Uno dei ricordi più nitidi che conservo della mia infanzia mi vede rannicchiata vicino a un vecchio stereo che riproduce la dolce melodia di quel famoso motivetto in apertura alle Fiabe sonore – “A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar” – che per anni è stata la colonna sonora che accompagnava il mio ingresso in un mondo fantastico. Ricordo bene il potere avvolgente di quelle narrazioni, che pur non avendo nulla a che vedere con la mia vita quotidiana erano comunque in grado, in un modo misterioso che precede la coscienza, di rispondere a domande che non sapevo ancora porre e per cui tuttavia sentivo di cercare risposte. Le fiabe in cui mi immergevo da bambina chiarivano la distinzione tra il bene e il male, tra l’amore e la vendetta, in una maniera tanto vera quanto poco verosimile.
Bene e male, amore, vendetta sono solo alcuni dei grandi temi che affrontano le favole in maniera tanto vera quanto inverosimile. Di queste sostanziali verità contenute nei racconti fantastici della tradizione popolare si occupò, nel 1956, Italo Calvino, che dopo due anni passati a raccogliere, tradurre e rivisitare l’enorme patrimonio della fiabistica italiana, sentenziò: “Io credo questo: le fiabe sono vere”. Il compito che permise a Calvino di giungere a questa conclusione gli venne affidato da Giulio Einaudi, che da qualche anno aveva iniziato a stampare, nella Collana dei Classici della fiaba, le raccolte dei fratelli Grimm, di Hans Christian Andersen e di Charles Perrault. Mancava, però, la raccolta delle fiabe popolari di tutta Italia: un’opera che fosse “piacevole da leggere, popolare per destinazione e non solo per fonte”. Quest’impresa fu affidata allo scrittore più adatto a compiere un lavoro che sarebbe potuto essere facilmente accusato di tradimento degli scritti originali, oppure, al contrario, di eccessiva accondiscendenza al linguaggio regionale, a discapito della comprensibilità della fiaba da parte di un lettore medio e indefinito. Calvino si dimostrò all’altezza della mansione, non solo perché al genere fantastico non era estraneo – nel 1952 aveva terminato di scrivere Il visconte dimezzato – ma anche perché era dotato della rara capacità di coniugare un certo rigore filologico – necessario alla traduzione e rielaborazione di fiabe narrate oralmente e quindi colme di regionalismi e colloquialismi – a un approccio libero e giocoso che gli permise di mettere mano alle fiabe, rispettandone il nucleo narrativo e formale. Gli interventi dello scrittore furono volti a colmare lacune, correggere storpiature di senso, arricchire passaggi troppo aridi, ripulire il linguaggio, senza mai stravolgere l’orizzonte favolistico italiano. Fu un lavoro di grande cura, in cui emerge l’amore per il racconto fantastico e quello per l’umanità che lo ha prodotto, in un italiano “mai troppo personale e mai troppo sbiadito”. Dal 1954 al 1956 Calvino si occupò quindi di catalogare e riscrivere fiabe, finendo per esserne assorbito e affascinato come un bambino che prima di dormire chiede che gli si legga la stessa storia ancora un’ultima volta.
La capacità dei racconti popolari di far crescere “una smania, un’insaziabilità di versioni e di varianti” così grande da far dire a Calvino che avrebbe dato tutto Proust in cambio di una nuova variante del “ciuchino caca-zecchini”, non è dovuta solo al loro potenziale evasivo. Anzi, l’evasione, ovvero la contrapposizione tra un primo mondo reale e concreto, con le sue rogne quotidiane, e un secondo mondo immaginario e magico in cui emanciparsi dalle fatiche del primo, non è la ragion d’essere e il valore dell’antologia. Si tratta, al contrario, della verità che questi racconti nati in tempi e luoghi remoti, frutto di stratificazioni progressive e storpiature nate dal contesto particolare in cui vennero di volta in volta tramandate, sono in grado di restituire.
Nell’introduzione alla prima edizione dell’antologia Calvino scrive: “[Le fiabe] sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto”. E allora è interessante domandarsi cosa sia questo “tutto”, cosa accomuni, al di là dei particolarismi, le fiabe di ogni regione d’Italia con quelle di tutta la terra. Uno degli elementi ricorrenti della fiaba è la divisione drastica dei viventi in nobili e poveri, ma al tempo stesso quella che Calvino definisce “la loro parità sostanziale”. Rilevante è anche il topos che vede i Re alle prese con un problema che da soli, nonostante il loro denaro e potere, non riescono a risolvere e la necessità di ricorrere al popolo per venirne a capo. A questo punto, il semplice e povero protagonista, di animo buono, diventa l’eroe che contro ogni ostacolo e con ogni ausilio magico – una pozione, un animale, una pianta, un oggetto – porta a termine la missione. È ricorrente anche la ricompensa del buono e la punizione del malvagio, ma nonostante la truculenza del castigo, la fiaba italiana nello specifico non indugia mai nella crudeltà e corre piuttosto verso la soluzione riparatrice, stabilendo una giustizia sempre pronta a premiare l’onestà e la bontà d’animo.
