La malattia mentale e i disturbi della personalità sono diventati in meno di un secolo la vera emergenza sanitaria del pianeta, soprattutto nei Paesi industrializzati. Secondo un report dell’Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2030 la depressione sarà la malattia più diffusa a livello globale, davanti a cancro e patologie cardiocircolatorie. In Italia, terra diffidente e scettica, l’accettazione della malattia mentale risulta il più duro degli ostacoli, e spesso si tende a sottovalutare i campanelli d’allarme senza consultare uno specialista. Così i genitori possono scambiare la depressione del figlio adolescente per una banale malinconia tipica di un’”età difficile”, o un bipolare può pensare di essere semplicemente “un po’ lunatico” e in preda a sbalzi d’umore. In tanti pensano di essere solo molto timidi, e ignorano di essere vittima di un disturbo noto in psichiatria come fobia sociale.
I tanti che si affidano all’autodiagnosi per via della paura di farsi visitare da un professionista contribuiscono a generare difficoltà nella raccolta di dati certi sul numero di persone alle prese con la fobia sociale. Secondo gli studi più attendibili, in Italia la percentuale di persone che ne soffre varia tra il 3% e il 13%, una forbice dovuta al sottobosco di patologie non rilevate, casi non analizzati e persone che ignorano il disturbo. Un sociofobico si sente a disagio nel relazionarsi con gli altri, nel parlare faccia a faccia, nel mangiare se osservato, nel fare qualcosa davanti a un pubblico che potrebbe giudicarlo. La patologia e i suoi sintomi sono influenzati dal giudizio che si ha di se stessi, in grado di provocare ansia, attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.
Quando si parla di fobia sociale, il manifestarsi dei sintomi è anticipato da quella che viene chiamata ansia anticipatoria: il sociofobico cade in preda all’ansia o al panico ancora prima di uscire di casa. Se ha un appuntamento di lavoro, ad esempio, l’ansia anticipatoria può presentarsi giorni prima, ingigantendo le paure del sociofobico fino a portarlo in uno stato di blocco. Dopo l’evento traumatico scatta l’evitamento, un meccanismo messo in campo per evitare di doversi ritrovare nuovamente in una condizione di ansia ancicipatoria, che porta chi soffre di fobia sociale a procrastinare all’infinito, cercando un escamotage per scongiurare un’altra situazione percepita come pericolosa o dolorosa. Nei casi più gravi l’evitamento può portare alla chiusura sociale. Evitare di esporsi a determinate situazioni significa fuggire dall’incubo delle reazioni incontrollate, come arrossire, balbettare, tremare o sudare. Nascondendosi dalla società, il sociofobico si allontana da quel processo che lo porta a sentirsi continuamente sotto esame, permettendogli di raggiungere una sensazione di protezione assoluta. Questo però, lo porta a rinunciare ai rapporti sentimentali, lavorativi e di amicizia, sostituiti con un palliativo, spesso trovato nel mondo virtuale.
L’illusione di creare una second life attraverso Internet e i social network non risolve il problema, ma ne allontana le conseguenze. Dietro uno schermo si annullano quelle condizioni che scatenano l’ansia del sociofobico: viene annullato il contatto visivo, c’è una latenza nel botta e risposta della conversazione scritta che consente di valutare le parole da usare, e soprattutto le sue reazioni non vengono percepite dall’interlocutore. La barriera dello schermo del cellulare o del computer permette di instaurare rapporti con una sicurezza del tutto inedita rispetto alla vita reale, sviluppando un’immagine di sé stessi non vincolata ai propri limiti e alla realtà. È la simulazione di un’esistenza, la proiezione di quello che si vorrebbe essere e non si è, ma allo stesso tempo le conseguenze emotive sono reali: è possibile provare gioia ed empatia, innamorarsi, confrontarsi in rete con persone afflitte dallo stesso disturbo.
