Riesumate dalle foibe per essere sventolate sulle bandiere ed evocate negli slogan; diventate strumento politico per una battaglia puramente ideologica; ridotte a oggetto di una guerra di numeri volta ad accertare la portata del fenomeno di cui, loro malgrado, sono state protagoniste. Anche quest’anno le vittime della tragedia istriana con buona probabilità non avranno, come meritano, diritto alla memoria.
Il 10 febbraio è la data designata per non dimenticare la tragedia delle foibe istriane e il dramma di centinaia di migliaia di italiani costretti a fuggire dalla violenza esplosa in poco tempo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale in Jugoslavia. Eppure, l’aver dato alla vicenda un’unica chiave di lettura ideologica, focalizzata esclusivamente sul sentimento anticomunista, si è rivelato un errore che ha ritardato un’analisi quanto più possibile ampia e oggettiva. Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata sono diventati negli anni una vera e propria bandiera dell’estrema destra italiana, una prova storica sventolata all’opinione pubblica per denunciare i crimini del comunismo slavo (spesso per controbilanciare quelli del nazifascismo, come se esistessero solamente due poli) e per rilanciare tesi geopolitiche che rievochino il glorioso passato del nazionalismo italiano, facendo magari leva sull’irredentismo.
Forse dovremmo partire proprio dal nazionalismo per avere una panoramica di quanto accaduto in Istria e Dalmazia. Alla fine dell’Ottocento cominciarono le prime avvisaglie di un nuovo sentimento irredentista che caratterizzò il desiderio – ancora attuale in ambienti della destra – di un’Istria italiana: a differenza di quello Risorgimentale, mosso da ideali democratici, l’irredentismo istriano assunse tuttavia sin da subito caratteristiche fortemente nazionaliste. Caratteristiche che in pochi anni si istituzionalizzano nello Stato fascista di Benito Mussolini. Nei territori annessi all’Italia (dal 1920) ogni espressione della lingua e della cultura slava venne così contrastata con durezza dalle autorità: maestri, esponenti politici, militari, civili e persino sacerdoti furono torturati o uccisi per imporre l’italianità in ogni aspetto della società istriana. Un vero e proprio disegno pianificato di eliminazione delle minoranze croate, slovene e istrio-germaniche, conosciuto fra gli storici come italianizzazione fascista.
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 le minoranze colsero l’occasione per reagire ad anni di soprusi e restrizioni. Alla dura repressione italiana gli slavi, nel corso del tempo riunitisi sotto Tito, reagirono con una cruda vendetta che durò fino agli anni Cinquanta. Tito era per l’Occidente un nemico ideologico ma un alleato strategico in quanto non allineato con l’Unione Sovietica e, complice l’affinità politica con i partiti comunisti italiani, per molto tempo la questione venne nascosta sotto il tappeto.
Dal 1943 fino al 1954 le popolazioni italiane in Istria e Dalmazia diventarono oggetto di violenze, minacce e in molti casi anche di stragi. Nella macchina della morte slava finirono ex collaboratori del regime di Mussolini così come innocenti, in quello che oggi la maggior parte degli storici definiscono un vero e proprio piano di pulizia etnica. Con l’accusa di essere fascisti, centinaia di migliaia di italiani vennero costretti ad abbandonare tutto per riparare nel nostro Paese, dove non vennero accolti nel migliore dei modi, segno evidente che la cultura del rifiuto del profugo ha radici ben più lontane dell’emergenza dei nostri giorni.
Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, quella violenza subita dai nostri connazionali sotto il vessillo comunista è fieramente sventolata dalla destra estremista italiana. Grattando l’ideologia, tuttavia, il significato di quei crimini cambia radicalmente: il comunismo di Tito promuoveva idealmente l’internazionalismo, tuttavia i suoi partigiani misero in atto una strategia di eliminazione sistematica del multilinguismo e del multiculturalismo in Istria, adattandosi alla visione di semplificazione etnica tipica dei fascismi. In Jugoslavia, secondo il disegno slavo, non potevano esserci che slavi: un piano in perfetta sintonia con l’idea di popolo-Nazione tipica del nazionalismo novecentesco europeo. Al netto della coltre ideologica, che ha viziato l’analisi di quanto successo, gli eredi politici di quell’atteggiamento sono dunque da ricercare in chi oggi parla di razza bianca, di chi vuole anteporre la propria nazionalità a tutto e a tutti, in chi vede nella diversità un pericolo negando ogni forma di convivenza e multiculturalità fra popoli. I nuovi nazionalisti non sono che il meccanismo di una visione del mondo diviso in Stati nazione identitari, di una visione del mondo in cui l’Italia agli italiani e, inevitabilmente, la Jugoslavia agli slavi. L’eliminazione pianificata del nostro popolo è, in ultima analisi, l’altra faccia della medaglia nazionalista di cui la destra estremista è a tutti gli effetti un’erede politica diretta e che fa vanto degli ideali passati senza alcuna sostanziale evoluzione nel corso della propria storia.
Dal seme delle ideologie è nata negli anni una narrazione di parte che dunque non ha fatto che ritardare il riconoscimento condiviso di questa tragedia. La destra estremista italiana non ha mai perso occasione per strumentalizzare le vittime, per fare della loro testimonianza uno slogan, una battaglia ideologica vuota di contenuti e di qualsivoglia analisi e per mettere in atto una reazione storica finalizzata a riacquistare in qualche modo la verginità umana persa durante il massacro della Shoah.
Foto in copertina: © Sharon Ritossa, dal libro Foibe