Nel 1972, tre architetti, Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, pubblicarono un saggio che divenne oggetto di un dibattito molto acceso sul modernismo e il postmodernismo, Learning from Las Vegas. Al di là degli aspetti tecnici di questa querelle, il saggio è interessante per la riflessione sul senso delle città e del loro sviluppo nell’era del boom economico. Las Vegas, infatti, con la Strip, il linguaggio iper-simbolico fatto di segnali, insegne, cartelloni e luci costanti (tutti elementi in contrapposizione con lo stile scarno e minimalista del modernismo), ma soprattutto con l’ideologia libertaria ed edonista (una forma enfatizzata, ludicizzata e distorta del capitalismo che sta alla base della sua fama di parco giochi per adulti o di “Città del peccato”), non è solo un luogo di perdizione e di sfogo degli istinti più goderecci e sfrenati. Las Vegas è un concentrato stesso dell’americanità edulcorata e ammaliante su cui si fonda gran parte della cultura statunitense – di cui ci nutriamo anche noi da quasi un secolo. Non solo gioco d’azzardo, matrimoni che durano 24 ore, o alcol a qualsiasi orario: quel luogo è spettacolo costante, intrattenimento fino allo sfinimento e al deterioramento non solo delle idee, ma anche delle risorse, è il consumismo portato alla sua soglia più estrema. E non è un caso che sia Las Vegas la città che, per otto anni, con un totale di seicentotrentasei concerti, ha ospitato, fino a diventare metaforicamente la sua tomba dorata, l’artista simbolo dell’America, Elvis Presley.
“Before Elvis, there was nothing” è una famosa frase che viene attribuita a John Lennon. Il senso di questa iperbole è semplice: prima del King Of Rock and Roll, la musica leggera non conosceva il potenziale enorme e infinito che questo nuovo genere avrebbe portato. Elvis è l’incarnazione di quella coolness, naturalezza e sensualità che ogni artista pop e rock, dopo di lui, ha reinventato e riportato sul palco; potremmo infatti dire che Elvis è il padre spirituale di tutte le star musicali della seconda metà del Novecento che sono venute dopo di lui, da Kurt Cobain a Michael Jackson. Il suo carisma era talmente forte che presto la sua immagine si è trasformata in un’icona mistica, non solo per la sua morte prematura, ma per quel senso di sovrannaturale che la sua carriera musicale e il suo fascino hanno esercitato su un pubblico, trascinato in un rituale di liberazione collettiva – femminile, nel modo in cui le donne ai suoi concerti cominciavano finalmente a manifestare apertamente i loro desideri, sessuale e giovanile soprattutto. Una liberazione cominciata proprio negli anni Cinquanta anche grazie a lui, ai suoi movimenti pelvici – “Elvis the Pelvis” era il soprannome che gli davano i giornali – che lo hanno reso scabroso, nemico della Nazione – fu mandato in Germania a fare il militare per due anni – e sovversivo, fuori dagli schemi piccolo borghesi di un’America che si apprestava a diventare la vera potenza egemonica del Ventesimo secolo. Ma esattamente come il sogno americano porta in sé il dualismo contraddittorio di un modello consumista e privo di una sostenibilità a lungo termine, tutto proiettato sul presente, anche la storia di questo artista si divide in due direzioni: la magnificenza dello spettacolo, l’insostenibilità dell’eccesso.
Esistono migliaia di testimonianze video dei live di Elvis Presley. La sua immagine, il suo look, i suoi capelli, i suoi gioielli esagerati, la sua chitarra, tutto ciò che lo riguarda è diventato icona e feticcio, anche grazie al periodo storico in cui è nato: la fine degli anni Cinquanta, con la diffusione massiccia di elettrodomestici come la televisione, il momento in cui i divi e le dive non sono più solo al cinema, ma a casa di ciascun cittadino americano, ogni giorno. Di tutti i video che lo rappresentano intento a ballare, cantare e a muoversi con le sue movenze peculiari, ce n’è uno particolarmente toccante. Si tratta dell’ultima esibizione che Elvis abbia mai fatto prima di morire a soli quarantadue anni, nel 1977. È seduto al pianoforte, con il volto imperlato di sudore, visibilmente ingrassato e affaticato, ma canta “Unchained Melody” con la sua solita intonazione perfetta, guardandosi attorno e ridendo, circondato da bicchieri di Coca-Cola. Due mesi dopo, sarebbe morto in circostanze che ancora oggi non sono state del tutto chiarite, anche se, tra lo stupore, la negazione e le leggende metropolitane che ne sono scaturite, si possono intuire.
Elvis Presley, infatti, viveva in una sorta di cattività lussuosa: costretto dal suo agente, personaggio molto controverso, il Colonnello Tom Parker – il film di Baz Luhrmann, Elvis, uscito a giugno di quest’anno racconta molto bene la storia del rapporto malato di dipendenza tra loro due – a suonare per anni e anni a Las Vegas, senza poter mai uscire dagli Stati Uniti; consumato da una forte dipendenza da farmaci regolarmente prescritti dai suoi medici e dunque ai suoi occhi non interpretabili come vere e proprie “droghe pesanti”, nonostante gli effetti fossero esattamente quelli, se non peggiori. Elvis è morto d’infarto una mattina di agosto nella sua casa, la celebre dimora che aveva comprato anni prima per i genitori, Graceland, a Memphis, mentre si preparava per il suo prossimo concerto. Nessuno si aspettava che sarebbe morto in modo così improvviso, collassato su sé stesso, senza neanche una ragione precisa, se non forse proprio la rincorsa perenne al raggiungimento del suo sogno infinito, un sogno americano: dal cibo spazzatura in cui si rifugiava ai ritmi di vita alienanti e iperproduttivi, nonostante la depressione, la stanchezza, le malattie – un glaucoma alimentato proprio dalle luci del palco che per anni lo avevano illuminato – tutti attorno a Elvis potevano intuire cosa gli sarebbe successo, eppure nessuno lo ha davvero aiutato.
