Crogiolarsi nel concetto di multitasking è diventato lo sport preferito del terzo millennio. Svolgere più azioni contemporaneamente è ormai sinonimo di ottimizzare il tempo. Provo a immaginare uno studente che prepara il suo esame di filologia romanza. Gli auricolari trasmettono una canzone dei Mogwai, perché ha bisogno di rilassarsi con una musica di sottofondo. Nel frattempo sullo schermo della TV l’agente Cooper comunica a Diane di trovarsi nella ridente cittadina di Twin Peaks. Il computer è acceso su una playlist casuale di Youtube, dove si alternano video di Willwoosh che fa esplodere le tazze nel microonde e trailer di Wes Anderson. Un’esperienza estremamente multitasking, non c’è dubbio. Eppure lo studente non sta capendo nulla di quello che c’è scritto sul libro, sta ascoltando la musica in modo superficiale, non riesce più a distinguere Guglielmo Scilla da Bill Murray ed è in procinto di avere una crisi di nervi. Però potrà mettere come foto profilo su Facebook la bambina col binocolo di Moonrise Kingdom.
La dottoressa Catherine Middlebrooks, dell’Università di Los Angeles, ha realizzato uno studio che rivela come portare a termine più compiti contemporaneamente peggiori la memoria. Secondo la Middlebrooks dividere la nostra attenzione non è per niente un vantaggio nell’apprendimento, poiché alcune informazioni vengono sacrificate e il nostro cervello immagazzina solo le principali. Tutte le altre evaporano, senza lasciarci nulla di tangibile. Il multitasking diminuisce la produttività e la creatività, mentre aumenta in modo esponenziale la distrazione. La University of London rincara la dose con una ricerca dai risultati quasi inquietanti: gestire più attività cognitive simultaneamente porterebbe il QI di una persona a livelli simili di chi ha passato una notte insonne o di chi ha fumato marijuana. Addirittura, l’attività celebrale arriverebbe a essere comparabile a quella di un bambino di otto anni.
Le informazioni di ogni tipo da cui siamo quotidianamente bombardati crea nella mente umana un numero eccessivo di stimoli. Invece di dilatare la risposta a questi stimoli nel tempo, svolgendo una singola attività per volta, veniamo assaliti dalla smania di metterli in pratica tutti insieme.
Prendiamo la scena del sacchetto che ondeggia nell’aria in American Beauty, è l’esempio di un’emozione indotta: osserviamo una scena allo schermo, dove a sua volta è presente un altro schermo che riproduce il volo del sacchetto sospinto dal vento. Possibilmente fermiamo l’immagine per fotografare con lo smartphone il fotogramma che preferiamo. Nel mentre riceviamo messaggi su Whatsapp, condividiamo la foto, facciamo ripartire il film, leggiamo le risposte nella chat, stoppiamo nuovamente il film perché un altro amico ha inviato un video di gattini che saltano in aria terrorizzati da un cetriolo sul pavimento, riprendiamo la visione del film, lo interrompiamo perché abbiamo bisogno di condividere la foto su Facebook. Serve però una didascalia adeguata. Cerchiamo un aforisma sulla libertà. Non apriamo nessun libro, digitiamo su Google “frasi sulla libertà”. Troviamo una frase di Bukowski. Foto condivisa. Facciamo ripartire il film, ma con un occhio controlliamo i like e le notifiche. Cosa abbiamo assorbito? Nulla.
La cruda verità è che siamo stati fregati proprio sul termine “multitasking”. Nell’accezione comune ci riallacciamo alla capacità di fare più cose insieme. Il termine, in realtà, ha origini ben diverse, e parte dalle funzioni del computer. Quando viene chiesto a un sistema informatico di eseguire i processi A e B, la velocità estrema ci induce a pensare che i processi vengano svolti contemporaneamente. Non è così. Il passaggio dal processo A al processo B è repentino (context switch), ma sono due fasi separate. Dunque il computer lavora in multitasking, ma facendo sempre una cosa alla volta. E ha anche la capacità di registrare tutte le informazioni a ogni passaggio. Noi esseri umani no.
Earl Miller, neuroscienziato americano del MIT di Boston, spiega in modo esaustivo questi processi. Anche se siamo convinti di lavorare parallelamente su più cose, passando da uno stimolo all’altro, in realtà il processo è seriale: ci concentriamo sempre su una cosa alla volta. Quando cerchiamo di risolvere un problema, e poi siamo distratti da “altro”, abbiamo bisogno di ricominciare da capo, perché il cervello necessita di un’ulteriore energia mentale per ricollocarsi al punto di partenza – a differenza di un computer. Riassumendo il concetto di Miller: il multitasking provoca un deficit cognitivo che genera una serie di errori dovuti alla mancanza di attenzione.
Qualunque significato si voglia attribuire al termine multitasking – quello originario, oppure quello comune e distorto del “faccio tante cose contemporaneamente” – la sostanza non cambia: ci stiamo rincoglionendo. “Trovami un modo semplice per uscirne,” chiederebbe Alberto Ferrari dei Verdena. C’è chi ha inventato tecniche, più o meno bizzarre, per venirne a capo. Una di queste è la “tecnica del pomodoro”, inventata dal programmatore Francesco Cirillo. La teoria è semplice: un pomodoro misura 30 minuti, 25 di lavoro e 5 di pausa. Bisogna scegliere all’inizio della giornata un’attività da svolgere, e sarà solo quella, senza distrazioni (concesse soltanto nei cinque minuti di pausa). Ogni quattro pomodori la pausa può allungarsi. La regola ferrea è ovviamente quella di non sgarrare nei 25 minuti dedicati alla concentrazione massima su una sola attività. Conviene quindi spegnere il telefono, il computer e stare alla larga da ogni sorta di distrazione.
Sì, sembra ridicolo doversi affidare a tecniche strampalate con il solo scopo di svolgere un’attività in santa pace. Non possiamo però fare altrimenti, quando siamo invischiati nelle sabbie mobili della distrazione. Oltretutto questi continui sbalzi dell’attenzione hanno ripercussioni anche a livello fisico. Secondo Daniel J Levitin, neuroscienziato della McGill University, questi processi aumentano il cortisolo (conosciuto come “l’ormone dello stress”) e fanno schizzare l’adrenalina in circolo. Inoltre il passaggio rapido da un’attività all’altra fa bruciare più energia al cervello, causandoci una sensazione di stanchezza.
Forse dovremmo semplicemente smettere di considerare il multitasking una dote, una skill dei tempi moderni che ci consente di gestire al meglio le nostre attività. In primis per la contraddizione sul termine multitasking, e poi perché è esattamente il contrario, considerando gli studi analizzati. È soltanto il sintomo della fast-generation, di quel “tutto e subito” che somiglia pericolosamente al concetto di “usa e getta”. Siamo convinti di poterci districare tra diverse azioni, di essere portatori sani di una multifunzionalità che in realtà non esiste. Tutto questo aumenta la superficialità, non l’efficienza. È forse una necessità del nostro tempo, per non restare indietro. Per non venir spazzati via dal vento, come un sacchetto di plastica che galleggia nell’aria.