Quando per un esperimento medico centinaia di afroamericani furono lasciati morire di sifilide - THE VISION
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Negli Stati Uniti del primo Novecento, le teorie di Darwin conobbero un’eccezionale popolarità. La loro influenza non si limitò al mondo scientifico: a partire dalla prima pubblicazione dell’Origine delle specie, nel 1858, la borghesia americana strumentalizzò le opere dello scienziato, appellandosi ai princìpi della selezione naturale per giustificare un sistema sociale profondamente discriminatorio – ma giusto, secondo alcuni filosofi dell’epoca, proprio perché fondato sulla naturale prevaricazione da parte dei “più adatti a sopravvivere”. L’idea che alcuni popoli fossero naturalmente più evoluti di altri era coerente sia con i princìpi che governavano il modello socio-economico del tempo – con il potere interamente nelle mani dei bianchi –, sia con la cultura razzista condivisa dalla maggior parte della popolazione e che, grazie al neonato darwinismo sociale, godeva ora anche di un’apparente legittimazione scientifica.

A partire dal Diciannovesimo secolo, con l’abolizione della schiavitù, fra i pregiudizi perpetrati dal cosiddetto “razzismo scientifico” cominciarono a svilupparsi – insieme all’idea che gli afrodiscendenti fossero intellettualmente sottosviluppati e, quindi, più simili agli animali che agli esseri umani –, anche alcune teorie pseudoscientifiche riferite alla loro sessualità e ai loro organi genitali. Era opinione diffusa che gli uomini neri conducessero una vita sessuale sregolata, agissero guidati esclusivamente dai loro istinti e fossero, quindi, anche maggiormente propensi a contrarre infezioni sessualmente trasmissibili,  a partire dalla sifilide, protagonista negli anni Venti e Trenta del Novecento di una vera e propria emergenza sanitaria. Con questi presupposti, nel 1932, in una cittadina dell’Alabama, lo Us Public Health Service (Phs) intraprese quello che settant’anni dopo gli esperti avrebbero definito “Lo studio più infame nella ricerca biomedica degli Stati Uniti”: l’esperimento sulla sifilide di Tuskegee (Tuskegee Study of Untreated Syphilis in the Negro Male).

Fra il 1929 e il 1931, circa il 40% degli abitanti di Tuskegee (Alabama) soffriva di sifilide. Gli alti tassi di contagio non avevano nulla a che fare con la presunta ipersessualità, bensì con il fatto che la popolazione della regione, quasi interamente afroamericana, non era a conoscenza delle modalità di trasmissione dell’infezione – e continuava quindi ad avere rapporti sessuali senza ricorrere ad alcun tipo di precauzione  – e a causa di povertà e segregazione non poteva contare nemmeno su alcun tipo di tutela sanitaria. Il Phs ritenne che rappresentasse il campione perfetto per studiare la naturale progressione della malattia – “Un’occasione unica”, per citare il dottor Taliaferro Clark, direttore dello studio, “per osservare gli effetti della sifilide non curata”. Secondo il pregiudizio condiviso dalla comunità scientifica, d’altra parte, le persone nere sarebbero comunque state troppo ingenue e testarde per accettare di sottoporsi a cure specialistiche, anche qualora avessero potuto farlo. La scelta ricadde così su 600 uomini di età compresa fra i 25 e i 60 anni – 399 malati e 201 sani –, tutti contadini, poverissimi, analfabeti e ignari non solo di essere malati, ma anche di essere stati reclutati per l’esperimento. 

La ricerca venne presentata ai partecipanti come un’opportunità per curare il cosiddetto “cattivo sangue” (bad blood), termine colloquiale riferito a una vasta gamma di patologie e disturbi come reumatismi, anemia e affaticamento, ma anche epatite B e mononucleosi. Per aggirare la diffidenza che gli afrodiscendenti nutrivano nei confronti dei bianchi, il Phs coinvolse nel reclutamento Eunice Rivers, un’infermiera afroamericana locale, ma anche le autorità ecclesiastiche, gli insegnanti, gli anziani della comunità e, in generale, chiunque potesse contare sulla fiducia dei contadini. A questi ultimi furono promesse, in cambio della loro partecipazione, assistenza medica gratuita, pasti caldi e persino un’assicurazione per coprire (previa autopsia) i costi del loro eventuale funerale. Lo studio divenne protagonista di una vera e propria campagna pubblicitaria: volantini che promuovevano “Esami del sangue gratuiti da parte dei medici governativi”,  occasioni più uniche che rare per dei mezzadri neri del Sud, cominciarono a tappezzare i muri degli edifici.

All’inizio dell’esperimento, il Phs fu costretto a stipulare un accordo con lo Stato dell’Alabama, per cui chi risultava positivo alla sifilide avrebbe dovuto essere sottoposto alle cure allora conosciute: tutti, ad eccezione dei partecipanti, sapevano però che le dosi di farmaco somministrate (generalmente a base di mercurio e arsenico e, in ogni caso, scarsamente efficaci) erano molto inferiori a quelle raccomandate e, quindi, completamente inutili. Meno di un anno dopo anche questi blandi trattamenti furono interrotti, ma i partecipanti – che non avevano acconsentito alla somministrazione di alcun medicinale, erano volutamente tenuti all’oscuro della diagnosi e non sapevano nemmeno di essere contagiosi – continuarono a essere visitati, affinché il medico potesse prendere nota dei progressi della malattia e proseguire con la fase di follow up. I controlli prevedevano, fra le altre cose, dolorosi prelievi spinali, i cui effetti collaterali duravano settimane. A causa della parziale “contaminazione” del campione che, nell’idea originale, non avrebbe dovuto ricevere alcun farmaco, l’esperimento era ormai completamente inattendibile: ciò nonostante, pur di non interromperlo, il Phs continuò ad attivarsi affinché nessuno ricevesse alcuna terapia, condannando alla sofferenza – e, talvolta, alla morte – non solo i partecipanti, ma anche le loro partner sessuali e i loro figli.