Per il sociofobico, abituarsi ai crismi della conversazione online è un modo per evitare i rapporti reali, ma finisce per ingigantire le difficoltà da cui vuole scappare. Chiudersi nel proprio guscio, rinunciando al contatto con il mondo, mettendosi al riparo dagli agenti esterni, è la condanna che si autoinfligge il sociofobico, spesso male interpretata da chi non conosce questa patologia. Un errore comune è il parallelismo tra sociofobico e sociopatico, due termini estremamente diversi ma spesso trattati come sinonimi. Un sociopatico nutre disprezzo per gli obblighi sociali, è insensibile ai sentimenti degli altri fino a rasentare la misantropia, incolpa il prossimo dei suoi problemi, vive in conflitto con il mondo esterno ed è refrattario a qualsiasi norma legata alla collettività. Un sociofobico, invece, conosce bene le norme sociali e ne è intimorito; non prova odio per gli altri ma per sé stesso in relazione alla sua incapacità di rapportarsi con loro. Entrambi i disturbi possono spingere all’autoesilio dalla società, ma le cause scatenanti sono diverse. Un sociofobico che scappa dalla società non è l’uomo che Ernst Jünger, nel suo Trattato del ribelle, chiama Der Waldgang, ovvero colui che si ritira nella selva per opporre una resistenza spirituale al cinismo del mondo. Semmai fugge dalle sue paure perché non è in grado di affrontarle, e quindi fugge da sé stesso.
La sociofobia potrebbe riguardare il 10% della popolazione italiana, ma gli studi sul disturbo sono ancora limitati e spesso contraddittori. Uno di questi, pubblicato dall’Università svedese di Uppsala su Jama Psychiatry, ribalta le teorie precedentemente elaborate. Si pensava infatti che la carenza di serotonina fosse una delle cause scatenanti della fobia sociale, innescata da un processo chimico molto simile a quello della depressione. La ricerca ha invece messo in luce come i malati di fobia sociale producano troppa serotonina nell’amigdala, la ghiandola del cervello collegata alle emozioni e alla paura. La scienza è alle prese con un disturbo relativamente giovane e sconosciuto, esploso con l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni e il suo impatto sulla società.
L’assenza di un protocollo medico ufficiale per la fobia sociale, si traduce in una scarsa uniformità nella diagnosi e nella tolleranza del disturbo. Nella cultura orientale, l’isolamento è accettato in diverse sue forme, tanto che il manuale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (testo di riferimento della comunità psichiatrica mondiale) è stato aggiornato di recente per evidenziare come la fobia sociale venga diagnosticata con minor frequenza nei pazienti dell’Asia orientale. Alla base di questa distinzione c’è un una differenza tra le due culture: nel mondo occidentale l’imbarazzo o la vergogna sono percepiti in modo diverso rispetto a quello orientale, in cui vengono interpretati come segni di rispetto e dignità sociale. Nella cultura tradizionale orientale, isolarsi dal mondo non è considerato un’anomalia, anche se i numeri di questo fenomeno hanno messo le autorità in allarme, soprattutto in Giappone. Per queste ragioni, è sbagliato esportare nel mondo occidentale fenomeni che non ci appartengono: quando si parla di hikikomori, la sua immagine si riduce a una persona che vive davanti al computer, senza mai uscire dalla sua stanza. Una semplificazione evidente anche negli articoli sugli “hikikomori italiani”, in cui il fenomeno è descritto come un disturbo generazionale a livello globale. In realtà, il Giappone ha solo anticipato di alcuni anni le problematiche che ora hanno investito anche l’Occidente: una società iper-tecnologica (e in questo il Giappone non è secondo a nessuno), che isola l’individuo e trasforma l’universo virtuale in una gabbia mascherata da valvola di sfogo, creando un esercito di avatar senza nome e senza vita sociale.
Nascondersi dietro uno schermo è il risultato di una società che si autoesclude, di un virus che degenera nella parola social, allontanandosi dal suo significato per diventare anti-social, farmaco e veleno per il sociofobico. Kafka scriveva: “La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso”. Per chi soffre di fobia sociale la paura è un limite. L’unico rimedio è affrontarla con il sostegno di uno specialista, per accettarla e imparare a conviverci senza doverla considerare una debolezza. Forse è la paura, la paura che ci fa tremare e arrossire, l’unica cosa che un giorno ci distinguerà dalle macchine.