La percezione che ho sempre avuto rispetto all’opinione della mia generazione sul personaggio più famoso di Paolo Villaggio, Fantozzi, è che fosse molto polarizzata. Ci sono i super fan irriducibili che conoscono tutte le battute a memoria e che non si risparmiano mai un “vadi” e quelli che invece nutrono un sincero fastidio verso il ragioniere più sfigato d’Italia. Io mi sento in una posizione privilegiata, perché capisco entrambi: capisco cosa ci si possa trovare di geniale nella creazione di Villaggio, ma mi rendo anche conto che Fantozzi sia l’incarnazione di certe idee e certi schemi irritanti. È la quintessenza di una categoria umana che siamo portati istintivamente a odiare, è un inetto, un debole, ma non quel tipo di debole che ci trasmette compassione, perché è anche pavido, individualista; le sue gags sono goffe, la sua totale mancanza di spina dorsale è sgradevole e poi, perché no, non è detto che un pomodorino a quattromila gradi faccia per forza ridere.
I motivi per cui si ama il ragioniere sono gli stessi per cui lo si detesta, e a contribuire a spostare l’ago della bilancia verso il piatto del disprezzo è stata sicuramente la saga stessa che negli anni si è logorata sempre più, fino a raggiungere un picco di squallore insopportabile che rasenta il cattivo gusto. Questa non è un’opinione del tutto originale, considerato che persino Paolo Villaggio lo ha più volte ammesso pubblicamente. Non ha senso parlare di un Fantozzi “vero” o “autentico” che si contrappone a una volgare macchietta cinematografica per il fantomatico italiano medio che ride a suon di rumori corporei, bucce di banana e donne nude. Ma è giusto ricordare anche a chi trova Fantozzi irritante che, nel talento riconosciuto ma anche molto criticato di Villaggio, svettano i primi due episodi della saga dell’impiegato, in cui quei termini di esagerazione fantozziana non sono ancora troppo enfatizzati e sono densi di una critica sociale e di un senso dell’umorismo magari non dei più raffinati, ma di sicuro brillanti.
A detta di Goffredo Fofi – grande estimatore dell’opera di Villaggio, sia quella letteraria che quella cinematografica – la saga del Rag. Fantozzi, Ugo, è paragonabile a Gogol e al primo Cechov. Non è un accostamento immediato quello del critico più ortodosso e risoluto della storia recente – e non è stato il solo a farlo – ma è un buon punto di partenza per capire cosa c’è di davvero interessante nei primi due film diretti da Luciano Salce. Non si tratta di una semplice sequenza di scenette slapstick che sommate l’una all’altra danno vita a Fantozzi, del 1975, e a Il secondo tragico Fantozzi, del 1976, anche se nella narrazione condivisa del cinema di quegli anni ciò che si ricorda sono appunto le gags memorabili. Il punto di forza di Villaggio e del suo protagonista sta piuttosto nell’aver creato una maschera da commedia dell’arte che porta in sé un messaggio universale: nei primi due film della saga, infatti, ogni personaggio ha un ruolo immediatamente riconoscibile, ogni situazione riproduce un contesto sociale nel quale è automatico riconoscersi. Ma per riconoscersi, immedesimarsi o semplicemente comprenderlo non basta sentirsi degli sfigati a cui si chiudono le dita nelle portiere della macchina. Non è solo una questione di un grossolano e vuoto “mai una gioia” contemporaneo in cui tutti ci sentiamo dei grandissimi “disagiati” perché va di moda dire che è così. Fantozzi, e con lui tutto il coro di persone e di contesti che lo circondano, è un’analisi della struttura sociale moderna che parte proprio dalla sostanza: il lavoro. Non è infelice perché si è svegliato con la luna storta, non è frustrato perché è un perdente, non è un vigliacco perché non ha le palle. È l’ingranaggio di un sistema sociale al quale ci siamo perfettamente abituati – anche se magari i tempi ci suggeriscono che questa abitudine sta cominciando a vacillare – e che difficilmente siamo in grado di mettere in discussione.
Fantozzi ha una casa, un lavoro stabile, una famiglia. Da un punto di vista oggettivo, Ugo è molto più vincente di quanto possa essere uno stagista di ventott’anni che nel 2018 prende cinquecento euro al mese per lavorare dieci ore al giorno. Potremmo quasi dire che si tratta di un privilegiato. Ma è proprio la nostra percezione della realtà che è sfasata, abituati alla visione del lavoro come qualcosa di cui essere grati anche se ci relega a una vita infelice, insoddisfatta e umiliante. Il ragioniere, infatti, è intrappolato in quel limbo di mediocrità esistenziale, dove il tempo libero significa tempo libero dal lavoro, dove la giornata, i mesi, e gli anni vengono scanditi da un calendario prestabilito che ti dice cosa fare e come farlo.