All’inizio dell’esperimento, le malattie veneree erano generalmente incurabili. Negli anni Quaranta si assistette però alla scoperta della penicillina, che nel 1943 cominciò ad essere facilmente reperibile in tutto il mondo e a partire dal 1951 divenne la cura raccomandata per la sifilide. In quegli anni la nazione si riempì dei cosiddetti “centri di trattamento rapido per il controllo delle malattie veneree“, cliniche gestite dal Phs e in cui i pazienti infetti potevano beneficiare del nuovo antibiotico. Tutte le persone positive potevano accedere ai centri: tutte, tranne i 600 partecipanti della ricerca.

Lo studio di Tuskegee sarebbe dovuto durare fra i sei e i nove mesi: durò quarant’anni. Fino al 1972, anno in cui l’esperimento venne ufficialmente dichiarato “Eticamente ingiustificato” e i ricercatori furono costretti ad interromperlo, i contadini sopravvissuti continuarono a ignorare il fatto che i ricercatori li stessero trattando come cavie. Non si può dire lo stesso della comunità scientifica: i risultati della ricerca erano stati infatti resi noti fin dall’inizio e, negli anni Sessanta, diversi esponenti del Servizio sanitario nazionale avevano espresso serie preoccupazioni rispetto alla dimensione etica dell’esperimento, sollecitando il Center for Disease Control and Prevention (Cdc) ad interromperlo il prima possibile. Nemmeno la netta opposizione delle associazioni mediche era riuscito però a interrompere questa follia.

CDC (Center for Disease Control and Prevention), Atlanta, Georgia, 1961

All’inizio degli anni Settanta Peter Buxton, investigatore del Phs che da anni ribadiva al Cdc la necessità di ultimare lo studio al più presto, si confrontò con Jean Heller, giornalista dell’Associated Press. Grazie alle sue rivelazioni, il 26 luglio del 1972 la prima pagina del New York Times titolava:Syphilis victims in U.S. study went untreated for 40 years” (Vittime di sifilide coinvolte in uno studio statunitense e non curate per quarant’anni). Di fatto, fu quindi la stampa a decretare la fine dell’esperimento: nessun risarcimento, riconoscimento legale o messaggio presidenziale avrebbe potuto però restituire la vita alle almeno 128 persone morte a causa della malattia, né la salute alle decine di donne infettate e ai diciannove bambini già malati alla nascita.

Da un punto di vista prettamente scientifico, l’esperimento fu un totale fallimento. Nel 1970 uno dei ricercatori, il dottor James Lucas, dichiarava: “Nulla di quello che è stato appreso aiuterà a prevenire, trovare o curare un singolo caso di sifilide infettiva o ci porterà più vicini alla nostra missione di controllare le malattie veneree negli Stati Uniti”. Eticamente, si trattò invece di un vero e proprio abuso reso possibile dalla cultura razzista che regolava non solo la quotidianità della popolazione, ma anche l’atteggiamento della comunità scientifica. Un approccio ben riassunto dalle parole di John Heller, ex direttore del Dipartimento di malattie veneree del Phs, che in un’intervista del 1976 dichiarò: “La condizione dei partecipanti non meritava alcun dibattito etico. Erano soggetti, non pazienti; materiale clinico, non persone malate”.

Secondo alcune indagini, la divulgazione delle pratiche dello studio di Tuskegee fu responsabile nel 1980 di parte della differenza nell’aspettativa di vita tra uomini bianchi e neri. Se da un lato, infatti, le persone BIPOC (Black, Indigenous and People of Color) continuavano a essere discriminate anche sul piano sanitario a causa dei pregiudizi dei medici e delle difficoltà ad acquistare un’assicurazione, l’identificazione con persone che, per quarant’anni, erano state ingannate, manipolate e sfruttate dagli scienziati bianchi aveva infatti ulteriormente eroso la fiducia degli afrodiscendenti nel sistema sanitario, mettendo così ulteriormente a rischio la loro salute. Ma non è tutto. La memoria collettiva di Tuskegee continua ancora oggi ad alimentare lo scetticismo della comunità afroamericana nei confronti del mondo medico, con effetti tangibili anche rispetto alla scarsa fiducia riposta da molti, soprattutto fra i più anziani, nei confronti dei vaccini contro il Covid-19. A differenza delle tesi avanzate da negazionisti e complottisti, non si può dire che si tratti di una diffidenza immotivata.

Oggi, l’esperimento di Tuskegee rappresenta per la comunità scientifica uno dei pilastri del dibattito sulla bioetica. Soprattutto, però, la vicenda ci ricorda che quando pregiudizi, scienza e potere convergono nelle mani di una sola categoria, le conseguenze possono essere devastanti. Se non vogliamo che episodi simili si ripetano in futuro, è opportuno che tutto il mondo se lo ricordi.

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