Come ha detto un suo collaboratore, parte di quella cricca che si era creata attorno a lui negli anni, la Memphis Mafia: “Solo Elvis avrebbe potuto salvare Elvis”. Eppure, nonostante la sua fine drammatica e precoce, la vita di Elvis è stata uno spettacolo. Non solo per il grande sogno del ragazzino di estrema provincia, povero e sfortunato, che grazie a una serie di coincidenze riesce a diventare il più amato e venerato di tutti nel mondo della musica, solo con le sue forze e la sua passione. Gli Stati Uniti si fregiano di questo tipo di narrazione per alimentare la loro stessa ideologia, fondata sulla convinzione per cui se vuoi puoi, se ci credi anche tu puoi diventare una star e se non ci riesci è perché forse non ci hai provato abbastanza. La storia di Elvis dimostra, esattamente come tante altre storie di pop star enormi – pensiamo, per esempio, alla vicenda di Britney Spears, con cui Elvis ha molto in comune, dagli anni a Las Vegas alla “prigionia” di padri e agenti avidi e sfruttatori – che la spinta al successo e la rincorsa al suo mantenimento non dipendono per forza da talento, forza di volontà e determinazione. Ci sono degli aspetti sociali ed economici che rendono possibile l’esplosione di un fenomeno in un preciso momento e che lo rendono altrettanto fallibile appena vent’anni dopo.
Nel caso di Elvis, la sua enorme potenzialità è deflagrata non solo per il fascino e la naturale predisposizione alla musica di questa persona, ma anche per il fatto che proprio in quegli anni, con le leggi di segregazione razziale, non esisteva un ponte tra la cultura afroamericana e quella bianca. Country e blues erano due mondi distinti che non potevano toccarsi, a meno che qualcuno, con una mentalità tanto aperta e curiosa da capire che è la contaminazione a fare la forza nell’arte, mai il purismo e la conservazione, non si fosse avventurato in una miscela che andasse oltre le regole vigenti. Elvis Presley, emblema di quell’americanità conservatrice, anche un po’ ignorante e bigotta per certi versi – fu lui che andò dal presidente Nixon per offrirsi come arginatore del fenomeno Beatles, colpevoli di portare i giovani su cattive strade con droghe e pacifismo – è paradossalmente anche il primo bianco che ebbe la curiosità e l’intuizione di esplorare e conoscere profondamente la musica afroamericana di quegli anni. Un percorso che non solo lo ha caratterizzato all’inizio della sua carriera, quando si fece strada con un rock and roll rivoluzionario e ipnotico, per cui non si capiva se fosse un bianco che cantava cose da neri o un nero che si avventurava nel country, ma lo ha accompagnato anche nelle decadi successive, con i suoi grandi ritorni: il gospel – la musica tradizionale delle chiese afroamericane, luoghi che lui stesso aveva frequentato da bambino quando viveva a contatto con il ghetto – era il genere con cui ha rilanciato la sua carriera alla fine degli anni Sessanta, dedicando anche una canzone alla morte di Martin Luther King Jr., “If I Can Dream”, e utilizzando sempre questa tecnica di contaminazione tra il suo stile e i grandi riferimenti culturali della sua formazione.
La storia di Elvis Presley non è solo musica, costume e intrattenimento. L’influenza enorme che gli Stati Uniti hanno avuto nella formazione dei desideri e dei gusti dell’Occidente nel Novecento passa attraverso i miti che hanno costellato la loro ascesa, non solo politica e militare ma anche, soprattutto, culturale. Divi del cinema, eroi dei fumetti, musicisti e cantanti che hanno di fatto creato un immaginario condiviso, un terreno comune di idolatria e consumo, anche per chi non ha mai appoggiato l’ideologia americana: la profondità del soft power statunitense è tutta qua, nel fatto che, per quanto si possa detestare, è difficile resistergli. Elvis Presley, in questo senso, è la metafora perfetta del mondo che lo ha creato. Sfavillante e seducente come una strada di Las Vegas, ma al contempo anche precario come un’insegna luminosa che può fulminarsi da un momento all’altro. La sua vita racconta perfettamente la parabola di un mondo dello spettacolo dedito a un accumulo che non guarda il futuro e le conseguenze della sua grandezza, ma vive solo il presente, fino a ridurre l’arte di cui si è nutrito in polvere. Tutto ciò rende questo cantante un concentrato di contraddizioni tra la sua essenza, fondamentalmente semplice e istintiva, un’essenza che ha spesso inseguito per ritrovarsi, specialmente nella fase finale della sua carriera e in quelle di insuccesso, e l’enorme sovrastruttura ingestibile e fagocitante che era diventato il suo personaggio. Elvis Presley è il sogno americano in tutto e per tutto, anche nell’assenza di un lieto fine.