Ci sono infatti tanti momenti di ritualità imposta dall’alto nei film di Fantozzi, ovviamente caricati con il solito tono grottesco che è diventato il marchio di riconoscimento della saga. C’è la settimana bianca, obbligo aziendale che impone a un incapace come Ugo di misurarsi con le classi dominanti – le quali lavorano sempre e comunque alla conservazione dello status quo, ammirando i poveri impiegati sottoposti come una sorta di animali esotici. È ridicolo vederlo rotolare giù da una pista con degli scii che risalgono alla Prima guerra mondiale, ma è anche tragico vedere un uomo qualunque che a causa di una vita trascorsa nella medietà del quotidiano che si ripercorre sempre uguale non ha mai potuto imparare a sciare, o giocare a biliardo, o coltivare qualsiasi altro passatempo che richiede semplicemente un sano diritto all’ozio. C’è la festa d’azienda per Capodanno, dove il divertimento a tutti i costi si intreccia con la tenera quanto ingenua pretesa di uno svago senza nessun senso se non quello di essere visto come una cosa che si fa, una ricorrenza in cui il piacere esiste solo sul piano di un codice e non sull’esperienza. E poi c’è il famosissimo cineforum, e tutto il gigantesco fraintendimento che ha fatto di Fantozzi il paladino dell’anti-cultura, dell’uomo stanco delle cose serie, del “e che palle il cinema impegnato!”. Non sono di certo l’unica ad aver visto la scena della famosa Corazzata Kotiomkin – parodia della Corazzata Potemkin di Eisenstein – come una messa in pratica dei valori rivoluzionari della pellicola, e non come una rivolta alla noia dell’intellettualismo. Lo afferma ad esempio Giacomo Manzoli in Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione, lo hanno più volte fatto notare i Wu Ming: non è un urlo di liberazione verso un film, è una rottura delle imposizioni aziendali, è una messa in pratica di quei valori che il realismo socialista ha ben rappresentato, è la conferma della sua spinta sovversiva. Ma non è abbastanza per far sì che il sistema si rovesci, la normalità è ben presto ristabilita, e tutto quello che ci ricordiamo è solo quel “una cagata pazzesca” e i successivi novantadue minuti di applausi, che fanno ridere come un bambino che al catechismo lancia una bestemmia.
La gabbia della condizione esistenziale di Fantozzi non si limita solo alla vita pubblica, alla sfera lavorativa in cui si riversano tutti quei tentativi inutili di coltivare qualcosa – tutte le varie declinazioni di svago fallimentare con il collega Filini – ma si manifesta anche all’interno della sua stessa casa. Il rapporto di Ugo Fantozzi con le donne, a questo proposito, è estremamente esemplificativo della sua natura da schiavo di un sistema in cui l’unico valore è il bene materiale, il guadagno e la posizione sociale che ne deriva. Le donne della sua vita sono tre: la moglie, la signora Pina, tragica e rassegnata ma comunque unico vero e costante supporto per il marito; la figlia, Mariangela, simbolo del fallimento e dell’umiliazione perenne che si abbatte sulla famiglia Fantozzi; e la signorina Silvani, la trasgressione, la bizzarra rappresentazione del desiderio animale e fuori dagli schemi pre-imposti, che è in realtà essa stessa un ingranaggio nell’opprimente sistema della Megaditta, opportunista e avida. Gli unici rapporti che Fantozzi instaura con le presenze femminili si alternano tra uno stato di servilismo assoluto e prepotenza violenta: il matrimonio è un altro degli infiniti impegni che la società richiede, l’evasione e il tradimento sono solo tentativi di fuga che rientrano negli schemi dettati dall’alto. Comunque vada, l’insoddisfazione e la noia si fanno largo nella vita sentimentale del protagonista perennemente infelice, e si tramutano in sfoggi di meschinità ed egoismo. È la metafora della nuvoletta dell’impiegato: non è il creato che ce l’ha con te, è che la tua vita ti fa schifo, e se l’unico godimento nella tua esistenza deriva dall’interruzione del dovere le probabilità di essere felice sono davvero basse.
L’unico bagliore di speranza sembra essere la presenza fugace del sindacalista Folagra, il quale nel Fantozzi del 1975 apre gli occhi al ragioniere coi pantaloni ascellari e il basco sempre in testa. È una presenza momentanea, una minuscola parentesi di rottura con il sistema che circonda Ugo e la sua misera esistenza. “Ma allora mi hanno sempre preso per il culo,” dice Fantozzi quando tra un volume del Capitale e un taglio di capelli “a mezzocollo” prende coscienza della trappola esistenziale della società dei consumi e dell’inganno del capitalismo opprimente con una rivelazione epifanica. La presenza di Folagra però dura poco, Fantozzi torna al suo posto – ci starà per altri trent’anni – e anche questa volta la rivoluzione si rimanda a un momento non precisato del futuro. Certo, se nella Megaditta di Folagra ce ne fossero altri mille, probabilmente l’equilibrio si spezzerebbe, ma se l’azienda è fatta da arrivisti come il geometra Calboni o come Fantozzi stesso, difficilmente si può ambire a un vero e proprio rovesciamento del sistema. Se tutti i dipendenti puntano a diventare loro stessi padroni, allora il futuro è sempre uguale al presente. E dunque Fantozzi arriva così a vedere coi suoi stessi occhi quella famosa piscina dove nuotano i dipendenti, le poltrone in pelle umana e quell’ufficio dall’assetto monacale francescano – “Vuole un sorso d’acqua, un tozzo di pane?” – che comunicano la totale dedizione del Megadirettore per l’azienda, il quale non fa altro che accogliere il suo dipendente sfuggito, la pecorella che ha perso il selciato: “Io la penso come lei”. Ed è qui che si rivela tutto l’inganno, perché no, il Megadirettore non la pensa come Fantozzi. Al Megadirettore serve che Fantozzi la pensi così, che continui con le sue vacanze programmate, con il suo torneo di calcio per scapoli e ammogliati, con la sua mensa e la sua eterna insoddisfazione. E sì, Fantozzi sarà anche una saga banale, ripetitiva, scontata, ma ha un grande merito, quello di aver reso comprensibile a tutti che questo stato di cose fa tanto ridere, ma per le sue contraddizioni tragiche, non per la sua comicità bonaria.