
Il 2018 è stato l’anno dei romanzi distopici, che hanno ottenuto in generale recensioni positive e ottimi successi di vendita, come Vox di Christina Dalcher, Ragazze elettriche di Naomi Alderman (a onor del vero uscito nel 2016 e pubblicato in Italia a dicembre 2017) e, per restare in ambito italiano, La festa nera di Violetta Bellocchio e Miden di Veronica Raimo. Questo ritorno della distopia o dell’ucronia, generi molto popolari dopo la fine della seconda guerra mondiale, potrebbe essere dovuto all’onda lunga provocata dalla riscoperta, a più di trent’anni di distanza, de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, grazie soprattutto alla serie tv Hulu The Handmaid’s Tale, ma c’è anche altro.
Queste nuove distopie sono radicalmente diverse da capostipiti del genere come 1984 di Orwell o Fahrenheit 451 di Bradbury. La prima differenza è che le autrici di queste narrazioni sono soprattutto donne. La seconda è che non raccontano le estreme conseguenze di un regime totalitario di tipo nazionalsocialista, come accadeva nei vecchi romanzi, ma preferiscono enfatizzare gli aspetti della vita presente che tutti noi sperimentiamo e conosciamo, come ad esempio le ingiustizie della società patriarcale. Si può dire che le nuove distopie non mettono più in scena il futuro come lo immaginiamo (dominato da un governo oppressivo come nel film Brazil o dalla tecnologia come ne Il mondo nuovo di Huxley), ma il futuro come lo conosciamo, e cioè come un’evoluzione problematica del presente.

I nuovi romanzi distopici provano a mettere in discussione l’idea che abbiamo del concetto di futuro, inevitabilmente collegata alla nostra idea di tempo, basata sul fatto che il passato corrisponde alle cose che sono state, il presente a quelle che sono adesso e il futuro a quelle che verranno. Spesso molte delle azioni che commettiamo nel presente come singoli e come collettività, dal mettere da parte un po’ di soldi per comprare una macchina nuova al firmare l’accordo di Parigi sul clima, vengono compiute in previsione di un futuro che ci immaginiamo più o meno migliore. Oggi risparmio così fra due anni guiderò un’auto nuova, oggi gli Stati dell’Onu si impegnano in un contratto così nel 2020 avremo contenuto l’aumento della temperatura media globale.
E se il modo in cui abbiamo pensato il futuro fino a ora fosse completamente sbagliato?
Nel suo recente saggio Xenofemminismo, Helen Hester solleva un punto molto importante, riprendendo le riflessioni del teorico Lee Edelman contenute nel suo saggio No Future. Secondo Edelman, il nostro modo di pensare il futuro è viziato dal concetto dalla cosiddetta “teoria del Bambino”, che continua a essere “L’orizzonte perpetuo di ogni politica ammessa, il fantasmatico beneficiario di ogni intervento politico”. Quante volte abbiamo sentito i politici dichiarare di compiere delle scelte “per il futuro dei nostri figli”, da Salvini che deve sempre “dircelo da papà” a Renzi?
La retorica del “Bambino” funziona particolarmente bene nell’ambito dell’attivismo ambientalista, che Hester indaga a fondo. Gli interventi a tutela dell’ambiente vengono spesso pubblicizzati da immagini di bambini che giocano nei prati o fra gli alberi, perché l’infanzia è l’incarnazione della nostra idea di futuro. Però quest’idea è limitante: il cambiamento climatico va contrastato se non vogliamo che fra trent’anni i nostri figli vivano in una fornace, e su questo siamo tutti più o meno d’accordo. Ma in realtà il cambiamento climatico sta affliggendo e deteriorando anche le nostre vite di adulti, in questo preciso momento, e compiere scelte politiche di tutela ambientale solo in previsione del bene del Bambino può significare ignorare o sottovalutare i problemi che stiamo vivendo adesso. Non si può immaginare di salvare il pianeta del futuro ignorando la conservazione di quello esistente. Edelman fa notare che “l’immagine disciplinare del Bambino [è] ovunque, mentre le vite, i discorsi e le libertà degli adulti sono esposti alla costante minaccia di restrizioni legali rispetto a questi Bambini immaginari”.
