Qualche settimana fa su Instagram, aperto seguendo il solito riflesso involontario che porta il mio pollice a cliccare sull’icona dell’app senza che abbia nemmeno il tempo di rendermene conto, mi è capitato di leggere il post di un’amica. La didascalia, che accompagnava un selfie particolarmente sorridente, raccontava di un dettaglio del proprio viso: un particolare imperfetto, una dentatura un un po’ storta, che l’avrebbe fatta sentire in difetto, a disagio, per anni, spingendola a nasconderla in ogni modo, anche a costo di risultare goffa, impacciata, timida. Finché non ha deciso di sistemare con alcuni mesi di apparecchio quella che ai suoi occhi era un’imperfezione troppo evidente, acquistando così nuova fiducia in se stessa.
Possiamo pensare che quel fastidio fosse frutto di tutti gli standard propinati via media negli ultimi decenni. Standard che prima, nelle diverse parti del mondo, erano figli di una precisa comunità di appartenenza, connotati da forti componenti etniche e sociali, di cui esistevano declinazioni locali e da cui era meno facile di oggi distanziarsi. Le grandi migrazioni, volontarie o forzate, hanno insegnato all’uomo che la diversità può essere più accentuata e spaventosa del previsto, e poi i media hanno fatto tutto il resto, passando da essere strumento attraverso cui vedere la varietà del mondo comodamente da casa a una livella dei canoni estetici in grado di annullarla. Credo che nel caso della mia amica la fiducia ritrovata non derivi dalla consapevolezza di essersi in qualche modo conformata a dei canoni, quanto dalla genuina visione di una miglior versione di se stessa. In ogni caso, la decisione di sistemare una parte di sé che, per metonimia, la faceva sentire brutta e sbagliata e a cui non ha voluto arrendersi ha avuto un unico risultato: farla sentire meglio.
Che gli standard di oggi siano una costruzione arbitraria è qualcosa di cui dovremmo essere ormai consapevoli, e di conseguenza dovremmo aver imparato ad accettare di essere come siamo per natura, ringraziando di poter scegliere, quando siamo fortunati, in che modo vestirci, pettinarci, truccarci. Eppure non sembra sia proprio così. Un movimento e una filosofia come quelli del Body Positive sono nati con il nobile scopo di insegnare alle persone – in primis alle donne, le più rappresentate secondo canoni per la maggioranza irraggiungibili, e quindi le più inclini a essere insoddisfatte del proprio corpo – ad accettarsi, secondo un messaggio preciso: “Soffrire per il proprio aspetto è sbagliato, andate bene così come siete”. Il tutto, trattandosi di un discorso legato al corpo e all’aspetto fisico, ha finito per ridursi nel tempo a una questione di bellezza. Non importa che tu sia magra, grassa, che abbia i fianchi larghi o stretti, le smagliature o il seno piccolo, la pancetta o i capelli crespi, il nasone o le labbra sottili, i denti o le gambe storte: vai bene esattamente così come sei.
C’è chi su quest’idea ha costruito il proprio successo, come Dove, che nel 2004 ha cominciato la sua più celebre campagna con una mostra fotografica a Toronto e alcuni manifesti affissi per le vie di Germania e Regno Unito che raffiguravano “donne normali”, poi diffusi in tutto il mondo, passando per video, premiati a Cannes, che denunciavano le barbarie di un Photoshop ben più efficace di diete e bisturi, fino a fare della “real beauty” il messaggio cardine del brand. Viene da chiedersi innanzitutto cosa sia questa “bellezza vera” e come abbia fatto, proprio Dove, a identificarla. Forse grazie a studi antropologici arricchiti di approfondimenti in filosofia estetica o forse attraverso accurate ricerche di mercato, ma non si tratta piuttosto dell’ennesima imposizione, mascherata da proposta o da semplice fotografia di un reale che è molto più vario di quanto vorrebbero farci comodamente credere? Se il movimento Body Positive ha radici ben più datate, la trovata dei pubblicitari del marchio che hanno intuito il potenziale di quel messaggio – in grado di intercettare il sentimento del 98% delle donne, o almeno di un campione di 3200 di loro – ha portato a farne un caso mediatico.
