Nell’Antologia di Spoon River, la celebre raccolta di poesie alla quale De Andrè si ispirò per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo, Edgar Lee Masters scriveva: “Questo è il dolore della vita: che per essere felici bisogna essere in due”.
Questa frase è molto più di un vezzo poetico di uno scrittore statunitense nato nel 1868, ma è la fotografia di un pensiero antico quanto la cultura occidentale, ormai interiorizzato involontariamente da quasi tutti noi. Per essere felici, bisogna essere in due, in altre parole, non possiamo essere felici da soli. Il che per certi versi è vero perché, come sostiene Aristotele nella Politica, l’uomo è un animale sociale che tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. Un pensiero che ha attraversato i secoli, da Thomas Merton che sostiene che nessun uomo è un’isola, a Tolstoj, che in La felicità familiare (1859) scrive – per essere poi ripreso nel film Into the Wild del 2007 – che la felicità è reale solo se condivisa.
Sebbene questo pensiero sostenuto dai più grandi filosofi, scrittori, artisti e intellettuali della storia sembri non fare una piega, se lo proiettiamo sulle relazioni romantiche cadiamo in un grande equivoco. È vero che l’uomo è un animale sociale, ma credere che per essere felici sia necessario condividere la vita con una singola persona e che questa debba soddisfare ogni nostro bisogno emotivo e psicologico, ogni tipo di necessità creativa e umana, non può che farci del male.
Dall’altra parte, quando si cerca di emanciparsi da questo pensiero diffuso, dando la giusta dignità alla solitudine – nella sua declinazione ascetica che spesso nella cultura occidentale è una caricatura del pensiero orientalista di stampo buddista –, si finisce per scambiare per mantra il luogo comune per il quale “per stare con qualcuno bisogna stare bene con sé stessi”. Ancora una volta, il benessere individuale diventa solo la base di partenza per raggiungere una relazione ideale fatta di momenti di totale e perenne felicità condivisa. Inoltre, un meccanismo che ci porta a desiderare qualcosa di astratto, nel migliore dei casi costringendoci a vivere in uno stato di continua frustrazione e nel peggiore a convincerci che la relazione che abbiamo sia l’incarnazione di quell’ideale.
Per questo la nostra realtà sembra ormai essere una versione edulcorata di The Lobster di Yorgos Lanthimos. Viviamo con l’impellenza sociale di dover trovare un partner e per questo spesso finiamo per vedere solo ciò che stiamo cercando: ci convinciamo di non essere abbastanza completi e finiamo con il credere che chi abbiamo accanto sia la nostra metà e di non poter essere felici da soli, instaurando un rapporto di bisogno che può sfociare nella dipendenza.
È ormai noto che la dipendenza emotiva, da un punto di vista neurobiologico, può essere equiparata a quella dalle droghe: come scrive lo psichiatra francese Michel Reynaud nell’articolo Is Love Passion an Addictive Disorder?, in entrambe le condizioni di dipendenza il soggetto sperimenta “euforia e desiderio sfrenato in presenza dell’oggetto d’amore o di stimoli ad esso associati (intossicazione da droghe); umore negativo, anedonia e disturbi del sonno quando separati dall’oggetto d’amore (astinenza dalla droga); attenzione focalizzata e pensieri intrusivi sull’oggetto d’amore; modelli di comportamento disadattivi o problematici che portano a menomazione o angoscia clinicamente significativa, che si mantengono nonostante la conoscenza delle conseguenze negative”. Secondo Reynaud, questo avviene perché la relazione sentimentale stimola alcune regioni cerebrali che producono dopamina e ossitocina, creando dipendenza.
Da un punto di vista psicologico, spesso si va incontro a una relazione tossica o di dipendenza quando si soffre di sindrome dell’abbandono. È bene specificare che, nonostante ostacoli la vita sociale di chi la sperimenta, questa non è ancora stata definita come un vero e proprio disturbo dalla comunità scientifica. Chi soffre di sindrome dell’abbandono spesso si trova in uno stato costante di ansia che non permette di instaurare un rapporto di fiducia con l’altro e teme costantemente il distacco ed è spesso convinto di non meritare l’amore altrui. Per questo mette in atto all’interno della relazione meccanismi disfunzionali che lo portano a subire – o infliggere – rapporti nocivi che però non è in grado di evitare per il tanto temuto distacco. Spesso l’origine di questa condizione è da ricercare nei traumi da allontanamento dal care giver subiti in età infantile.
