Non esiste un termine positivo per definirsi “single”. Per questo non siamo felici da soli. - THE VISION
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Uno degli strumenti che più utilizziamo e consumiamo nella nostra quotidianità, la lingua, è più di un semplice mezzo utile per esprimerci e relazionarci con gli altri. Attraverso di essa e grazie alla sua struttura fluida possiamo modificare la realtà attorno a noi più di quanto crediamo, contribuendo a rieducare la società al cambiamento e modificandola a nostra immagine e somiglianza – soprattutto all’interno del contesto sentimentale e relazionale e su problematiche cardine della percezione che abbiamo della nostra relazione col mondo.

Nelle Ricerche filosofiche del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein il legame tra pensiero e parola è infrangibile, un gioco pubblico nel quale tramite un linguaggio orale e scritto descriviamo la realtà che ci circonda, al tempo stesso definita proprio dalle parole che formiamo e usiamo. Wittgenstein sostiene che “Pronunciare una parola è come toccare un tasto sul pianoforte delle rappresentazioni” ed è chiaro che siamo noi che, attraverso il nostro modo di narrare oralmente il mondo, modifichiamo la realtà e la percezione che ne abbiamo. Vi è dunque uno scambio e un’influenza costante, spesso trascurata, tra la realtà e le parole che usiamo per descriverla. Alla base di questa affermazione c’è la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf, che afferma come lo sviluppo cognitivo di ogni essere umano sia influenzato dalla lingua che parla e a differente lingua corrisponda una diversa maniera di vedere le cose: un film come Arrival, del regista canadese Denis Villeneuve, riassume questa affascinante teoria e, tra fantascienza e linguistica, racconta il potere ultraterreno di una lingua.

Arrival (2016)

Quando riflessione e discussione comune si soffermano su qualche polemica linguistica in corso, però, il cambiamento non viene accolto pacificamente come accade a livello teorico, anzi avviene tutto il contrario. A causa della nostra educazione, siamo abituati a considerare la nostra lingua madre come un insieme di regole, di norme salde e ben radicate nella nostra storia, apparentemente eterne; la grammatica viene usata a difesa del cambiamento come fosse un monolite impossibile da scardinare, una divinità rigida e intoccabile, che possiamo solo studiare e usare con assoluto rispetto. In realtà uno dei capisaldi concettuali della lingua è che si dovrebbe trattare di uno strumento elastico e malleabile in grado di adattarsi a seconda delle esigenze dei parlanti. La norma linguistica è al contempo prescrittiva e descrittiva, dunque non si limita a impartire regole ma ascolta la voce della maggioranza e modula la norma sugli stessi fruitori.

Il benessere apportato dai mutamenti linguistici in alcuni contesti che riguardano la rappresentazione delle persone è immenso e in continua evoluzione. Dare nome alle cose convalida la loro esistenza e sono quindi fondamentali le possibilità di espressione e libertà che la lingua ha fornito, soprattutto negli ultimi anni, permettendo la formazione di nuove definizioni e sfumature rispetto ad esempio allo spettro della sessualità o dell’identità di genere, e dando spazio e riconoscimento alla figura della donna attraverso la lingua nella società professionale odierna. Come scrive la sociolinguista Vera Gheno, “Chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza” e lo stesso vale per coloro che hanno giustamente bisogno di termini ancora ostracizzati e sminuiti per sentirsi rappresentati e potersi definire omosessuali, bisessuali, transgender, queer, trovando nelle parole un riconoscimento personale e collettivo.

