Nella società di cui faccio volente o nolente parte dal luogo in cui scrivo, Milano, non si canta. Non si parla nemmeno ad alta voce, e men che meno si fa rumore battendo le mani, o i piedi. È sconveniente, è fastidioso, urta una sensibilità che ci vuole silenziosi. Sembra ricordare all’improvviso e in maniera tangibile un rimosso molto doloroso per un sistema di norme che l’ha ricacciato nello statuto dei tabù. “Non fare confusione!”, quante volte d’altronde ce lo siamo sentiti ripetere dai nostri genitori, e più in generale da una comunità stanca, esaurita “da tutto il resto”, dalla vita considerata vera, seria: e quindi dal lavoro, dai sacrifici, dai fantasmi della povertà e della guerra, ma anche da una morale asfissiante, come se “cantare”, cedere alla melodia, o peggio ancora, al ritmo, fosse qualcosa di concesso solo in determinati luoghi, le discoteche; solo a un determinato prezzo; solo in un determinato tempo, la notte. A Milano (e no, non è un fenomeno che si estende a tutto il nord Italia, anzi) si sta in silenzio, si parla a voce bassa: questo è decoroso. Non si fischia, non si canticchia. Perché è strano, perché qualcuno ti guarderà molto probabilmente male. Così si nota tutta la rigidità e lo spaesamento tra gli elementi della piccola folla che vengono investiti dai “rumori”, che mano a mano che il tempo passa vengono decodificati in ritmi e riconosciuti in quanto tale, di Sole crushing, l’installazione site-specific realizzata dall’artista marocchina Meriem Bennani nel Podium di Fondazione Prada, e che insieme al film di animazione For Aicha, prodotto da Fondazione Prada e proiettato al piano di sopra va a comporre la mostra “For My Best Family”, attiva fino al 24 febbraio 2025.
Con Sole crushing, Bennani – la cui ricerca non ha paura di indagare e lasciarsi contaminare dalle tecnologie digitali – ci riporta bruscamente e in maniera del tutto viscerale a una dimensione analogica dell’esistenza. 192 ciabatte di gomma, animate da un sistema pneumatico organizzato secondo forme che ricordano i vecchi Luna Park, suonano quella che può essere definita una coreografia polifonica composta da Reda Senhaji, conosciuto come Cheb Runner. Una sinfonia di percussioni di 45 minuti ispirata alle tradizioni musicali marocchine, tuttora vivissime, e in particolare alla deqqa marrakchia, che dà vita in maniera spontanea e intuitiva, come una sorta di improvvisazione, a una dinamica di temi e contro-temi, richiami e risposte tra i partecipanti (proprio come accade anche nella musica barocca occidentale).
Bennani ha voluto focalizzarsi sulla forma che assumono le nostre risposte emotive al mondo, e del modo in cui ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, ma è un istinto atavico cha abbiamo tutti in quanto parte della stessa specie, andiamo a comporre un grande corpo, quello dell’umanità. L’andare a ritmo, a tempo, “respirare insieme” è ciò che più di ogni altra cosa ci fa percepire questa unione, questo essere parte di qualcosa di più grande di noi. La musica ricrea l’incanto che proviamo di fronte agli stormi di uccelli migratori che abbiamo visto in queste ultime settimane partire per latitudini più calde. Così come la meraviglia dei banchi di pesci, capaci grazie a una capacità di “ascolto” infinitesimale di misurare ogni movimento, in un unisono compatto e perfetto, senza sbavature, in cui nessuno stona, si scontra, crea frizione. Queste sensazioni possiamo viverle facendo musica, cosa che in marocco si fa abitualmente in famiglia, a tavola, con qualsiasi oggetto capiti a tiro, ma anche ai concerti, o negli stadi, o ancora durante una pratica yoga, in cui i respiri vanno all’unisono, insieme alle posizioni assunte nel flusso della pratica dai corpi.
