Agli sgoccioli del secondo millennio, Josh Harris vide un mostro. Non era una singola creatura, ma la realtà sociale – social, più che altro – che conosciamo adesso. Era il 1998 e aveva appena finito di guardare The Truman Show. Harris, all’epoca, era un giovane imprenditore digitale multimilionario con il vizio di dilapidare il suo patrimonio in progetti strampalati. Il film con Jim Carrey era geniale, ma a suo modo di vedere mancava qualcosa. Nello stesso periodo, in Olanda, l’imprenditore John de Mol aveva visto lo stesso mostro. Entrambi, senza conoscersi e a distanza di chilometri, tentarono di rendere The Truman Show più sporco, più reale, più orwelliano direi. Così, nel 1999, De Mol diede vita al Grande Fratello, programma televisivo che l’avrebbe reso uno degli uomini più ricchi d’Europa; ed Harris creò Quiet: We Live In Public, esperimento sociale che gli fece perdere tutto e portandolo a fuggire in Etiopia, convinto di essere spiato dall’FBI e chiedendo ai giornalisti di portargli mutande pulite e libri di Tolstoj.
Quasi tutto ciò che conosciamo di questo folle esperimento lo dobbiamo alla regista Ondi Timoner, che nel 2009 realizzò il documentario We Live In Public, con lo stesso Harris coinvolto in prima persona. Il progetto Quiet era così articolato: circa 150 persone chiuse insieme in un bunker sotterraneo di New York trasformato in una sorta di capsule hotel con 110 telecamere a riprendere tutto e a mostrare le loro vite in diretta sul web. Rispetto al Grande Fratello, l’esperimento di Harris non soltanto non aveva censure, ma aveva l’intento di spingere i partecipanti al loro limite più estremo, fin quasi a tornare allo stato brado, primitivo. Come i topi ammassati nelle gabbie dell’esperimento degli anni Settanta Universo 25, i soggetti regredirono e arrivarono all’implosione sociale. Anche perché Harris esasperò il concetto stesso di libertà: c’erano droga, un poligono di tiro con armi utilizzabili in qualunque momento, e più che un reality divenne ben presto un parente di un’installazione artistica. Harris fu definito l’Andy Warhol del web, ma lui stesso ci tenne a rimarcare le differenze: “Warhol diceva che tutti avrebbero voluto i loro 15 minuti di fama nella vita, mentre oggi è diverso: la gente chiede 15 minuti di fama ogni giorno”.
I partecipanti, dopo qualche timidezza iniziale, si dimenticarono delle telecamere e passarono le giornate a scopare, a drogarsi, a cagare e pisciare con la porta aperta. La privacy era totalmente scomparsa. Se Il Grande Fratello intraprese la strada dello show televisivo, diventando con il passare delle edizioni sempre più un mero contenitore di gossip, il progetto di Harris mantenne i tratti dell’esperimento antropologico, che mostrava cosa può succedere in uno spazio delimitato e “sregolato”. Fu lui stesso a spiegare i meccanismi che, dall’interno, i partecipanti non erano riusciti ad afferrare: “I leoni e le tigri erano i re della giungla, ma poi un giorno finirono nelle gabbie degli zoo. Ho il sospetto che siamo sulla stessa strada”. Ciò che avvenne in quel bunker circa venticinque anni fa, quando i social non esistevano e Internet era ancora in una fase embrionale, lascia trapelare il futuro che sarebbe toccato all’intera specie umana, con la difficoltà a distinguere ciò che è pubblico da ciò che è privato. Harris non ti stava dicendo “questo potrebbe accadere”, ma “questo accadrà”. E così è stato.
Certamente Harris è stato guidato da aspetti di megalomania non indifferenti. Non era più il creatore del progetto e nemmeno il regista: nella sua testa voleva essere il suo demiurgo, tanto che disse: “Qui tutto è gratuito, tranne la tua immagine. Quella la possediamo noi”. E, in effetti, i partecipanti potevano avere tutto, da cibo ad armi a qualsiasi altra illusione di libertà, offrendo però in cambio la loro privacy. Qualcosa di simile alle dinamiche dei social di oggi: possiamo iscriverci gratuitamente, ma in cambio a venire tracciata è la nostra vita. Dati e informazioni di vario genere vengono utilizzati per creare annunci pubblicitari, per indirizzarci verso un marchio o persino un’ideologia, con filter bubble a darci l’illusione di essere sentiti, compresi, apprezzati. In qualche modo, essendo anche noi “monitorati”, siamo animali da laboratorio come nell’esperimento di Harris, ricevendo feedback ingegnerizzati senza rendercene conto. Se scriviamo a un nostro amico su Whatsapp che siamo raffreddati, è probabile che su un social appaia la pubblicità di uno spray nasale. Il bunker di Quiet si è ingigantito a dismisura, e la politica del controllo, soprattutto quello invisibile, condiziona le nostre vite.