Ma individuare un problema, come scrive Amanda Mull per Racked, non corrisponde automaticamente a risolverlo, e quattordici anni dopo siamo ancora qui a dibattere, senza che ci siano stati grandi cambiamenti. Non abbiamo nemmeno una traduzione italiana o, che so, francese di un movimento le cui rivendicazioni non riguardano solo l’occidente americano, ma qualsiasi ragazza e donna che abbia a disposizione un paio d’occhi per guardarsi allo specchio e mettersi a confronto con tutto il resto – un confronto da cui, anche volendo, non sembrano lasciarci scampo. Una ricerca condotta nel 2016 della American Psychological Association, con la comparazione di 250 studi effettuati tra il 1981 e il 2012, conferma come siano molte più donne, rispetto agli uomini, a essere insoddisfatte del proprio corpo, e come questo tipo di sentimento porti spesso allo sviluppo di disordini alimentari e perfino alla depressione. Insieme, documenta come il tasso di insoddisfazione, relativo soprattutto al peso corporeo, sarebbe sceso nel corso dei 31 anni presi in esame: il picco venne raggiunto negli anni Novanta, con un’inversione di tendenza e un calo durante i primi anni Duemila – almeno, del disagio femminile, mentre quello maschile sarebbe rimasto costante. Secondo uno studio della Royal Society pubblicato lo scorso maggio, le donne, messe a confronto con immagini di corpi più magri del proprio, tenderebbero a sviluppare un senso di insoddisfazione maggiore. La conclusione di questa ricerca è che aumentare in generale attraverso i media la presenza di immagini di donne normopeso o sovrappeso potrebbe ridurre nelle persone in generale il sentimento di frustrazione nei confronti del proprio corpo e, insieme, contribuire alla diminuzione di disturbi alimentari e obesità.
Questi dati, presi insieme, potrebbero far pensare che allargare il messaggio Body Positive possa far sentire meglio le persone e pian piano contribuire a ottenere dei risultati. Ma il marketing che si è fatto veicolo di tale messaggio, vampirizzandolo, fino a stravolgerlo, non credo che abbia ottenuto molti risultati – a parte un concreto aumento delle vendite. Chi ha smesso di usare Photoshop sulle proprie modelle ha comunque continuato a selezionarle secondo gli ormai tradizionali canoni di bellezza – o è riuscito ad abbracciare il messaggio solo dopo molte critiche, che avrebbero rischiato di sbriciolare la credibilità del brand. Non è bastato prendere volti come Ashley Graham, che avrà pure qualche taglia in più, ma ha comunque un viso che potremmo definire convenzionalmente bello, in cui non tutte potremo identificarci – magari! Non sarà una campagna ben congegnata a farci stare meglio, al massimo ci convincerà a comprare qualche prodotto in più, nella speranza di combattere quei leggeri inestetismi che la pubblicità non manca di farci notare decine di volte al giorno. Ai tempi del lancio della campagna di Dove avevo esattamente 14 anni, mi apprestavo a fare il mio ingresso nel mondo dell’adolescenza, alle prese con i cambiamenti del mio corpo e con dei compagni di classe meno crudeli di quelli delle medie, ma comunque in grado di rendere un piccolo particolare un macigno difficile da sopportare. Non sono mai stata alta, anzi: oggi, alla soglia dei 28 anni, quasi nessuno mi fa più pesare la mia statura, a parte una battuta ogni tanto, ma ricordo bene le crisi dell’epoca, quando mi dicevo disposta a farmi spezzare le gambe per avvitarci pezzi di ferro che mi regalassero qualche centimetro in più. Altro che tacchi, su cui comunque non sono mai stata in grado di camminare. Anni dopo ho conosciuto una ragazza affetta da nanismo, che mi ha raccontato gli orrori delle procedure di allungamento e mi ha mostrato le sue cicatrici. Forse da ragazzina mi sarebbe stato più utile sentirmi raccontare una storia come la sua piuttosto che sfogliare i femminili acquistati da mia madre e trovarci pagine e pagine di modelle dalle cosce lunghissime intervallate da suggerimenti per la dieta e, qua e là, ogni tanto, foto di gruppo in cui donne normali, in intimo bianco o color carne, se ne stavano abbracciate tra loro, risultando tanto imbarazzate da sembrare intirizzite. No, non mi riconoscevo, e non mi sarei riconosciuta, né in qualche chilometro di gambe, né in quel gruppo di donne spacciate per “normali”, troppo simili fra loro, come se anche la normalità dovesse avere a sua volta uno standard.
E no, non basterà il piccolo esercito di influencer immolatesi per la causa, sbattendo in piazza cicce e difetti, per far sentire meglio noi donne imperfette. Sempre noi donne, ovviamente. Non metto in dubbio che molte – giusto perché anch’io voglio essere “positive” – siano mosse da intenzioni sincere e da una reale volontà di condivisione e di sorellanza, ma non riesco a liberarmi dall’idea che in definitiva anche queste stelle di Instagram, più o meno consapevolmente, stiano sperimentando una strategia di self-marketing efficace quanto quella messa in atto da Dove. Che poi tocca sbrigarsi, mica ci sarà spazio per tutte per capitalizzare i propri difetti.
