La sera del 9 marzo del 1973, Franca Rame viene affiancata da un furgone in via Nirone, a Milano. Costretta a salirvi, viene torturata e violentata a turno da cinque esponenti dell’ambiente neofascista, che le spaccano gli occhiali, le feriscono viso e corpo usando una lametta, le spengono addosso alcune sigarette. Viene poi abbandonata, in stato confusionale. Si tratta di uno stupro punitivo: i violentatori sono eversori di destra che vogliono farle pagare le sue idee politiche e le sue battaglie civili. Lo stupro vuole ferire la donna, zittirla, umiliarla, “darle una lezione”. Fortunatamente, però, non sempre la violenza riesce in questo intento e può succedere che dall’episodio doloroso nasca un’opera d’arte che, che dà voce al trauma, parla del dolore che tante altre donne hanno subìto, trasformandosi in un potente mezzo di denuncia. È quello che è riuscita a fare Rame, superando la vergogna e la sofferenza del rievocare quei fatti.
Attrice, drammaturga e attivista, Franca Rame cresce fin da bambina nel mondo del teatro, essendo nata nel 1929 in una famiglia di lunga tradizione teatrale, legata al mondo delle marionette. Quando a vent’anni incontra Dario Fo è già un’attrice. La loro relazione è insieme una storia d’amore e un sodalizio artistico e politico indissolubile. Si sposano nel 1954 e l’anno dopo nasce il figlio Jacopo. Non si fermano mai, tra la compagnia teatrale che porta i loro nomi, il collettivo Nuova Scena fondato nel 1968 – quando aderiscono al movimento della contestazione –, e il gruppo di lavoro La Comune; ma anche il Soccorso Rosso, organizzazione da loro fondata negli anni di piombo in sostegno dei condannati di sinistra.
Rame non nasconde mai le sue idee e non rinuncia a esprimerle, anche attraverso il registro della comicità, assieme al marito. Lo fa sia a teatro che in tv, sperimentando il linguaggio televisivo nazionalpopolare con la conduzione di Canzonissima, nel 1962, in cui insieme a Fo approfitta del largo pubblico per diffondere le proprie denunce – esperienza poi terminata per le forti polemiche scatenate dal loro sketch dedicato alla sicurezza sul lavoro, in cui un costruttore edile si rifiuta di dotare di misure di sicurezza la propria azienda. Negli anni Zero Rame mette il suo impegno a servizio della politica istituzionale, diventando senatrice, ma constata poi che le istituzioni sono “impermeabili e refrattarie a ogni […] sollecitazione […] non proveniente da chi è espressione organica di un partito o di un gruppo di interesse organizzato”, come dirà in occasione delle sue dimissioni, nel 2008.
Fin dagli anni Settanta Rame è anche attiva nel movimento femminista, a cui dà il suo contributo artistico con spettacoli quali Tutta casa, letto e chiesa (1977) e, più tardi, nel 1994, Sesso? Grazie, tanto per gradire che denuncia, sempre con l’autoironia che la contraddistingue, l’ipocrisia e l’ignoranza che circondano il tema del sesso. Il primo, incentrato sulla condizione femminile, in particolare sulle servitù sessuali della donna, debutta a Milano, alla Palazzina Liberty, nel 1977, e verrà messo in scena in tutto il mondo. Lo spettacolo ritrae diverse donne, dalla casalinga che trascorre le sue giornate chiusa in casa da sola, alienata, a fare i mestieri, alla “mamma fricchettona”, e riflette sulla condizione femminile usando una chiave comica che lascia l’amaro in bocca. Proprio in Tutta casa, letto e chiesa entra a far parte il monologo, scritto nel 1975, che assume il punto di vista di una donna violentata, in cui vengono ripercorsi minuto per minuto le sensazioni e i pensieri dell’accaduto, in un modo così intenso e tragico che alcune persone tra il pubblico sverranno durante la rappresentazione.
Inizialmente, Rame dice di aver preso il racconto da una testimonianza letta su Quotidiano Donna e solo nel 1987 dichiarerà che il suo monologo ripropone quanto subìto in prima persona. Il brano non denuncia solo chi l’aveva sottoposta a quella tortura, ma anche la doppia violenza, subìta da tante donne, derivata dal non essere credute o dell’essere ridicolizzate proprio da parte di quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerle. Un timore che, pensando a cosa l’avrebbe aspettata entrando in caserma per sporgere denuncia, la porta a concludere: “Li denuncerò… domani”. Nella presentazione del monologo, l’autrice riporta infatti le parole che alcuni avvocati, poliziotti e medici erano soliti rivolgere alle donne che sporgevano denuncia: “Lei ha goduto? Ha raggiunto l’orgasmo? Se sì, quante volte?”. Un atteggiamento colpevolizzante largamente diffuso all’epoca, quando lo stupro veniva considerato dalla legge un crimine contro la morale e non contro la persona (è stato così fino al 1996), come mostra in modo sconcertante il documentario Processo per stupro (1979). Tutto ciò oggi non è stato ancora superato, né dentro, né fuori dai tribunali. Con quel rapimento, Franca Rame è stata colpita per le sue prese di posizione, portate avanti con coerenza anche in teatro, è stata colpita perché era una donna scomoda. Rame ha pagato per le sue idee e per quelle del marito, con cui ha sempre condiviso l’impegno civile e il palcoscenico: eppure è stata lei sola a essere presa di mira.