Nonostante i significativi cambiamenti già innescati una sfera sociale e personale continua ad essere scalfita a fatica dalla discussione: ovvero la stigmatizzazione, anche linguistica, della solitudine. La società attuale è definita dalla relazione amorosa e sentimentale come elemento stabilizzatore dell’esistenza, che ha come scopo ultimo il formarsi di un nucleo, una famiglia. Nel libro Singled Out la sociologa Bella De Paulo parla di un fatto a tutti noto e lampante: la società è organizzata in riferimento alle coppie e ogni aspetto della vita è a misura di coppia – dalle confezioni famiglia al supermercato alle pressioni sul lavoro, passando sul fatto di avere una determinata età e doversi giustificare per non essere ancora fidanzati, sposati o genitori. Tutto ci comunica che la vita ideale è quella che passiamo insieme a qualcun altro, tant’è che uno dei motori per gran parte della nostra vita è quello che seguendo una vecchia narrazione retorica ci spinge a cercare chi possa completarci: l’utilizzo stesso delle parole “completarsi” o “sistemarsi”, aggiunge De Paulo, “suggerisce che sei rotto, incompleto e l’accoppiamento ti riparerà”. La stigmatizzazione della solitudine è dunque un fatto tangibile fin dall’analisi linguistica che possiamo fare osservando le parole che usiamo per descrivere uno stato di solitudine e di assenza di relazioni più o meno temporaneo.

Ogni parola a disposizione per definirsi single, soli o senza partner porta con sé un’accezione negativa e debilitante, nonostante l’effettivo sentimento verso il proprio stato personale. Nel 1990 è stato coniato il termine singlism, un neologismo poco diffuso che serve a definire quella serie di atteggiamenti e giudizi che sviliscono una persona single. Nonostante vi sia l’esigenza di sensibilizzare le persone e si cerchino nuove espressioni, nel corso degli ultimi vent’anni nessun termine simile è entrato però nell’uso comune, malgrado i dati nazionali dell’Eurostat e i dati raccolti da altri Paesi come gli Stati Uniti portino alla luce la crescita esponenziale di nuclei solitari. I dati relativi all’Italia mostrano che 1 italiano su 8 si sente solo e vive in una condizione di isolamento che lo porta a non avere qualcuno accanto; negli Stati Uniti, quasi il 50% delle persone in fascia adulta è divorziata, vedova o non è mai stata sposata.

L’esponenziale crescita di una condizione di solitudine e la penuria linguistica di termini che possano raccontarla in maniera sana alimenta uno stigma che forse potrebbe ridursi, sfruttando le potenzialità che la lingua ci offre per trovare nuove parole, nuovi significati che descrivano un isolamento che può essere positivo. In una recente intervista per British Vogue, l’attrice e attivista Emma Watson, affrontando diversi argomenti – tra cui l’attivismo, i diritti della comunità trans e la depressione – si sofferma soprattutto sulla pressione sociale che con sempre più insistenza determina la nostra validità come individui in relazione alla nostra stabilità economica, lavorativa e sentimentale. Alla fine dell’intervista emerge un termine che Watson usa per definire la sua situazione sentimentale attuale: si definisce self-partnered, indicando con questo termine una condizione salutare di solitudine, nella quale la relazione più importante che si sta portando avanti è quella con se stessi.

L’utilizzo del termine self-partnered rende evidente come le parole fino a questo momento utilizzate per indicare la solitudine non riescano a esprimerne una condizione positiva, mostrando la necessità di attuare modifiche linguistiche anche in questa direzione, che possano riconoscere e dare validità  a una condizione umana che esiste ma non ha termini adeguati che la descrivano. Dopo aver rivalutato negli ultimi anni il concetto di solitudine, abbiamo bisogno di nuovi termini e nuove sfumature di linguaggio che ci permettano di descrivere al meglio la nostra vita. Nel saggio Città sola, la scrittrice Olivia Laing parla – oltre che del rapporto tra arte e isolamento – della sua relazione personale con l’essere sola e di come in alcune situazioni si sentisse libera “dal persistente peso della solitudine, da quella sensazione di anormalità, dalla paura dello stigma, del giudizio altrui e della visibilità” e di come questa illusione svaniva rapidamente grazie al linguaggio, alla “necessità di comunicare, di capire e farmi capire per mezzo della parola”, a riprova del fatto che il mondo è composto dalle parole che usiamo e da quelle che dobbiamo ancora trovare per raccontare il nostro continuo divenire.

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