Nel 1969 scompare un dodicenne. Iniziano così 8 anni di persecuzioni per tutti i gay italiani.
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Il 31 gennaio 1969, verso le 14:30, il dodicenne Ermanno Lavorini esce di casa per andare a fare un giro in bicicletta, a Viareggio, e scompare nel nulla. Alle 18:00 la sorella riceve una chiamata: “Questa sera Ermanno rimane fuori a cena con noi,” dice la voce all’altro capo del telefono. “Dica a suo padre di prendere 15 milioni”. La famiglia Lavorini non è povera, ma nemmeno facoltosa. Il padre Armando ha un negozio di tessuti in centro città. La richiesta di riscatto prende tutti alla sprovvista; cosa vogliono dei rapitori da persone comuni come loro? 

Armando Lavorini, padre di Ermanno Lavorini, e il negozio di tessuti che gestiva a Viareggio

Il clima in Versilia è teso. Giusto un mese prima, la notte di Capodanno, le contestazioni studentesche sono arrivate al locale “La Bussola” di Viareggio. Nei giorni precedenti, sui muri delle varie città balneari sono stati affissi dei manifesti inquietanti: “Borghese vieni alla Bussola o alla Capannina. Vieni col tuo abito di gala, a bordo della tua grossa auto. Portati anche la fiammante signora ricoperta di pelliccia. Padroni, correte a far mostra di voi, a indicare com’è che si gode la vita. Noi saremo lì ad aspettarvi”. L’attacco al “Capodanno dei padroni” è organizzato dai militanti di Potere operaio e da altre sigle anarchiche e di sinistra. Quando la gente comincia ad arrivare al locale per assistere al concerto di Shirley Bassey, i contestatori sbucano da ogni parte per lanciare vernice, pomodori, uova. Poi arrivano i carabinieri e comincia la violenza vera e propria, finché i militari non sparano un colpo ad altezza uomo che colpisce Soriano Ceccanti, uno studente sedicenne, nel torace. Ceccanti rimarrà paralizzato a vita. 

Visti i fatti recenti, quando Lavorini scompare si pensa subito a un sequestro a sfondo politico, anche se per settimane nessuno rivendica il gesto né vengono fatte altre richieste di riscatto. Tutto il Paese si attiva per le ricerche, il Viminale invia i suoi uomini migliori, mentre le redazioni dei giornali e della Rai sono sommerse da notizie di avvistamenti, teorie del complotto, sensitivi e veggenti che si rendono disponibili a risolvere il caso. Il cantautore Franco Trincale compone addirittura una ballata per convincere i rapitori a restituire il bambino ai genitori, “Il ragazzo scomparso a Viareggio”. 

Ai primi di marzo, Ermanno Lavorini viene ritrovato morto in una spiaggia, sepolto nella sabbia, vestito e apparentemente senza alcun segno di violenza sul corpo. Neanche l’autopsia li rileva. 

Le indagini si concentrano sul gruppo di amici di Lavorini, finché il cerchio non si stringe intorno a tre ragazzi, Marco Baldisseri, di sedici anni, e due ventenni, Rodolfo Della Latta detto “Foffo” e Pietro Vangioni. Gli adolescenti si prostituiscono nella pineta di Viareggio, un luogo di battuage per omosessuali, e militano nell’estrema destra: Baldisseri è tesoriere del Fronte Monarchico Giovanile, di cui Vangioni è presidente, mentre Della Latta è membro dell’Msi. Le loro testimonianze sono molto confuse e contrastanti, ma soprattutto scoperchiano un universo che gli abitanti di Viareggio non conoscono, o fingono di ignorare: pare che molti concittadini frequentino la pineta, consumando rapporti sessuali a pagamento con minorenni, tutto questo con il tacito assenso dell’amministrazione locale socialista. Esplode lo scandalo.

Nei primi giorni di maggio, i tre ragazzi accusano un commerciante locale, Adolfo Meciani, di essere l’autore del delitto. Lo indicano come un frequentatore abituale della pineta, che avrebbe ucciso Lavorini per aver rifiutato le sue avances. Sui giornali, però, arrivano altre versioni: secondo La domenica del Corriere, gli avrebbe “fatto bere uno sciroppo drogato, poi lo aveva spogliato. Il ragazzo era stato preso dalle convulsioni e Adolfo Meciani gli aveva praticato un’iniezione per endovena. Così Ermanno era morto per collasso”. Meciani, sposato e con figli, viene così travolto da accuse infamanti ma, soprattutto, si trova a essere suo malgrado l’emblema di quella che viene definita lacittà impestata dall’incubo di quell’immondo imbroglio di omosessuali che si chiama ‘caso’ Lavorini,” come scrive L’Espresso.

