Franca Valeri è stata la prima, vera, anti-diva italiana. Dobbiamo celebrarla.

Sembra passata una vita da quando quel fatidico 14 maggio 2020 il Presidente Giuseppe Conte, durante la conferenza per il Decreto Rilancio, si tirava da solo la zappa sui piedi con un’uscita a dir poco infelice. “E non dimentichiamo i nostri artisti che ci fanno divertire” è la frase che ha scatenato molte polemiche nel mondo dell’arte italiana, una realtà che tuttora risente delle pesanti conseguenze del lockdown. Non credo che Conte volesse essere esplicitamente offensivo con dei professionisti, quelli dello spettacolo, spesso in Italia relegati al ruolo di giullari di corte, ma il suo discorso tradisce un luogo comune tanto radicato quanto deleterio: un po’ come quando si sostiene che frequentando i licei non si impari un mestiere, che le facoltà umanistiche siano uno spreco di tempo e che tutto ciò che non produce qualcosa di materialmente “utile” sia secondario, allo stesso modo attribuire al lavoro artistico un’accezione tanto riduttiva risulta un approccio superficiale e gretto. Peraltro, riuscire a far divertire è una delle cose più difficili da fare, e per farlo bene è necessario talento e impegno. C’è una donna che oggi, il 31 luglio del 2020, compie 100 anni e che rappresenta la prova vivente – insieme a tanti altri colleghi e colleghe che l’hanno accompagnata nel corso di un secolo – di quanto far divertire sia una cosa serissima: Franca Valeri, un’artista diventata simbolo del Novecento italiano, uno degli esempi più chiari di come la comicità, l’intrattenimento e il senso di comprensione, analisi, identificazione e critica che ne derivano siano elementi centrali per l’identità e lo sviluppo culturale di qualsiasi luogo.

Franca Valeri e Totò in “Totò a colori”, Steno (1952)

Vivere cento anni deve essere un’esperienza interessante, specialmente se li si è trascorsi al centro della storia. Franca Maria Norsa, questo il suo vero nome, fa parte di quella generazione che si è forgiata nella transizione di un’era che ormai ci sembra lontana anni luce e che è in realtà molto più vicina di quanto possiamo credere. Nata in una famiglia alto-borghese di Milano, da una madre cattolica e da un padre ebreo – combinazione religiosa che negli anni Trenta significava dover essere pronti a perdere qualsiasi cosa per salvarsi la vita. Come succedeva infatti a chi aveva il vantaggio sociale di potersi permettere la fuga, Franca Valeri ebbe la “fortuna” di poter contare sulla sua metà cattolica per non essere deportata dopo l’emanazione delle leggi razziali, grazie a un documento falso che le attribuiva il cognome della madre, mentre il padre fuggiva come molti in quegli anni in Svizzera, con i gioielli di famiglia cuciti nel cappotto da vendere per sopravvivere. Sentire queste storie a distanza di così tanto tempo, per noi che abbiamo solo letto libri e visto film a riguardo, suona sempre un po’ come un racconto talmente lontano dalla realtà in cui siamo cresciuti da risultare difficile da immaginare. Eppure, Franca Valeri era là quando il nostro Paese era una dittatura fascista, quando venivano deportati amici, conoscenti, parenti, quando Mussolini venne appeso in Piazzale Loreto. E ancora oggi, quando lo racconta a distanza di quasi un secolo, sottolinea il senso di liberazione provato nel vedere con i propri occhi il Duce morto, quel sentimento che solo chi ha vissuto la rabbia della persecuzione può comprendere fino in fondo e che molti, come Valeri, hanno trasformato in una rinascita nazionale, con il boom economico e l’esplosione culturale che ha seguito quel ventennio buio della nostra storia. 

“Il segno di Venere”, Dino Risi (1955)

Franca Valeri, infatti, è diventata una narratrice del suo tempo: così come tutti quegli artisti che individuano gli elementi che caratterizzano l’essenza del mondo e degli esseri umani per descriverli. L’attrice meneghina, sopravvissuta alle leggi razziali e ben determinata a diventare un volto centrale dello spettacolo – nonostante non sia stata poi ammessa all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico – utilizzò la sua inclinazione comica per tratteggiare delle caricature di personaggi che sono entrati di diritto nella nostra tradizione, come tante maschere. Personaggi ricorrenti e riconoscibili a colpo d’occhio, una serie di ritratti antropologici resi in modo tanto dettagliato e preciso da risultare universali. Una definizione del mondo circostante, della società e dei suoi elementi più paradossali – e per questo divertenti, ridicoli, catartici – che fa un doppio salto acrobatico di abilità descrittiva, non solo per la complessità che risiede nel creare personaggi comprensibili a tutti, ma anche per la difficoltà di essere una donna in un mondo che ancora doveva compiere enormi passi verso la parità. Sembra un dettaglio secondario, ma non lo è affatto: se già oggi per una donna creare un racconto di immedesimazione universale equivale a uno slalom tra pregiudizi e facili etichette “in rosa”, in anni in cui ancora tutto ciò era taciuto creare ciò che ha creato Franca Valeri era davvero un’impresa. 

