Nell’autunno del 1960 la Scat, l’azienda che si occupava dei trasporti catanesi, decise di inaugurare una corsa riservata solo “a signore e signorine”. Da un giorno all’altro, la linea 27 che partiva da Piazza Duomo e arrivava fino alla zona industriale della città venne scorporata in due: da una parte si aspettava “Concettina”, l’autobus per le operaie, mentre dall’altro lato arrivava il cosiddetto bus “coi baffi”, su cui potevano salire soltanto gli uomini. La Scat aveva pensato che quella fosse l’unica soluzione per evitare che le passeggere del 27 venissero quotidianamente molestate dai passeggeri uomini, che non si facevano problemi a toccare, pizzicare o anche solo provocare verbalmente le viaggiatrici. L’autobus per sole donne fece scalpore in tutto il mondo e persino un quotidiano argentino ne parlò, in un articolo intitolato “Sicilianos fogosos” (Siciliani focosi). Questa vicenda rende bene l’idea di quanto fosse ancora difficile la vita delle donne in Italia, soprattutto nel Meridione, dove venivano spesso e volentieri considerate proprietà degli uomini.
Qualche anno dopo, sempre in Sicilia, scoppiò un caso destinato a mostrare quanto questa situazione fosse ormai insostenibile. Franca Viola si ritrovò suo malgrado a diventare il simbolo di una battaglia necessaria contro un’Italia bigotta e maschilista che, come mostra il film Sedotta e abbandonata, era pronta a ridimensionare qualunque comportamento. All’inizio del 1964, mentre nelle sale usciva la pellicola di Pietro Germi ambientata proprio sull’isola, la quindicenne Franca iniziò a frequentare un ragazzo più grande di nome Filippo Melodia. Melodia era nipote del un mafioso locale Vincenzo Rimi, capostipite di una famiglia molto temuta e potente di Alcamo, il centro del trapanese dove vivevano i Viola. Quando non sfrecciava per le strade del paese a bordo della sua Giulietta bianca, era facile trovare il ragazzo, sempre armato di pistola, al bar Calypso o a casa della prostituta Anna Oddo. Quando venne formalmente accusato di furto e legami con la mafia, Bernardo Viola impose alla primogenita di tagliare i ponti con il ragazzo, già più che ventenne, che emigrò per un breve periodo in Germania.
Una volta tornato in Sicilia, Melodia provò subito a riconquistare la ragazza che credeva sua, ma ricevette una serie di rifiuti netti, prima da Bernardo Viola e poi da Franca stessa, che nel frattempo si era impegnata con un altro ragazzo. Incapace di accettare un no, Filippo iniziò a perseguitare la famiglia Viola: prima bruciò la casetta di campagna e poi sradicò in una notte le cinquecento piante di vite dalla proprietà di Bernardo. Melodia arrivò a liberare un gregge di pecore (secondo alcune versioni si trattava di una mandria di mucche) su un campo di pomodori dei Viola appena seminato.
Il giorno di Santo Stefano del 1965, vedendo che le sue intimidazioni non sortivano alcun effetto, Filippo Melodia decise di prendersi quello che voleva con la forza. Dopo aver devastato l’abitazione dei Viola insieme a un’altra decina di persone, il ragazzo rapì Franca e suo fratello di otto anni, che aveva provato a proteggerla. Il bambino venne liberato dopo poche ore mentre Franca rimase nelle mani del suo aguzzino per otto giorni, segregata prima in un casolare di campagna e poi nella casa della sorella dell’uomo. Franca Viola venne lasciata a digiuno e dopo un paio di giorni di sequestro subì la prima violenza sessuale. A Capodanno, alcuni parenti di Melodia si presentarono alla porta di Bernardo Viola per organizzare la “paciata”: a Franca sarebbe bastato accettare il matrimonio riparatore con il suo sequestratore per essere liberata e salvare il suo onore e quello della famiglia.