Con l’ecologismo vediamo un’applicazione fallace della retorica del Bambino, pur partendo da una buona intenzione. Il problema più grave che spesso viene usata per limitare la libertà altrui, come avviene nel caso dei movimenti pro life, che vogliono impedire l’autodeterminazione della donna e delle persone queer per la salvaguardia del Bambino: invocando l’immaginario del figlio (spesso anche iconograficamente, mostrando fotografie false e manipolate di feti che somigliano a neonati già formati) nel primo caso, oppure prefiggendosi di salvare i bambini dalla “propaganda gender” nel secondo, questi movimenti non fanno altro che limitare o addirittura cercare di sopprimere la libertà delle persone.
Hester e Edelman ci mettono in guardia dalla retorica del Bambino perché è un dogma che gerarchizza l’importanza delle vite e dei corpi, stabilendo quali sono importanti e quali no. Edelman risponde con un rifiuto categorico non solo del futurismo riproduttivo (cioè invocando un mondo senza figli), ma del futuro tout court, appellandosi al “No Future” anarchico del titolo del suo saggio. Hester preferisce una posizione più moderata, facendo notare che l’anti-natalismo può trasformarsi in una forma di dominio sulla donna, come è accaduto in passato con le sterilizzazioni forzate negli Stati Uniti.
Uscendo dall’ambito della giustizia riproduttiva, si può notare che la retorica del Bambino come forma di repressione funziona in tutti i campi. Negli anni Ottanta la politica del There is no alternative di Margaret Thatcher puntava tutto sull’austerità in nome di un futuro migliore. È finita che i cosiddetti Children of Thatcher, ovvero quei Bambini che le politiche conservatrici avrebbero dovuto salvare, oggi possiedono metà della ricchezza dei loro genitori. Un fallimento per i genitori che persero il lavoro (con i tassi di disoccupazione più alti della storia britannica dal 1930) e per i loro figli.
L’appello al Bambino funziona bene perché ci tocca nel profondo, richiamando un’immagine che è sempre positiva, innocente e intoccabile e che per questo viene usata dai politici di tutte le fazioni per annunciare sia i tempi duri per l’economia che i vari successi. Ma intanto, mentre siamo preoccupati a “pensare ai bambini”, il mondo intorno a noi va a rotoli e noi siamo i primi a subirne le conseguenze.
Pensare sempre e soltanto al futuro come a un’entità astratta incarnata nell’immagine del Bambino è il modo migliore per scrollarsi di dosso la responsabilità delle proprie azioni, perché nell’idea di futuro c’è la speranza di un miglioramento che oggi non è possibile, ma domani chissà. Al contempo, in questa speranza risiede anche il sollievo che passeremo il testimone a qualcun altro, che prima o poi dovrà assumersi la responsabilità delle nostre azioni presenti.
Le distopie e le ucronie contemporanee piacciono non perché ci angosciano con l’idea di come sarebbe il mondo se, ad esempio, i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, ma perché ci mettono di fronte alle responsabilità dell’oggi che scegliamo sistematicamente di ignorare. Hanno un approccio coraggioso nei confronti del futuro, ne rigettano la natura consolatoria preferiscono adottare il qui e ora come punto di vista del futuro. Donna Haraway, altra importante pensatrice femminista, nel suo Manifesto Cyborg invitava a “trovare un altrove”, un futuro immaginario per ripensare il presente. Si può dire che questi nuovi romanzi ci stiano provando e in parte riuscendo.

Già Edgar Morin, negli anni Sessanta, diceva che “la prima difficoltà nel pensare il futuro è pensare il presente”. Se vogliamo un futuro, non possiamo permetterci di indugiare ancora nell’idea che ne abbiamo sempre avuto. Ci troviamo nell’antropocene, una nuova era geologica in cui l’impronta dell’uomo sul pianeta è irreversibile. Ogni nostra azione ha delle conseguenze che non possiamo ignorare e deve essere compiuta non per il bene del Bambino immaginario, ma per noi stessi come adulti e per i nostri figli come persone.
Quello che succederà domani lo possiamo lasciare alla fantasia degli scrittori, ma quello che accade oggi nelle nostre scelte sociali, politiche ed economiche è affar nostro.