Nemmeno la moda, nonostante i proclami, ha mai fatto abbastanza, non che nutrissi grandi speranze: oggi, dopo i provvedimenti, più o meno significativi, presi rispetto a canoni di magrezza, si è passati a utilizzare esempi di bellezza imperfetta, che si contraddistinguono per un dettaglio disturbante, insolito o fuori posto, non tanto per perseguire e diffondere il messaggio del Body Positive, quanto perché come in fotografia, ormai, ci vuole un punctum. La volontà non è abbracciare una normalità banale, ma confezionare un esercito di freak da ammirare come in un safari. Non vengono sdoganati i difetti, ma spettacolarizzati. E nemmeno questo ci farà sentire meno soli, o parte di qualcosa. A me semplicemente ha fatto pensare che se da piccola non mi avessero costretto a mettere l’apparecchio fisso, oltre a evitarmi battute sul mio sorriso metallico, ora avrei ancora quello spazio in mezzo agli incisivi che potrebbe garantirmi una copertina. Nemmeno le modelle stesse, icone del Body Positive, hanno fatto abbastanza: invece di difendere le proprie peculiarità e di portarle avanti con pretesa fierezza, le hanno messe a servizio di quel sistema che prima le rifiutava e di cui hanno voluto – giustamente – far parte a loro volta. Invece però di scardinarlo e di stravolgerlo, si sono conformate all’estetica e ai linguaggi correnti, mostrando sì, di essere anche loro in grado di farne parte, ma senza riuscire ad affermare nulla di nuovo e adattandosi, invece di ottenere un adattamento.
Chi, dall’alto, si è appropriato del modello Body Positive si è soprattutto concentrato sulla bellezza, dimenticandosi che ancora nel 2018 contano, oltre all’ossessione per il peso corporeo, anche il colore della pelle, o l’identità sessuale, o le disabilità, fattori che oggi, accettati o meno, fanno la differenza. No, il problema non sono solo i chili di troppo, come non basta sdoganare le lentiggini per dire di aver lasciato spazio anche ad altri colori. Ma c’è un altro grande problema di fondo, ancor precedente: il messaggio secondo cui soffrire per il proprio aspetto fisico sia sbagliato è a sua volta sbagliato, perché non fa che instillare un senso di colpa, che si aggiunge all’insoddisfazione. C’è chi, dopo lunghi percorsi, è abbastanza forte da mettersi praticamente a nudo e raccontare la propria storia. Ma chi non riesce ad accettare il proprio corpo, ad abbracciare ogni imperfezione come propria, unica, peculiare e per questo “meravigliosa”, si ritrova, una volta in più, non all’altezza. Perché il mio corpo dovrebbe andarmi bene a tutti i costi? Se non sopporto quelle occhiaie nere con cui mi sveglio ogni mattina, sia che abbia dormito quattro ore, sia che ne abbia dormite 12, ho il diritto di spendere i miei soldi per un correttore che permetta al mio volto di sembrare più luminoso, donandomi un aspetto più sano – bastasse quello – senza che io debba sentirmi frivola o in difetto perché non ho imparato ad apprezzare quelle occhiaie. Così come credo che chiunque abbia il diritto di mettere un apparecchio per i denti, anche superata la pubertà, rifarsi il naso, senza doversi nascondere dietro la scusa di un setto deviato da sistemare per evitare apnee notturne, o il seno, o un trapianto di capelli, se questo può contribuire a essere più soddisfatti del proprio aspetto e a stare bene. Non bastano le foto della modella Sophia Hadjipanteli per convincermi che posso essere bella in stile Frida Khalo: preferisco armarmi di pinzette e dare alle mie sopracciglia la forma che trovo possa valorizzare il mio viso. Ho il diritto di volermi migliore e di modellare il mio aspetto, senza per forza arrendermi a quello che avrei se fossi nata in mezzo a una foresta. Ho il diritto di depilarmi le ascelle, anche se per molti sarebbe più femminista non farlo, senza per forza sentirmi succube dei canoni in ogni aspetto della mia vita.
Ogni donna, ormai, per essere fedele a un modo di pensare Body Positive, dovrebbe guardare al proprio corpo in modo appunto positivo, e accettarlo incondizionatamente, anche quando non è quanto davvero vorrebbe fare. Questa lotta, però, per molte, è solo stata trasferita a un livello ancor più emotivo. L’accettazione è una procedura molto più complessa della lettura di un messaggio, del politicamente corretto a tutti i costi e della ripetizione di un mantra, rimasticato e digerito.
L’unica vita per prevenire discriminazione, razzismo, bullismo e infelicità per il proprio aspetto è un’educazione, che parta dall’infanzia e che insegni che le diversità sono normali e sono anzi una ricchezza. E soprattutto non sono relegate alla sfera estetica, visiva, anche se durante gli ultimi decenni ci hanno abituato a nutrirci di immagini, a esprimerci per immagini, a ragionare per immagini, fingendo che gli standard servissero a tutti per parlare una lingua comune. Il piano, forse, andrebbe ulteriormente spostato. Mi piacerebbe perdere un paio di chili, concedermi più tempo per visitare qualche mostra d’arte, trovare una matita per gli occhi che valorizzasse il mio sguardo, riuscire essere più generosa e imparare a prendermi meno sul serio. La mia aspirazione a un miglioramento dal punto di vista culturale, etico e morale ha la stessa dignità della volontà di intervenire su quelli che costituiscono per me dei difetti dal punto di vista estetico. Davvero, non capisco perché cercare di avvicinarmi sempre di più all’immagine che ho di me dovrebbe essere meno accettabile rispetto al promettermi di leggere qualche libro in più o di contare fino a dieci prima di rispondere male.