Il 2 gennaio 1966, a casa della sorella del rapitore, venne quindi organizzato un incontro tra Filippo, la ragazza e suo padre: l’assenso di Franca Viola e della sua famiglia alle nozze a quel punto sembrava a tutti una formalità. Nessuno in Sicilia aveva mai preso in considerazione un’altra soluzione. Il matrimonio riparatore era una pratica comune e accettata, tanto da essere riconosciuta dall’articolo 544 del Codice penale, che recitava: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. In pratica, per la legge italiana, l’autore di una violenza sessuale poteva evitare il procedimento penale a suo carico combinando le nozze con la sua vittima, spesso una minorenne. In caso contrario, la pena per questo tipo di reati era comunque vergognosamente mite, e andava dai sei mesi ai tre anni di reclusione.
Contro ogni aspettativa, Franca, appoggiata dai familiari, decise di denunciare Melodia: quel giorno di gennaio, al confronto tra le due famiglie si presentò quindi anche la polizia e l’aguzzino venne incarcerato nell’attesa del processo. Su di lui pendevano quindici capi d’imputazione, tra cui violenza carnale, ratto e sequestro con violenza e minaccia a mano armata. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, molti dei 46mila abitanti di Alcamo non si schierano però con i Viola: per tanti la scelta di Franca stava disonorando anche l’intero paese e suo padre. Ormai sul lastrico, l’uomo non riusciva più a trovare un’occupazione per mantenere la famiglia perché nessuno voleva offrirgli un lavoro, anche solo per non mettersi contro i Rimi e i Melodia. Alla fine, grazie a un intervento politico da Roma, Bernardo Viola venne assunto alla Sicilgesso, ma fu costretto a licenziarsi poco dopo per il clima ostile degli altri dipendenti.
A metà dicembre del 1966, undici mesi dopo il rapimento, iniziò il processo a Trapani con una sentenza di rinvio a giudizio di 474 pagine. Nonostante le proteste della difesa, i giudici decisero che ogni udienza sarebbe stata a porte aperte, tranne che per le deposizioni di Franca Viola e del suo carnefice. Il caso appassionò l’Italia, spaccandola di fatto in due fazioni. In aula, Franca dichiarava con fermezza: “Io non sono proprietà di nessuno, l’onore lo perde chi le fa certe cose non chi le subisce”.
Nessuna ragazza siciliana aveva mai avuto il coraggio di parlare pubblicamente in maniera così netta. In quei mesi Lieta Harrison, nata a Ragusa da padre americano e madre britannica, pubblicò Le svergognate, un libro sulla situazione delle donne nell’isola. Nella sua prefazione al volume Pier Paolo Pasolini scrisse: “Da una inchiesta sulla vita sessuale e nella fattispecie siciliana una cosa risulta sicuramente: la persistenza del più inimmaginabile conformismo, l’inconcepibilità di una rivoluzione”. Il lavoro di Harrison ebbe un istantaneo successo, dimostrandosi un efficace resoconto dei pregiudizi che regolavano e condizionavano i rapporti tra i sessi dei siciliani, ben rappresentati anche nelle aule del tribunale di Trapani.
Davanti alla corte, Melodia intanto negava ogni possibile colpa mentre la sua difesa si concentrava nel dipingere Bernardo Viola come un padre padrone, determinato a tenere divisi due amanti. In un colloquio preliminare, l’imputato dichiarò: “Nel dicembre 1964, appena tornato dalla Germania, potevo vedere la mia ex fidanzata solo quando attraversavo la strada in cui viveva, senza poter scambiare una parola con lei. In questo periodo, dato che il mio unico interesse era sposare la già citata Franca Viola in un modo o nell’altro, ricominciai a passare più spesso da casa sua. Viola effettivamente non sembrava più darmi troppa attenzione ma, d’altra parte, non appariva neanche infastidita dalle mie maniere”.