Valeri, infatti, oltre alla sua lunga esperienza teatrale – in particolare con la Compagnia Gobbi, con cui lavorava anche in Francia insieme al marito Vittorio Caprioli e Luciano Salce – e cinematografica, diretta da registi come Fellini o De Sica e recitando accanto ad Alberto Sordi – insieme al quale nasce il famoso “Cretinetti” ne Il Vedovo di Dino Risi – e a Totò, giusto per dirne due, è stata soprattutto una grandissima sceneggiatrice, una monologhista che ha portato in televisione una scrittura ironica, intelligente: satirica. Una missione che per una donna di quegli anni – ma non solo – non aveva nulla di scontato, dal momento che doveva misurarsi non solo con i famosi mattatori della comicità italiana, ma anche con la stessa dimensione televisiva che, proprio in quegli anni, diventava centrale per l’Italia del boom economico. Non stupisce quindi che da anziana, in alcune interviste, individui con estrema lucidità nella televisione recente la causa di una retrocessione della condizione femminile, dal momento che le lotte e le conquiste hanno determinato paradossalmente una mercificazione più cruda ed esplicita della femminilità in un mondo mediatico che Franca Valeri non solo conosce benissimo, ma che ha contribuito a rendere un luogo di cultura accessibile, ma non per questo rozza. Franca Valeri è una sorta di antesignana della stand up comedy più dissacrante fatta di monologhi e centralità della scena, un metodo di espressione che si regge sul carattere del singolo, quasi del tutto privo di scenografia e con un ritmo costante, privo di interruzioni o interventi esterni. 

Alberto Sordi e Franca Valeri in “Il Vedovo”, Dino Risi (1959)

Prima ancora dei personaggi, sono i temi che sceglie di rappresentare Valeri a rendere le sue creature immortali. Si tratta di una comicità caratterizzata da un’attenzione accurata per alcuni dettagli densi di significato, argomenti che oggi definiremmo più che relatable: la borghesia, la maternità, le due anime italiane in perenne competizione e contraddizione, ma anche complementari, sinergiche, ossia lo spirito produttivo milanese e quello strafottente romano, due stereotipi caratteriali che si rispecchiano in tutto il Paese, in modi diversi, ma seguendo principi simili. La femminilità di Franca Valeri, che sottolinea ancora oggi quanto si sia sentita per certi versi estranea al femminismo ma che ha fatto la cosa più femminista di sempre, ossia cambiare la storia con il suo lavoro in un’epoca di subalternità ed esclusione, si esprime con la parodia del rapporto madre-figlia, con la presenza matriarcale invadente e assillante e con la necessità imprescindibile della prole di tenersi aggrappata a questo cordone ombelicale infinito. La sora Cecioni, personaggio più che celebre inventato e interpretato dalla comica in televisione, è un distillato di italianità: una romana svampita, affaticata, sempre a metà tra lo svogliato e l’indolente, ma in costante contatto con una madre onnipresente che sente in continuazione per telefono in una conversazione immaginaria che va avanti per decenni. Chiunque, guardandola, sa perfettamente cosa sta avendo luogo nell’animo di sora Cecioni, chiunque riconoscerebbe quel modo di parlare, di interpretare il mondo circostante che Valeri mette in scena con una semplice cornetta del telefono. Una iper-comunicazione che anticipa in modo sorprendentemente acuto e cinico il modo in cui oggi viviamo perennemente in contatto tra di noi – tra messaggi su Whatsapp, storie su Instagram, direct su Twitter, e qualsiasi altro mezzo abbiamo a disposizione – rinforzata dal racconto stanco e apprensivo verso la figura materna. 

“Parigi o cara”, Vittorio Caprioli (1962)

Se la sora Cecioni è un distillato di romanità, un personaggio che godeva dell’approvazione di Aldo Fabrizi e incaranva con le sue parole strascicate quel senso di provincialità tipica del nostro Paese, la “Signorina snob”, altro personaggio centrale della carriera di Valeri, fa un ritratto ben diverso della donna italiana. Si tratta infatti di una caricatura della borghesia, la sciura milanese che vive nell’alto del suo distacco dal reale, sempre pronta a sciorinare le doti di qualche nuovo prodotto rarissimo e introvabile, una nuova moda, un nuovo trend, un ultimo grido imperdibile. Anche in questo caso, Valeri mette in scena un tipo umano talmente universale e ridicolo nella sua altezzosità borghese da anticipare una sorta di influencer anni Sessanta, da boom economico, pronta a mettere in mostra i suoi infiniti modi di non fare nulla, di godersi la bella vita, di stare al mondo seguendo la giusta etichetta, il giusto costume. Alle volte poi, il personaggio della signorina snob, che Franca Valeri conosceva molto bene essendo anche una parodia di se stessa e del mondo meneghino alto-borghese da cui proveniva – altra storia rispetto alla Cecioni ma non per questo meno provinciale, meno divertente – incontra “Cesira la manicure”, altra creazione dell’attrice milanese, altro carattere prototipico della società italiana che diventa immediatamente comprensibile per tutti e tutte.

Franca Valeri con i suoi cento anni ha attraversato tutta l’Italia non solo nel tempo, ma anche nei suoi strati sociali, nei suoi tipi umani, nelle sue variazioni antropologiche; sempre composta e sobria, con uno stile perfettamente riconoscibile anche nel modo di vestire e di apparire in pubblico – caschetto castano, occhiali cat-eye, rossetto rosso – è il simbolo di una televisione pulita, che puntava a far salire il livello della comicità, non ad abbassarlo per legittimare qualsiasi cosa pur di fare ascolti. Con i suoi personaggi, le sue donne, i film in cui ha recitato – non molti, ma tutti concentrati più o meno nello stesso periodo – e poi, ovviamente, il teatro, ma anche la musica, da grande appassionata d’opera, è stata in grado di alzare il livello dell’intrattenimento popolare per renderlo universale ed elegante. E quando ci viene in mente che il divertimento possa essere solo un banale diversivo, una distrazione senza spessore, non dobbiamo dimenticarci di chi, come lei, ha saputo raccontare il nostro Novecento proprio grazie a quelle banali risate.

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