Okay, non poteva che rivelarsi una cattiva idea. Avevo 15 anni quando ho deciso di unirmi all’Alleanza per la libertà dei lavoratori, una setta di circa ottanta persone che si autoproclamavano uniche portatrici delle tradizioni della rivoluzione russa. Quando tre anni dopo sono scappato ho capito quanto fossero folli le loro idee. La vera forza di una setta non è mai nella sua dottrina politica o religiosa, quanto nelle trappole psicologiche che è in grado di creare, quelle che le permettono di sradicare le persone dal loro contesto, dalle loro stesse case, per fonderle insieme in un gruppo omogeneo e isolato.
La disciplina del culto non è semplicemente imposta dal leader di turno: quando decidi di unirti a una setta lo fai liberamente, e di certo non a cuor leggero. Anche la mia dedizione era assoluta. Quando vedevo abusi sessuali, o sentivo parlare di “reclutamento orizzontale” (che in pratica significava reclutare nuovi membri andandoci a letto) e di bullismo violento, imputavo tutto alle “mele marce”. Sono rimasto scioccato quando ho visto uno dei membri principali insistere perché una giovane donna abortisse pur di non venire meno ai suoi doveri da adepta. E insieme, ero io stesso a controllare con rigore le regole della setta contro l’”assenteismo”, che costringevano i membri a subordinare ogni aspetto della loro vita (denaro, tempo libero, relazioni) alle attività quotidiane del gruppo.
Quando decidi di mollare, da ex-membro di una setta non provi solo sollievo, ma anche senso di colpa. Nel guardare film o leggere articoli di ex-seguaci di Scientology che denunciano i loro ex-compagni di fede è difficile credere che ne siano davvero usciti: sembrano rimasti intrappolati nella logica della setta, nel suo credo, nel suo suo modo di inglobare ogni cosa in una lettura del mondo totalizzante. Anche se ora la capovolgono, descrivendola sotto una cattiva luce, la setta resta al centro delle loro preoccupazioni e non riescono davvero a riprendere una vita normale. In fondo al gruppo fa comodo che si lamentino del gruppo con il gruppo, piuttosto che con qualcuno che non c’entra nulla.
Far parte di una setta è un’esperienza formativa. Nel mio caso ha sostituito gli ultimi anni della mia adolescenza. Io ero diventato un membro a tutto tondo, rinunciando a qualsiasi altro momento libero della mia vita – e anche all’impegno scolastico. All’epoca vivevo in un villaggio sperduto ed ero isolato sul piano sociale. Dopo il divorzio dei miei genitori e la partenza di mia sorella, il David giovane e alcolizzato era pronto farsi assorbire da una causa totalizzante. I miei genitori pagavano qualcosa come 10mila sterline l’anno per farmi frequentare una scuola privata, ma io decisi comunque di abbandonare la mia formazione e la mia vita di adolescente in favore di quello che ritenevo un dovere più impellente: lavorare per “la rivoluzione”.
La mia intelligenza accademica, posh e asociale mi ha reso ricettivo alle concezioni politiche del gruppo, formato da sedicenti lavoratori e dominato in realtà da borghesi socialmente disagiati come me: per i suoi militanti la prassi rivoluzionaria consisteva nella guerra di posizione contro altri gruppi molto simili attraverso discussioni pedanti e la diffusione di un giornale quasi illeggibile. Il fatto che più o meno la metà di loro avesse frequentato Oxford o Cambridge veniva presentato (anche da loro stessi) come una prova della loro dedizione: la rinuncia a ogni comfort borghese per vivere la vita di un rivoluzionario.
La vera dinamica nascosta dietro l’evocazione continua della capacità della classe operaia di liberarsi dal giogo del capitalismo traspariva nella politica di colonizzazione che la setta imponeva alle carriere dei propri membri. Dottorandi in storia o in letteratura delle migliori università del Paese erano mandati a lavorare come conducenti di autobus o impiegati nelle stazioni ferroviarie, nella speranza di penetrare dall’interno nel sindacato dei lavoratori dei trasporti. Questa pratica veniva mascherata dalla necessità di porsi in relazione con la classe operaia, ma in realtà celava una realtà molto più banale: l’impossibilità di attrarre lavoratori con famiglie – o chiunque avesse avuto anche un briciolo di buon senso. Io stesso a 17 anni ho rifiutato un posto all’Università di Oxford per un impiego di quel tipo.