Nonostante anni dopo un pentito farà i loro nomi, i responsabili del crimine non verranno mai arrestati perché il reato era ormai stato prescritto. Verrà però appurato l’inquietante progetto nel quale rientra lo stupro di Rame, in cui sono coinvolte anche parti deviate dello Stato. La portata politica della violenza subìta dell’attrice non è, infatti, un’interpretazione a posteriori, ma una verità storica: sono stati alcuni ufficiali dei Carabinieri a ordinare lo stupro, come testimoniato nel 1987 dall’ex neofascista Angelo Izzo, in carcere per il massacro del Circeo – non creduto perché ritenuto poco attendibile – e confermato davanti al giudice istruttore Guido Salvini dall’esponente della destra milanese Biagio Pitarresi.
Tra i violentatori figurano Angelo Angeli, “un certo Muller” e “un certo Patrizio” secondo le parole di Pitarresi. Questi afferma: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni Carabinieri della Divisione Pastrengo”, che, tra depistaggi e coperture, era collusa con l’eversione nera. Durante le indagini per la strage di Bologna del 1980 è stata anche rinvenuta una nota dell’ex dirigente dei servizi segreti Gianadelio Maletti che riguardava un litigio tra i generali Giovanni Battista Palumbo, futuro comandante proprio della Pastrengo, e Vito Miceli, futuro capo dei Servizi Segreti, in cui il primo rinfacciava al secondo “l’azione contro Franca Rame”. Secondo Nicolò Bozzo, generale dei Carabinieri, Palumbo non sarebbe il mandante dello stupro di Rame, ma l’esecutore di “una volontà molto superiore”. I mandanti non sono mai stati individuati, né la verità giudiziaria acclarata, perché all’epoca delle testimonianze di Pitarresi scatterà la prescrizione.
Eppure Franca Rame, nonostante tutto, ha vinto, sconfiggendo la violenza con la parola pronunciata in teatro, davanti a un folto pubblico, come atto di denuncia. Non ha cercato di superare il trauma fra le mura di casa o nello studio di uno psicanalista – o almeno non solo – come i mandanti avrebbero voluto: lo ha fatto, invece, con il mezzo d’espressione più spontaneo per un’artista come lei, parlando davanti a centinaia e, nel caso della televisione, addirittura milioni di persone. Il monologo Lo stupro si ribella alla violenza di genere come manifestazione di un rapporto diseguale nel quale gli uomini prevaricano e discriminano le donne; il brano rientra in quello che, nelle parole di Fo, è il teatro dei due artisti, sempre preoccupati di considerare l’azione dei personaggi nel contesto dello scontro di classe, come ha messo in luce anche Camilla Zamboni nel suo studio Il teatro come denuncia e strumento di espressione del popolo. C’è sempre, cioè, un interesse verso il contesto storico e sociale dei fatti narrati, che assumono così un chiaro connotato politico. Come Fo ha voluto denunciare gli abusi dei potenti e la condizione delle classi subalterne (ad esempio in Morte accidentale di un anarchico, sul caso Pinelli), così Rame ha denunciato la condizione di subalternità femminile, usando il teatro come mezzo artistico per esprimere la sua critica.
Oggi siamo abituati a pensare che con la cultura non si mangi, che sia un vezzo fine a sé stesso, improduttivo. In realtà l’arte e il teatro sono da sempre mezzo di riflessione sulla realtà e strumento di denuncia delle sue storture, fin dai tempi del “castigat ridendo mores” della satira classica per arrivare al teatro civile contemporaneo di Marco Paolini. Così anche quello di Rame è un teatro di contemporaneità, che alla realtà circostante si ispira, attinge materiale e dà voce alle vittime, agli ultimi, ai perdenti. Lo stupro parte da un’esperienza autobiografica e la rende universale. E proprio per questa sua abitudine a non abbassare mai la testa Rame è stata colpita. Quella di usare il corpo femminile come campo di battaglia è una lunga storia che non è ancora arrivata alla fine, per questo il suo monologo non ha mai smesso di parlare al pubblico di tutto il mondo. Rame si è spenta, ma la sua denuncia è, purtroppo, ancora attuale.