In questo schema che si ripete non c’è poi un esplicito intento moralista. La morale o la pedagogia interne alle fiabe sono, come nota bene Natalia Ginzburg nell’articolo del 1972 “Senza fate e senza maghi”, quelle inespresse che ci offre ogni giorno la nostra stessa vita. Le fiabe non dicono a chi ascolta o a chi legge cosa fare e come comportarsi, svelano piuttosto uno sguardo sul mondo, sulle relazioni tra esseri umani, sulle loro eterne angosce e sugli eterni misteri che costellano la vita dell’uomo a partire dai primi anni di vita. E per spiegare ciò che all’essere umano risulta incomprensibile, la dimensione magica assume un ruolo fondamentale. Ecco che allora nei racconti emergono evidenti i disequilibri di potere e di ricchezza, le ingiustizie e le miserie a cui la maggioranza è condannata, ma emerge anche, tenace, la fede nell’idea che ogni uomo possa liberarsi da questa condizione, percorrendo un sentiero – che passa però quasi sempre dalla concessione del ricco e potente.
Le fiabe – pur essendo prodotti della fantasia e della tradizione popolare che rimandano a un passato feudal-cavalleresco intriso di una religiosità cristiana che dialoga anche con una certa superstizione pagana di origine classica – sono caratterizzate da valori morali e modelli culturali che oscillano tra l’astuzia e la vitalità che richiede la vita degli ultimi e la rigida struttura di valori della classe sociale dominante. Il matrimonio come modalità per acquisire prestigio sociale ed economico; la bellezza come grazia; la forte demarcazione di classe e di genere; l’amore inquieto che come quello cortese cresce e si dipana intorno all’assenza dell’amata; l’idea che l’abnegazione e il sacrificio di sé comportino infine una ricompensa e, ancora, la punizione di tratti caratteriali considerati “peccaminosi” come l’ingordigia, l’ira, l’invidia o l’avarizia, sono solo alcuni dei segni della cultura egemonica della classe dominante, che viene assorbita e rielaborata dal popolo all’interno delle sue narrazioni.
Già Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, parlava di egemonia culturale della classe dominante sulla classe subalterna come di quel particolare tipo di dominio, che oggi chiameremmo soft power, che i detentori del potere e del denaro esercitano su chi ne è privo, alimentando così un controllo pervasivo su ciò che al mondo subalterno è concesso fare, e ancor prima immaginare. Ecco che quindi le fiabe italiane – che affondano le proprie radici nella cultura classica dapprima pagana e in seguito umanistica – finiscono per essere in molti casi l’espressione avvincente di un equilibrio precario eppure armonioso tra la vitale esistenza dei poveri, con tutta la smania che questi hanno di liberarsi dalla propria condizione, e il rigore – poi tramandato alla borghesia – che codifica un certo modo “giusto” per accedere alla liberazione, a discapito dei mille modi invece moralmente ingiusti che portano solo alla dannazione eterna, che nelle fiabe non assume contorni particolarmente diversi da quelli dei gironi dell’inferno dantesco.
La forza delle fiabe sta nella loro sostanziale capacità di parlare a ogni generazione, risultando sempre credibili e dense di significati simbolici. Naturalmente ogni tempo produce le sue fiabe e ogni contesto storico-geografico – che, va da sé, è anche culturale – trasmette attraverso le narrazioni che riserva ai bambini un’idea di mondo e un’idea di giustizia, un’idea d’amore e una di libertà. Queste idee possono essere conflittuali, cambiare nel tempo, abbracciare alcuni valori e simboli e ripudiarne altri, per poi magari restaurare, rispolverare, contraddirsi e rinnovarsi ancora insieme alla cultura che esprimono e le esigenze che questa ogni volta impone. Non fosse così, non avremmo di che discutere per quanto riguarda ciò che ai bambini deve essere letto o fatto vedere al cinema, su ciò che convenga alla loro educazione sentimentale e morale, alla loro familiarità con il dolore e la rabbia e i mondi simbolici che di questi sentimenti e di una certa pedagogia – seppure fantastica – si fanno portatori. C’è però un terreno comune a tutte le narrazioni popolari che determina la loro somiglianza formale – l’antropologo russo Vladimir Propp ne mise a punto un famoso schema – e anche la loro capacità di varcare i ristretti confini dei luoghi in cui nascono: è qui che la fiaba trova il potere di rispondere, per mezzo della fantasia, alle domande universali che ogni realtà particolare si trova prima o poi a formulare. Non quindi evasione del reale, ma risignificazione della vita attraverso un linguaggio fantastico. Secondo Calvino, “la funzione morale che il raccontar fiabe ha nell’intendimento popolare, va cercata non nella direzione dei contenuti ma nell’istituzione stessa della fiaba, nel fatto di raccontarle e d’udirle”.
In conclusione all’introduzione dell’antologia, Italo Calvino scrisse: “Chi sa quanto è raro nella poesia popolare costruire un sogno senza rifugiarsi nell’evasione, apprezzerà queste punte estreme d’un autocoscienza che non rifiuta l’invenzione d’un destino, questa forza di realtà che interamente esplode in fantasia. Miglior lezione, poetica e morale, le fiabe non potrebbero darci”. Se oggi allora i mezzi a nostra disposizione per narrare storie sono di gran lunga di più e apparentemente più potenti, il senso di quest’attività tanto necessaria quanto antica, rimane lo stesso delle origini: porre domande e formulare risposte. La fiaba lo fa assecondando la sua natura migratoria: viaggiando nel tempo e nello spazio, valicando i confini culturali, di classe e di genere, per parlare a tutti, nel girotondo sempre nuovo e sempre uguale della fantasia.