Anna Oddo, che in istruttoria aveva testimoniato di aver ascoltato Melodia e il resto della sua banda progettare il rapimento, ritrattò tutto in aula, sostenendo di non ricordare più nulla. Il processo diventava ogni giorno sempre di più di interesse pubblico, evidenziando i contrasti tra il nord e il sud del Paese. L’avvocato di parte civile Alberto Dall’Ora sottolineò in aula come la tradizione del ratto, radicata in Sicilia, non potesse essere considerata più importante delle leggi vigenti sul territorio nazionale. I difensori di Melodia risposero presentando i loro assistiti come “bravi ragazzi”, messi alla gogna da una stampa lontana e incapace di capire come funzionassero le cose al Sud e in particolare sull’isola: “Si occupino degli amici del nord, degli amori di Sofia Loren e non vengano qui a fare i Don Chisciotte. La Sicilia si difende da sé con i suoi monumenti, con i suoi eroi, noi siamo gente arsa dalla salsedine”, dichiarano nelle loro arringhe riportate sul Corriere, in cui si difendeva anche l’articolo 544, dipinto come “una disposizione che favorisce la donna e le dà modo di rimediare al danno subito”.
Il processo si chiuse alla fine con la condanna di Filippo Melodia a undici anni di reclusione. Scarcerato nel 1976, fu ucciso a Modena il 13 aprile 1978 con un colpo di lupara sparato da ignoti. Dei suoi complici, sette finirono in carcere mentre altri cinque vennero assolti per insufficienza di prove. Tutti tornarono poi a vivere ad Alcamo, incrociando spesso Franca Viola per le strade del paese ma, stando a quanto detto da lei, non riuscirono mai più a guardarla negli occhi.
Negli anni seguenti, ad Alcamo i matrimoni riparatori continuarono e non sembrò essere cambiato nulla nella vita degli abitanti. In realtà, il caso Viola aveva lasciato una traccia importante nella mente di tutti, anche fuori dalla Sicilia. La storia di Franca segnò un punto di svolta nel pensiero comune. La rivoluzione dei costumi italiani del Sessantotto iniziò di fatto molto prima, anche grazie a giovani come lei, diventata più o meno volontariamente icona della lotta per l’emancipazione femminile nel nostro Paese. Proprio nel 1968, Franca sposò Giuseppe Ruisi, amico d’infanzia che l’aveva amata e sostenuta anche in quel momento difficile della sua vita. Hanno avuto due figli e non si sono mai lasciati.
La vicenda ispirò il film La moglie più bella di Damiano Damiani, uscito nel 1970 con una giovanissima Ornella Muti nei panni di Franca Viola. Anche questo dimostra come quanto accaduto fu a tutti gli effetti la miccia per iniziare un dibattito che, quasi vent’anni dopo, portò finalmente all’abrogazione dell’articolo 544, il 5 agosto del 1981. Nel 1996, lo stupro venne definitivamente riconosciuto in Italia come un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica, con conseguente inasprimento delle pene previste. L’8 marzo 2014, Franca Viola fu nominata Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Presidenza della Repubblica italiana perché, con il suo esempio, aveva contribuito a cambiare la mentalità di un intero Paese.
In un’intervista rilasciata nel 2015 a Concita De Gregorio, la donna si è detta felice e sorpresa per il corso della sua esistenza: “Chi se lo poteva immaginare che sarebbe stata una vita così bella. Perché poi la storia grande nella vita delle persone è una storia piccola. Un gesto, una scelta naturale. Io per tantissimi anni non mi sono resa conto di quello che mi era successo. Quando mi volle vedere il Papa, il giorno del mio matrimonio, chiesi a mio marito: ma come fa il Papa a sapere la nostra storia, Giuseppe?”. La verità è che allora tutti conoscevano la vicenda di Franca Viola e tanti ancora la ricordano oggi: il suo coraggioso rifiuto rimane di ispirazione per tutte quelle donne che combattono per l’uguaglianza e la parità e che, anche grazie a lei, hanno imparato che a volte la storia si fa anche con un “no”.
Per prima, Franca Viola dimostrò non soltanto che il matrimonio riparatore era un’usanza incompatibile con uno stato moderno, ma anche che è giusto ribellarsi a una legge che si ritiene ingiusta. Forse senza nemmeno volerlo, insegnò una grande lezione che il femminismo, che di lì a pochi anni sarebbe esploso anche nel nostro Paese, avrebbe fatto propria: il cambiamento sociale e il miglioramento della condizione femminile non può che partire dal basso per arrivare fino alle istituzioni.