A partire dal 1969 lo psicologo britannico John Bowlby ha elaborato la teoria dell’attaccamento, basata sull’assunto che ogni bambino, nella fase della crescita che va dagli 0 ai 3 anni, ha bisogno di una relazione con almeno un caregiver – ovvero una figura genitoriale, biologica o meno, che lo accudisca – affinché sia possibile che da adulto abbia un sano sviluppo sociale ed emozionale. Bartholomew e Horowitz hanno esteso l’attaccamento descritto da Bowlby alla relazione di coppia durante la fase adulta, individuando quattro modelli comportamentali basati sulla percezione di sé e del partner. Il primo è il modello dello stile sicuro: è ciò che avviene quando si ha un’immagine positiva sia di sé stessi che del partner. In questo caso si stabilisce un rapporto sano, bilaterale e in equilibrio tra condivisione e indipendenza. Lo stile ansioso-preoccupato si verifica quando si ha un’immagine di sé stessi negativa e positiva dell’altro. Chi è ansioso-preoccupato cerca livelli sempre più alti di connessione emotiva e intimità, così come rassicurazioni da parte del partner (che non saranno mai sufficienti). Spesso mette in atto atteggiamenti impulsivi e meccanismi di dipendenza.
Quando si ha una valutazione di sé stessi positiva, ma un’opinione negativa dell’altro, si rientra nel modello distanziante-evitante, con cui si ricerca un alto livello di indipendenza, fuggendo l’attaccamento. Spesso queste persone reprimono i propri sentimenti, considerandoli mal riposti. È invece riconducibile al modello timoroso-evitante chi ha una visione negativa di entrambi i poli di una relazione. In questo caso si ha un rapporto conflittuale con il concetto di relazione in genere, desiderandola e rifiutandola allo stesso tempo. Anche in questo caso l’adulto reprime i propri sentimenti e allontana il partner, ma non crede di meritare il suo amore.
Tuttavia, considerare esclusivamente le motivazioni psicologiche o neurobiologiche alla base dei rapporti di dipendenza sarebbe un limite. È necessario esplorare anche l’influenza sociologica sulla dinamica di dipendenza affettiva. Questo è l’approccio della Sociology of emotions, che applica teoremi e tecniche sociologiche allo studio delle emozioni umane, analizzandole come attori che interagiscono nell’ambiente sociale, spesso manipolate e strumentalizzate dalle sovrastrutture in cui si muovono: per esempio con l’istituzionalizzazione del sentimento romantico fatta dal matrimonio post-moderno. In quest’ottica possiamo capire meglio l’impatto della società sulle insicurezze che ci portano a sviluppare relazioni di dipendenza.
Siamo cresciuti con l’immagine di un amore romantico intriso di determinismo e aspettative talmente alte da essere quasi sempre irraggiungibili. Una mentalità ereditata dal mito della mela del Simposio di Platone, che ci porta a pensare di essere incompleti se non condividiamo la vita con l’anima gemella. Il punto è esattamente questo: se ci viene insegnato che siamo esseri soltanto a metà è naturale che cercheremo di completarci. E se ci viene insegnato che quello che ci manca è un’altra persona, magari non universalmente perfetta ma perfetta per noi, è chiaro che finiremo per dare a quella mancanza un nome proprio, senza arrivare a capire che è il concetto stesso di perfezione a non poter essere più considerato attendibile. Il potere distruttivo dell’idealizzazione è molto pericoloso se sottovalutato. Non possiamo più ignorare l’influenza nociva dell’immaginario dell’amore romantico “a tutti i costi”.
Dobbiamo impegnarci per raggiungere un equilibrio capace di ricordarci che la realizzazione in qualunque relazione passa prima di tutto dal rapporto che abbiamo con noi stessi. L’altro non è la nostra parte perduta, ma lo specchio che in un rapporto positivo ci restituisce un’immagine che era completa già prima di incontrarlo.