Non a caso il respiro, che a tutti gli effetti scandisce il nostro ritmo vitale, proprio a livello di omeostasi cellulare e pulsazione del liquor, è un altro tema centrale per Bennani, che sottolinea: “Se qualcuno prende più ossigeno, ha più voce: gli altri restano senza fiato”. In questa dinamica emerge potentissimo il valore del silenzio, parte integrante della musica stessa. D’altronde, la musica è nel silenzio tra una nota l’altra, nelle pause, in ciò che non è scritto, e quindi nel modo in cui ci si avvicina al suono e in cui lo si abbandona, in questo flusso, in questa pulsazione. È quindi necessario fare i conti con le risorse d’aria, sia per quanto riguarda il nostro funzionamento in quanto individui, sia per quanto riguarda l’equilibrio della collettività in cui ci inseriamo. Per andare a tempo, per cantare, per battere le mani, per danzare, è necessario respirare tutti insieme, e tutti al momento “giusto”, opportuno, se si resta senza fiato qualcuno può sostenerci mentre ci ricarichiamo, e viceversa, anche da qui l’alternarsi delle voci, che dà vita a questo intreccio ipnotico, che si genera davvero a partire dal nulla. Non servono strumenti costosi, si è sempre fatta musica con quel che si aveva. Per fare un esempio banale, le campane tibetane che ora vanno tanto di moda, altro non erano che ciotole in cui mangiare. Tutto può essere percussione, e molte cose possono generare suoni. Questa attitudine è stata riversata nell’installazione, che parte dall’oggetto che rappresenta quello che probabilmente è il livello più basso della catena della moda: le ciabatte di gomma. Che ci ricordano piedi, che ci ricordano folla, che ci ricordano il nostro battere i piedi per terra da bambini, “per impuntarci”, e quindi ci ricordano l’accezione rivoluzionaria, sovversiva, del ritmo, della musica, del farsi coro, anche di protesta, unica grande voce che può farsi sentire.
Il ritmo è sempre un organizzazione, un modo di dare ordine al caos, che piano piano si trova, una ripetizione alla volta, grazie all’ascolto e all’attenzione, con pazienza, quella che sembra mancare sempre di più nelle relazioni, intime e pubbliche. Da bambino, quando sbagliavo e non andavo a tempo, in famiglia, mi cacciavano fuori dal concerto, racconta ridendo Cheb Runner, ben consapevole del fatto di quanto sia importante per imparare qualcuno che ci fa notare l’errore e ci rimette al nostro posto, finché non abbiamo capito come fare, e questo esercitando l’ascolto, l’osservazione degli Altri. E poi, a dirla tutta, anche dall’errore – che viene “educato” e magari inserito nel flusso – se gestito con esperienza può diventare uno stimolo, questi artisti sembrano esserne ben consapevoli. Così in questa conversazione intima tra “due” ciabatte, riverbera la ricerca sulla relazione e sulla comprensione delle emozioni negative. Una ciabatta può arrabbiarsi, l’altra le risponde. Una ciabatta può essere triste, o addirittura zittirsi. L’altra le re-infonde la carica, oppure le risponde a tono. In questo continuo alternarsi di consonanza e dissonanza di reazioni, come un piccolo teatro musicale senza parole.
Così quando si arriva al piano superiore si è già preparati in un certo senso a ricevere le immagini di For Aicha, diretto da Bennani insieme a Orian Barki, con la produzione creativa di John Michael Boling e Jason Coombs. Il film mescola in maniera incredibile, soprattutto per chi ha frequentato il mondo che sta dietro alla proiezione, animazione e documentario, due generi obiettivamente agli antipodi, in quanto il primo è l’apice della progettazione e dell’organizzazione e l’altro invece si sviluppa soprattutto sulla linea del caso e della vita. Un famoso regista diceva che sul set bisogna sempre lasciare la porta aperta, per permettere all’errore, all’inaspettato di entrare, e di arricchire così il girato. Nell’animazione questo è impossibile, non c’è spazio per il caos e la spontaneità, eppure in qualche modo, sovvertendo probabilmente ogni regola da manuale, queste quattro persone ce l’hanno fatta, e il risultato è davvero notevole. Breathtaking si direbbe. E non a caso la protagonista, Bouchra, una regista-artista lesbica e grunge con le sembianze di un coiote, spesso per respirare ha bisogno di una spurzzata di Ventolin, eppure fuma.