Ci sono diverse analogie tra quel progetto e la realtà social di oggi. Harris e gli spettatori si accorsero che i partecipanti iniziarono a cercare di attirare l’attenzione in ogni modo. Chi con comportamenti folli, chi con il pietismo, e quasi tutti distorcendo all’inverosimile vari aspetti del proprio carattere per essere accettati dal gruppo e ottenere un riconoscimento. Oggi, quel riconoscimento è rappresentato dai like, dai commenti, dalla ricerca spasmodica di numeri e follower. Quei 15 minuti di fama al giorno li bramiamo ardentemente, spinti da un mix di dopamina, edonismo e tentativi di mettere una toppa alle nostre insicurezze attraverso una versione ripulita – ed edulcorata – di quel che siamo. Siamo diventati i demiurghi dei nostri profili social, contemporaneamente partecipanti e spettatori di uno spettacolo che non può prescindere dal voyeurismo.
L’esperimento di Harris si interruppe dopo circa un mese, quando l’1 gennaio 2000 il Dipartimento di Polizia di New York ordinò un’irruzione nel bunker. D’altronde, droga libera e colpi d’arma da fuoco in allegria non potevano garantire di certo un certificato di durabilità al progetto. Harris, ormai a un passo dalla psicosi, però, non si arrese. Decise di mettere le telecamere a casa sua, filmando in diretta la sua vita con la fidanzata Tanya Corrin. 24 ore su 24 sotto i riflettori, sorvegliati dal pubblico sul web. Inevitabilmente la coppia andò in frantumi. Dopo qualche mese Corrin abbandonò il progetto e il compagno a causa dello stress emotivo. Lui, indomito, definito “il visionario delirante”, provò a portare avanti l’esperimento da solo, fino ad arrendersi a causa di un esaurimento nervoso che lo costrinse a spegnere tutto e a ritirarsi prima in una fattoria di mele in campagna, poi come dicevamo in Etiopia.
Sempre nel documentario di Timoner, Harris prova a indagare su queste velleità da Dio sorvegliante. Cercando di autopsicanalizzarsi torna alla sua infanzia, quando la madre lo lasciava per ore davanti alla TV a guardare la vita degli altri. Esclama infatti: “È così che sono stato addestrato. Penso di amare mia madre virtualmente, non fisicamente”. Ed è lo stesso rischio che stiamo correndo adesso, quando anche i legami vengono filtrati dalla virtualità e fatichiamo a riconoscere un desiderio intimo da un bisogno artefatto; un sentimento autentico da un’idealizzazione cibernetica; o, addirittura, la libertà da un sistema di sorveglianza indiretta chiamato social network.
Eppure siamo in un’epoca in cui crediamo di avere accesso a qualsiasi cosa. E in qualche modo lo abbiamo, anche se non sempre ci interroghiamo sul prezzo da pagare. Non sappiamo se le due ore passate a scrollare il feed di Instagram tra un video di castori e una danza durante un matrimonio in India siano frutto della nostra volontà o del capriccio del Dio Algoritmo, cioè la versione molto perfezionata di Josh Harris. Se condividiamo la foto di nostra nipote e la mostriamo al mondo non sempre ci rendiamo conto del patto invisibile che è intrinseco nella natura dei social: tu puoi mostrare quello che vuoi, gratuitamente, ma noi ti risucchiamo la privacy. Così, si accartoccia su se stesso anche il meccanismo di causa ed effetto: non sappiamo più cosa provenga dalle nostre intenzioni o cosa dalla nuova socialità che ci aggroviglia. Possibilmente censuriamo il volto della nipotina con l’emoticon di un cuore, ma intanto arriverà ugualmente l’inserzione di un passeggino o di un omogeneizzato di ultima generazione. Ogni nostra mossa è tracciata. Forse non siamo mai usciti da quel bunker, e senza quei 15 minuti quotidiani assunti come un farmaco ci sentiamo smarriti. Siamo entrati nella gabbia senza essere mai stati re della giungla.