Viareggio sembra essere diventata tutto a un tratto una Sodoma da distruggere col fuoco. Proprio L’Espresso, con il giornalista Mino Monicelli, porta avanti la campagna più feroce, assumendo toni violenti contro gli “invertiti” della città versiliese. Il Corriere parla di un “cancro occulto dietro la facciata di perbenismo della città, un cancro prolificato sull’indifferenza e l’assenteismo di genitori e parenti”. I giornali di destra, invece, trovano una correlazione diretta tra la corruzione morale della sinistra e l’omicidio: “È questo dunque il ‘sano popolo lavoratore’ che dovrebbe fare giustizia della società borghese?” si chiede Il borghese. “La campagna comunista non è soltanto sfacciata: è patetica”. 

Intanto Adolfo Meciani è in carcere. Il 24 maggio si suicida per la vergogna, impiccandosi, prima che la giustizia riconosca la sua completa estraneità ai fatti.

Adolfo Meciani

Il caso sembra risolto finché uno dei giornalisti inviati a Viareggio, il corrispondente de Il Giorno Marco Nozza, si accorge di un dettaglio: Baldisseri ha appuntato sul petto il distintivo del Fronte Monarchico Giovanile. Nozza chiede alle autorità di indagare sul gruppo di estrema destra, che ai tempi del Capodanno dei Padroni aveva contestato gli operai e che dopo la scomparsa di Ermanno era stato sciolto in fretta e furia. Pietro Vangioni cede per primo, e accusa Baldisseri di essere l’esecutore materiale dell’omicidio. Baldisseri per difendersi fa altri nomi: prima quello di Giuseppe Zacconi, che deve confessare di essere impotente per essere scagionato (e che morirà poco dopo per infarto) e poi quello del sindaco di Viareggio.

Le indagini, però, sono tutte concentrate sui tre militanti, che finalmente cedono e affermano di essere coinvolti nella morte di Ermanno che però, a detta loro, sarebbe stata accidentale. Il processo comincia solo nel 1975, e si conclude in primo appello con la condanna a 19 anni per Della Latta, 15 per Baldisseri – entrambi per omicidio preterintenzionale – e l’assoluzione per Vangioni. Il delitto però viene trattato sempre nell’ottica della pedofilia e del vizio, mentre la componente eversiva viene ignorata. Eppure, nello stesso anno della morte di Lavorini ci sarà la strage di Piazza Fontana, e i sequestri con finalità politiche si moltiplicheranno. Proprio nel 1969 comincerà la stagione degli anni di Piombo, e non si può ignorare il fatto che i tre giovani al centro delle indagini fossero coinvolti in quel “Capodanno dei padroni”. Per questo, durante il processo di secondo grado, l’accusa si è detta convinta che dietro la morte di Lavorini ci fosse la ben chiara volontà di finanziare il gruppo eversivo del Fronte Giovanile Monarchico, in risposta ai fatti del 31 dicembre. I tre avrebbero organizzato il rapimento per chiedere il riscatto alla famiglia e avrebbero ucciso Ermanno in modo accidentale. Baldisseri viene condannato a 8 anni, Della Latta a 11 e Vangioni a 9 per omicidio volontario e sequestro di persona a scopo di estorsione. Nel maggio 1977 la Cassazione conferma la sentenza, modificando però la motivazione in omicidio preterintenzionale, ma di fatto riconoscendo la natura eversiva del delitto. 

Rodolfo Della Latta, in un’immagine tratta dal settimanale Epoca

“Finché c‘erano da raccontare i particolari morbosi, fin quando il movente pareva sessuale, tutti a scrivere, a commentare, a stigmatizzare. Ma quando venne fuori la squadraccia del Fronte, l’interesse si sgonfiò,” scrive Nozza ne Il pistarolo, il libro che ricostruisce la vicenda, uscito dopo la morte del giornalista. Il caso Lavorini è stato una sorta di prova generale – a dire il vero molto maldestra – della strategia della tensione, il tentativo esplicito di creare una risposta violenta alla sinistra extraparlamentare. 

Ermanno Lavorini

L’unica vittima di questa storia non fu solo Ermanno Lavorini, ma anche l’intera comunità omosessuale italiana che per mesi si trovò sbattuta in prima pagina, dipinta come un gruppo di mostri, pedofili e assassini. E l’autore di questa violenza – che costò la vita a due innocenti, Adolfo Meciani e Giuseppe Zacconi – non fu il terrorismo politico, bensì il perbenismo democristiano della società italiana, amplificato dai media a caccia di notizie e particolari morbosi. Come spesso accadde in quegli anni convulsi, il commento più intelligente della vicenda fu di Pier Paolo Pasolini. “Nel lanciare le loro accuse, gli imputati del caso Lavorini sanno di far piacere all’opinione pubblica,” scrive. “Sanno di obbedire a una necessità di odio dell’opinione pubblica”. Sempre in cerca di qualcuno su cui sfogare il proprio livore.

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