Da membro della setta, i miei molteplici compiti occupavano dalle 70 alle 80 ore della mia settimana, organizzando in particolare le attività della sede di Londra nord e curando il notiziario settimanale dei lavoratori della metropolitana di Londra, guadagnando solo una paghetta per pagarmi i pasti. La grandiosa “costituzione” della setta richiedeva un impegno assoluto in tempo e denaro, e persino l’assenza per malattia richiedeva un permesso, e una prova. Ricordo ancora molto chiaramente quando un membro è stato espulso per aver partecipato al Pride piuttosto che a un evento della setta. Solo i vertici erano ricompensati più generosamente, come quel gentiluomo che, dopo gli immancabili studi a Oxford, aveva lavorato fino a quasi quarant’anni come “rappresentante degli studenti” in giro per le università d’Inghilterra. Il fatto che questo rivoluzionario parlasse apertamente del suo metodo di “reclutamento orizzontale” mostrava le sue priorità e la totale fusione tra la politica del gruppo e il suo microcosmo sociale.
Non solo la mente degli studenti veniva manipolata: nella setta dilagavano anche le aggressioni sessuali e le violenze fisiche a soprattutto a danno di giovani donne. Tutte le denunce andavano incontro a un processo ben oleato di “discussioni private” e “inchieste” interne e finivano per essere giustificate. Quando avevo sedici anni, fuori di me dopo una serata alcolica, sono stato violentato da un organizzatore dell’Alleanza molto più vecchio. La cosa si è ripetuta, ma lui non ha subito alcun provvedimento in seno alla setta. Il paradosso è che questi episodi, accaduti poco dopo la mia adesione, sono stati decisivi nel garantire la mia lealtà al gruppo. Avevo già gettato all’aria i miei studi e tagliato i ponti con la maggior parte dei miei amici d’infanzia; in quel momento mi sono lasciato schiacciare dalla paura di creare problemi parlando di ciò che era successo. Dalla mia prospettiva infantile, in loro vedevo un gruppo di studenti ventenni affascinanti e preparati, mentre a scuola ero circondato da adolescenti ancora più socialmente disagiati. Dopo essermi trasformato in un emarginato sociale, le aggressioni sessuali mi hanno posto davanti a una scelta: avrei potuto credere che ero stato ingenuo, che mi ero fatto ingannare e che la mia ribellione era stata solo una stupida e spericolata fase adolescenziale, oppure mi sarei potuto convincere del fatto che il mio stupratore non era altro che una mela marcia, una persona cattiva che nulla aveva realmente a che fare con la gloriosa causa rivoluzionaria.
Questo presunto “partito politico” era assolutamente contrario a qualunque mobilitazione sociale che non avesse organizzato da sé e contrapponeva il suo purismo da manuale al riformismo e all’opportunismo di chiunque si sporcasse le mani con la vera politica. I suoi membri, me compreso, sembravano comunque straordinariamente preparati in storia, per non dire ossessionati, ed erano in grado di citare una serie di prove per screditare qualunque idea di socialismo che non fosse la loro. Una visione del mondo a primo impatto coinvolgente, ma completamente autoreferenziale.
Può sembrare stupido aver pensato che gruppi come questo avrebbero davvero potuto sperare di influenzare la politica reale, ma la rivoluzione russa del 1917 ne era un magnifico esempio. Secondo Leon Trotskij i socialisti che avevano resistito contro le passioni nazionaliste durante la prima guerra mondiale erano appena una manciata. Spesso si diceva che anche i bolscevichi erano in poche centinaia qualche mese prima della rivoluzione. La setta a cui mi sono unito era un esempio di trotskismo, cioè di un gruppo che rivendica la tradizione di Lenin e Trotskij ma è contrario ai partiti comunisti e alla socialdemocrazia riformista. Le aggressioni di Stalin e l’omicidio di Trotskij hanno creato una proliferazione di minuscole sette isolate dal movimento operaio e in guerra tra loro, convinte di sostenere lo spirito tradito della rivoluzione del 1917.
