Gli idiomi più usati come seconda lingua al mondo sono quelli delle ex potenze coloniali: inglese e francese, ma anche spagnolo e portoghese. Finita quell’epoca, ha resistito chi è stato capace di convertire quella dominazione in una forma meno lampante, fatta di egemonia economica e culturale più che di conquiste territoriali. Dal dopoguerra in avanti, gli Stati Uniti sono usciti vincitori da questa corsa ad affermarsi, sbaragliando tutti gli altri. Ed è il loro inglese – forte anche della facilità di apprendimento data da una grammatica di base relativamente semplice – la lingua che oggi tutti devono conoscere per lavorare, viaggiare, informarsi e comunicare a qualsiasi livello. L’affermazione di una lingua sulle altre è inevitabilmente la dominazione sul resto del mondo della cultura di cui è espressione: non a caso, ad esempio, ancora oggi la comunità cristiana di Beirut preferisce parlare francese e quella musulmana inglese. È inevitabile per le lingue naturali, ma non succederebbe se a diffondersi nelle comunicazioni fosse una lingua che non è propria di nessuna nazione: una lingua artificiale, inventata a tavolino, che si facesse carico delle interazioni tra persone da un capo all’altro del globo, senza esprimere egemonia culturale, politica, economica o militare. L’esperanto è uno di questi idiomi, quello che ha avuto più successo tra quelli inventati. Alla sua origine c’è il sogno pacifista di un medico e linguista polacco del XIX secolo, Ludwik Lejzer Zamenhof, e i suoi parlanti sono una comunità cosmopolita di membri che si pongono tutti sullo stesso piano.
Nato nel 1859 a Białystok, oggi in Polonia, Zamenhof cresce sotto l’occupazione russa, in un periodo di violenze tra le comunità della regione: protestanti tedeschi, cattolici polacchi, ortodossi russi ed ebrei. Zamenhof, appartenente proprio a quest’ultimo gruppo: vuole gettare un ponte sulle distanze tra le persone, specialmente le differenze religiose, pensa di farlo creando a tavolino una lingua internazionale, l’esperanto – “colui che spera”, dal suo stesso pseudonimo Doktoro Esperanto – alla cui origine sta l’idea di promuovere l’eguaglianza tra gli uomini e la pace.
Nel periodo di violenti nazionalismi che precede la prima guerra mondiale, il suo è un obiettivo ambizioso, da realizzare elaborando tra il 1882 e il 1887 l’esperanto, per proporlo come lingua franca per le comunicazioni internazionali. Se le lingue che parliamo non possono che essere portatrici di culture diverse e di una storia fatta di dominatori e dominati, l’esperanto rappresenta un nuovo inizio ed è lo strumento che, agli occhi del suo inventore, permetterà ai suoi parlanti di aggirare le divisioni insite nelle lingue naturali, riportando indietro la lancetta all’epoca pre-Babele, in cui l’umanità era una sola e viveva in pace. Non è un pensiero nuovo: nel XVII secolo i filosofi europei Francis Bacon, René Descartes e Gottfried Leibniz furono affascinati dai modi in cui le lingue naturali influenzano e offuscano il pensiero; si chiesero se un sostituto artificiale potesse effettivamente catturare e comunicare in modo più trasparente l’essenza delle cose. E il sogno di costruire un linguaggio filosofico capace di esprimere verità universali portò, nel XIX secolo, al desiderio di unire il mondo attraverso un unico linguaggio, facile da imparare, politicamente neutro.
Nel 1887 Zamenhof pubblica Unua Libro (“Primo libro”), seguito nel 1905 da Fundamento de esperanto, comprensivo di grammatica, esercizi e dizionario. L’esperanto si propone come una sintesi semplificata di diverse lingue da tutto il mondo, per lo più europee: vi compaiono latino, italiano, francese, tedesco, inglese, russo e polacco, ma non mancano giapponese, arabo e altre lingue ancora, oltre a termini inventati ex novo. Fondata su 16 regole basilari, si tratta di una lingua molto facile da imparare, si legge esattamente come si scrive e ha una grammatica semplice, regolare, senza eccezioni, senza declinazioni né coniugazioni, in cui i sostantivi finiscono in -o, gli aggettivi in -a e gli avverbi in -e. La semplicità è uno dei criteri che permettono a un idioma di diffondersi, come ha dimostrato l’inglese, e uno dei motivi per cui il cinese – che pure ha una grammatica semplice, ma un complicato sistema fatto di un numero infinito di ideogrammi, fonemi e toni di voce – fatica a diffondersi nonostante la sua annunciata affermazione che avrebbe dovuto essere veicolata dalla potenza economica e demografica cinese.