Nel film – tutto giocato su una fotografia e un’attenzione per il colore e le atmosfere ossessiva – nebbia, fumo, ossigeno e vento si mescolano, caratterizzando i luoghi della città, statunitense e nordafricana. Al cambiare delle luci cambiano anche le emozioni, così come le lingue parlate, dall’inglese, al francese, fino al marocchino. E in ogni switch sembra che la protagonista in un certo senso cambi a sua volta, si faccia più tenera o più dura, più ansiosa o più allegra, più fragile o più forte, facendo emergere in maniera lampante quel fondamentale e inevitabile “lost in translation”, che condividono tutti gli apolidi, e che pure genera una capacità di ascolto e di adattamento, e quindi una ricchezza, enorme. Il mio attuale insegnante di yoga, che non credo sia un caso è di New York, ma ha origini italiane, l’ultima volta che ci siamo visti, mi ha detto: Vedi, tutti noi che ci troviamo qui, siamo persone che per un motivo o per un altro abbiamo lasciato il nostro luogo di origine, e questo ci rende simili, e questo ci rende ciò che siamo.
Questo “viaggiare”, questo esplorare ed esplorarsi, è possibile solo trovando il proprio tempo, il proprio ritmo, come sottolineato da Boling, che senza falsi pudori dice apertamente che lavorando con gli altri tre artisti a questo film, ha letteralmente ritrovato la sua fede nell’arte, che pensava ormai perduta. “Scavalcare i confini non è nel nostro stile. Noi aspettiamo,” dice verso la fine del film Aicha, la madre di Bouchra, quando la figlia le chiede perché per nove anni lei e suo padre non le hanno mai parlato apertamente della sua omosessualità. E un po’ è una difesa, un po’ è profondamente vero. E in questa ammissione c’è tutta la tenerezza del mistero del bene, delle sue luci e delle sue ombre. Anche se sono cresciuti a Modena, quella è una frase che avrebbero potuto dire anche i miei genitori. Così quell’attesa che imprime una forma alla relazione tra madre e figlia sembra prendere le forme dell’acqua e dei suoi cambiamenti di stato, fumo, vapore, nebbia, foschia, fino ad arrivare alle grandi onde del mare che lambiscono il ristorante in cui cenano – Les grandes vagues – e in cui per la prima volta Aisha trova la voce per pronunciare la parola “gay”, in un Paese che perseguita legalmente le persone omosessuali, in cui si canta, quindi, anche a squarciagola, ma su certe cose bisogna tacere, che obbliga i suoi figli ad andarsene, a lasciare la propria terra, la propria famiglia, per poter essere liberamente ciò che si è, per poter desiderare.
“Ascoltare significa piegarsi avanti e indietro,” dice la zia di Bouchra, che è sola, e si basta, anche se a malincuore. Proprio come una madre che culla il figlio quando piange, o si china per sentire cosa dice, proprio come quando si balla. Mi pare che di questi tempi – di iperproduzione, mancanza di tempo, rapidità e stipendi risicati che ci portano a stare inchiodati alle scrivanie, e quindi a non respirare, o a inalare pochissimo ossigeno – siamo diventati davvero tutti più rigidi, di corpo e di mente, ma anche di emozioni. Benanni, insieme agli altri artisti e professionisti che ha coinvolto per realizzare “For My Best Family”, sembra provare a schiodarci da questo flusso monotono, piatto, lineare. Solo mettendoci nella disposizione d’animo a cui porta l’ascolto, piegandoci avanti e indietro, come le canne di bambù, flessibili, pronti, sensibili, possiamo sperare di ritrovare noi stessi, e facendolo, gli altri. Per farlo, come ci mostra questa artista, a volte basta battere le mani.