Pochi altri gruppi trotzkisti erano invasati come l’Alleanza per la libertà dei lavoratori, che aveva ereditato da quella tradizione anche un complesso di persecuzione e la completa impermeabilità alle critiche esterne. Il nostro approccio a qualsiasi questione politica – dalla guerra in Iraq al nostro consiglio di voto per le elezioni all’estero, in Paesi in cui non avevamo nemmeno membri o seguaci – si basava interamente sulle riletture dei testi di Leon Trotskij. O meglio, sui testi della setta che fornivano interpretazioni dell’autore. Si può imparare dal passato, ma questo tipo di approccio era a dir poco religioso e accettava in maniera incondizionata il rigore tecnico delle sue idee. L’unico modo per sollevare un argomento che contraddicesse la logica del pensiero di Trotskij era rifarsi a critiche già mosse da un leader della setta nei decenni precedenti. Anche se la cultura del gruppo non ha assunto la forma di un’aperta venerazione dell’idolo vivente, le occasionali battute sul suo maldestro stile di scrittura andavano di pari passo con un’accettazione incondizionata del rigore teoretico delle sue idee.
Non fu il rendermi conto di tutto questo a spingermi ad abbandonare l’Alleanza. Il gruppo mi chiese di rompere un’amicizia personale che avevo all’infuori della politica, minacciandomi e insistendo che avevo sottoscritto un “giuramento di fedeltà”, pena l’esclusione. Questa è stata la fine. O lo sarebbe stata se la setta non avesse passato il decennio successivo a molestare me – e persino mia madre ha ricevuto minacce – inseguendomi per strada, insultandomi, scrivendo lettere false e ingiuriose ai miei capi: per loro ero diventato un esempio di rinnegazione e di rinuncia alla causa della difesa della “classe operaia”, rappresentata solo da quella piccola setta.
Anche nei partiti meno dominati da dinamiche settarie, la forza del coinvolgimento nella causa e la sua delusione spesso inducono gli ex-credenti a rinnegare la propria gioventù. In Italia questo è più evidente tra gli ex-comunisti, e, non ultimi, tra i politici e gli storici determinati a dimostrare, al pubblico o se stessi, che hanno sostituito l’atteggiamento utopico dell’adolescenza con il vangelo del realismo. Rimpiazzano la lotta per il riscatto della classe operaia con la ricerca di una redenzione personale incentrata sulla riconciliazione con lo status quo. Spostano il loro attaccamento altrove, senza abbandonarlo veramente.
Questo non significa che quelli che rimangono si dimentichino di coloro che se ne sono andati. Storicamente tutte le religioni hanno previsto un premio per chi denunciasse apostati e rinnegati. In passato, e a volte anche oggi, il potere dello Stato ha permesso la soppressione fisica di coloro che non accettavano di conformarsi. Così la stessa dinamica che unisce il gruppo nell’attaccare in modo ossessivo chi è fuggito prevale anche in sette piccole e marginali, altrimenti incapaci di dimostrare la fede di quelli che rimangono. Il motivo per cui attaccano il traditore sul loro giornale, o bullizzano la sua famiglia, non è un tentativo di riconquistarlo.
Mi piacerebbe dire che ho imparato qualcosa da questa esperienza. Se l’ho fatto, è avvenuto molto lentamente e con una grande sofferenza psicologica. Abbracciare una setta che attira la tua attenzione dicendoti che ciò che hai da dire è corretto indipendentemente da ciò che qualcuno potrebbe pensare (purché segua la linea prescritta) è il segnale di un’autostima non del tutto sviluppata. Ma lo è anche stare in silenzio di fronte a tutta questa sofferenza.