L’esperanto non resta l’invenzione di un idealista isolato e un po’ pazzo: 18 anni dopo la pubblicazione del primo libro esistevano infatti 27 giornali e riviste pubblicati regolarmente in esperanto e nel 1905 Zamenhof organizzò il primo congresso, a cui parteciparono poco meno di 700 persone. Per gli esperantisti la comunicazione ha un grande valore come antidoto alle spaccature tra i popoli, in vista di un superamento di nazionalismi e razzismo; questi ideali dovettero però scontrarsi con la dura realtà delle guerre mondiali e del nazismo: persino Hitler nel Mein Kampf condannò, in quanto giudicato la lingua della diaspora ebraica, l’esperanto, guardato con sospetto da molti governi ancora durante la Guerra Fredda. Ma, poco per volta, la lingua pacifista per antonomasia recuperò un certo credito e venne riconosciuta dall’Unesco nel 1954 per i “risultati ottenuti […] nel campo degli scambi internazionali e dell’avvicinamento dei popoli”. L’Unesco decide così di collaborare con la Uea (Associazione Universale Esperanto) per promuovere la diffusione della lingua. Nel 1968 l’ingegnere Giorgio Rosa lo adotta come lingua ufficiale della sua autoproclamata Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, fondata su una piattaforma artificiale nell’Adriatico a pochi chilometri dalla costa italiana, non riconosciuta da nessuno Stato. Nel 1985 l’Unesco invita ufficialmente i suoi stati membri e altre associazioni non governative a celebrare e promuovere l’esperanto.
Se, come sostiene la linguista statunitense Arika Okrent, la storia delle lingue artificiali è una storia di fallimenti, neanche quella dell’esperanto può essere considerata un successo, essendo stato subissato largamente dall’inglese nella sua diffusione a livello internazionale. Ma, considerando che al suo picco ha raggiunto 2 milioni di parlanti e che oggi si stima sia parlata a qualche livello da 100mila persone di cui 10mila in modo fluente e circa mille madrelingua – che hanno imparato la lingua sentendola parlare da piccoli, come George Soros che ha anche fatto tradurre in inglese le memorie del padre scritte in esperanto – resta la lingua artificiale più diffusa e più longeva. Con circa 25mila libri in circolazione e una nomina a premio Nobel per la letteratura nel 1999 per scrittore Bill Auld, ha anche una propria letteratura.
Oggi l’esperanto non è morto, ma anzi attinge nuova vita dalla globalizzazione, in tempi in cui la conoscenza di almeno una lingua straniera è imprescindibile: può infatti essere propedeutico. Secondo le ricerche, infatti, un breve corso intensivo di esperanto aiuterebbe nello studio successivo di un’altra lingua. Anche la diffusione di internet ne ha sostenuto la sopravvivenza: il programmatore esperantista Chuck Smith nei primi anni 2000 pensò che l’esperanto potesse essere un ponte nella traduzione svolta da appositi programmi, specialmente tra lingue che non hanno una grande quantità di insiemi di dati sovrapponibili, come finlandese e turco. Smith aprì così Vikipedio, il portale di Wikipedia in esperanto, che oggi conta circa 270mila pagine.
Oggi continuano a tenersi congressi di esperantisti, che mantengono i contatti facilmente tramite i social e tengono viva una comunità piccola, cosmopolita e ben aggregata, grazie anche a un servizio di couchsurfing gratuito dedicato agli esperantisti, nato addirittura prima del noto sito. Lernu! (“Impara!”) è il centro del web esperantista, con corsi online e un attivo forum, mentre il corso di esperanto su Duolinguo ha raggiunto nel 2017 il milione di studenti in tutto il mondo; sia la lingua che la app sono state create, almeno in parte, per risolvere lo stesso problema, cioè l’esistenza di divisioni veicolate dalle lingue e la necessità di imparare la lingua nativa di una minoranza egemone per cavarsela. Quella che è la sua forza – la non appartenenza a nessuna nazione – però è anche un freno alla sua diffusione, perché nessuno Stato ha interesse a promuoverlo nel mondo. Ma, considerando che esistono circa 6mila lingue naturali parlate da meno persone, si può pensare che l’esperanto sopravvivrà, in parte proprio grazie a internet e grazie agli ideali di armonia internazionale che promuove. Il suo grande valore è ancora quello di essere una lingua neutrale: imparare l’esperanto – come sostengono alcune persone che lo studiano e lo imparano – è una risposta può essere una soluzione verso l’armonia e il buon vivere comune. Di solito impariamo lingue per motivi lavorativi, quindi economici, o perché attirati dalla cultura, dallo stile di vita o dalla letteratura del Paese in cui questa si parla: imparare l’esperanto, invece, ha anche oggi, proprio come alla sua nascita, una valenza politica.