. La capacità di coltivare contatti internazionali, l’approccio multidisciplinare – nel catalogo scriveva: “L’esposizione di un’epoca culturale non dovrebbe ammettere limiti. È la storia delle immagini e delle idee, dei progetti e delle personalizzazioni, degli oggetti e dei documenti, e per questo motivo è doveroso che contenga ogni linguaggio estetico” – e la passione per la collaborazione con grafici, architetti e designer, che in questo caso si concretizzava nell’allestimento realizzato da Gae Aulenti. La sua idea era concepire un luogo in cui vivere insieme alle opere, qualcosa che non si limitasse a essere una proiezione bidimensionale da guardare o da visitare.

Celant considerava l’architettura come come una pratica di convergenza tra arte e disciplina architettonica, non solo tecnica, ma soggettiva e intuitiva, spettacolare e comunicazionale. Riprendendo il concetto della visione sferica del filosofo Peter Sloterdijk, nella raccolta di saggi Architettura + Design 1965-2015 affermava: “Il porsi dinanzi allo spazio, per risolverne la funzionalità e l’espressività è risolto oggi attraverso una progettazione che non vede l’architettura e il design come linguaggi paralleli e distinti, ma integrati e quasi coincidenti. Entrambi si sono estesi l’uno nell’altro per attuare una visione sferica nella quale gli oggetti si fondono con l’ambiente e gli spazi si tramutano in comunicazione oggettuale”. Il critico d’arte contribuì a coniare anche la definizione di “Architettura radicale”, con cui raggruppava tutti quegli architetti che intorno agli anni Settanta proponevano una prospettiva visionaria e quasi utopica. Mal recepiti dal sistema italiano, si ritrovarono costretti a trovare più ampio spazio di manovra nell’ambito del design, mettendo in discussione i principi del Bauhaus e promuovendo un nuovo rapporto tra forma e funzione.

Le sue mostre più recenti sono state ricognizioni o ricostruzioni, o un insieme delle due cose, e da questo punto di vista l’esibizione forse più importante, prima delle maestose ultime come Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943 alla Fondazione Prada di Milano e quella su Emilio Vedova a Palazzo Reale, è stata When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013. Dialogando con l’artista Thomas Demand e l’architetto Rem Koolhaas, Celant ha ricostruito Live in Your Head. When Attitudes Become Form (1969) negli spazi settecenteschi di Ca’ Corner della Regina a Venezia, una mostra passata alla storia per l’innovativa pratica curatoriale di Harald Szeemann. Con lui Celant condivideva l’essenza da freelance, che gli permetteva di lavorare con gallerie e musei pur restando indipendente e libero, e quindi non soggetto a priori a vincoli di sorta dettati dalla proprietà, e l’idea che il significante di un’opera possa mutare in relazione al contesto e agli altri artefatti con cui dialoga. Attraverso un intervento architettonico temporaneo, il critico genovese parte dalla piantina originale della Kunsthalle di Berna per ricrearne gli spazi nell’edificio veneziano, ricollocando le stesse opere nelle stesse identiche posizioni e lasciando dei tratti in gesso là dove giacevano le opere della mostra originale che non si era potuto prendere in prestito. L’esibizione di Szeemann diventa allora una sorta di ready-made: la mostra come opera d’arte.

Archizoom Associati, Safari, 1968. Firenze, Centro Studi Poltronova
Utopie Radicali. Foto di Dario Lasagni, courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, 2018

Nella sua lunga carriera Celant fu direttore della prima Biennale di Firenze Arte e Moda del 1996 e della Biennale di Venezia nel 1997. Dal 2015 era stato nominato direttore artistico di Fondazione Prada, con cui due anni prima aveva ricevuto il The Agnes Gund Curatorial Award, premio promosso dall’Independent Curators International (ICI) di New York, accanto a Miuccia Prada “per i loro contributi al mondo dell’arte contemporanea, per l’attività a livello internazionale della Fondazione Prada e per la mostra When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013” e nello stesso anno aveva curato alla Triennale di Milano, come mostra satellite di Expo 2015, Arts&Food per cui era finito al centro di numerose polemiche. La stampa italiana, avversa alle lingue straniere, aveva confuso il budget dell’esposizione con la fee del curatore.

Sono innumerevoli le mostre che ha curato, così come i cataloghi e le monografie, che aveva reso dei volumi di riferimento grazie agli apparati scientifici, spesso curati in collaborazione con professionisti straordinari, e sempre studiando il contesto sociale e politico per connettere l’opera alle proprie origini. “Celant da un lato ha saputo dare un’autorità magistrale al contemporaneo”, come ha raccontato la storica Carolyn Christov-Bakargiev, ”mettendo in fila l’oggettività delle opere, dei documenti, delle mostre, e grazie a lui l’arte della nostra contemporaneità può assumere la stessa serietà e significatività che riconosciamo al Rinascimento o al Barocco”. Dotato di un forte impulso commerciale e capace di essersi creato anche un personaggio solido – sempre vestito di nero, la chioma argentea, le dita ornate di anelli a mo’ di amuleti – mai banale e sempre coerente con se stesso. Controverso, certo, ma ora che è venuto a mancare non si può che ripensare alla sua figura con una frase semplice e diretta, quella con cui Thomas Demand apre la lettera di commiato presente tra i tanti ricordi pubblicati da Fondazione Prada in questi giorni: “Germano Celant was a monument”. Celant era un monumento dell’arte e, come tale, ci ha lasciato un’immensa eredità.

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