Nel 1933, lo scrittore ventenne Romano Bilenchi pubblicava sulla rivista Critica fascista un breve intervento dal titolo Indifferenza dei giovani, in cui esortava la sua generazione a prendere le armi e a combattere in nome del regime fascista: “I giovani di Mussolini non devono avere per ideale una mensa imbandita e una comoda automobile,” scriveva, “Credete, voi, che l’impero ce lo facciano gli australiani? […] Ce lo dobbiamo conquistare da noi, e abbiamo accettato una tessera dove è scritto un giuramento terribile”. In un altro articolo – uscito sulla rivista Il Selvaggio – lo scrittore ritornava poi sulla questione, soffermandosi sullo scontro fra vecchia e nuova generazione: “Oggi noi abbiamo ventidue anni di età e nove di anzianità fascista. […] Non so se in Italia siamo numerosi, ma se ci domandassero: ‘Siete giovani o vecchi?’ risponderemmo: ‘Giovani e vecchi: questo il nostro privilegio e la nostra ricompensa’”.
La riflessione bilenchiana non è il frutto di un semplice ribellismo giovanile di matrice fascista, ma racconta di una forza che affondava già le sue radici nel passato e che riuscì a proporsi come attraente agli occhi delle nuove generazioni incarnandone le pulsioni e assecondandone le spinte vitalistiche, presentando con sicurezza il binomio fra gioventù e rivoluzione antiborghese – concetto, quest’ultimo, inizialmente alla base del “fascismo di sinistra”. Mussolini, infatti, comprese subito la forza evocativa e mobilitatrice del mito della giovinezza e costruì attorno a esso una potente retorica. Basti pensare all’invito all’azione rivolto nel 1914 ai “giovani d’Italia, d’armi e di spirito appartenenti alla generazione a cui il destino ha commesso di fare la storia” e all’inno Giovinezza, che sintetizza nella “primavera di bellezza” lo spirito delle camicie nere. Se la gioventù rappresenta il futuro della Patria perché, osservava il Duce, “ha il cuore intrepido e non teme la morte”, la vecchiaia che “s’aggrappa alla vita con disperata tenacia” diventa sinonimo della società borghese, di quello spirito infiacchito dai valori perbenisti e materialisti. In poco tempo il mito giovanilistico si trasformò quindi in una realtà concreta, attraverso un programma educativo ben preciso, il cui obiettivo era la nascita di una nuova gioventù, plasmata come sappiamo sul modello del combattente squadrista.
Il regime fascista esercitò la sua influenza sulle nuove generazioni servendosi soprattutto di due strumenti: le organizzazioni giovanili e la scuola. Fin dalle elementari, i ragazzi venivano inquadrati in strutture di tipo paramilitare come l’Opera Nazionale Balilla (ONB) e i Giovani Universitari Fascisti (GUF), che avevano lo scopo di controllare l’attività di bambini e ragazzi attraverso una rigida educazione – culturale, fisica e premilitare – finalizzata a formare i futuri soldati. Allo stesso modo, la scuola diventò uno dei luoghi privilegiati dal fascismo per la sua propaganda, fondata sull’esaltazione dello scontro e del razzismo, così come sul culto della forza fisica. Basti pensare all’introduzione del testo unico di Stato del 1929 – un utile strumento per la creazione di un’identità fondata su valori virilisti condivisi (“Libro e moschetto, fascista perfetto”, uno degli slogan più diffusi fra i giovani studenti) e all’adozione del Libro di cultura militare nelle scuole medie inferiori, utilizzato per educare e istruire il futuro cittadino e “per prepararlo all’esercizio delle armi, alla gerarchia e alla subordinazione”.
La fascistizzazione delle nuove generazioni passò, tuttavia, anche e soprattutto attraverso la pervasività del corpo e dell’immagine del Duce, riprodotto nei manuali, sulle copertine dei quaderni, sui calendari di propaganda e nei quadri che abbellivano le aule e gli altri spazi scolastici. A tale proposito, è interessante l’immagine che Italo Calvino offre della scuola fascista: “Si può dire che i primi venti anni della mia vita, li ho passati con la faccia di Mussolini sempre in vista. Sono entrato in prima elementare nel ‘29 e ho netto il ricordo dei ritratti del Duce. Lo ricordo nella piccola litografia a colori appesa in classe […] e in una fotografia in nero tra le ultime pagine dell’antiquato sillabario”. Per la generazione di Calvino, Mussolini rappresentava una figura mitica e familiare insieme, capace di esercitare fin dall’infanzia un forte potere di emulazione: “Fra i vezzeggiamenti che si usava fare ai bambini di un anno o due – scrive Calvino – c’era l’abitudine di dire: ‘Fa’ la faccia di Mussolini’, e il bambino prontamente assumeva un’espressione accigliata e sporgeva le labbra corrucciate. Insomma, il suo ritratto iniziammo a portarlo dentro di noi prima ancora di saperlo riconoscere sui muri”. I giovani si sentivano i soli in grado di poter mutare il corso degli eventi, e che il passato non dovesse più costituire un parametro attraverso cui costruire il futuro. Al contrario, tutto quello che faceva parte del “vecchio mondo” andava rigettato in blocco. E così, agitata dal desiderio d’eversione dell’ordine costituito, la nuova generazione fascista lottava per edificare un mondo nuovo, privo di padri e di controllori, e per vedersi affrancata dal perbenismo e dal materialismo borghesi.
Nell’arco di un quindicennio, il fascismo riuscì ad attrarre moltissimi giovani nelle proprie organizzazioni, invadendo la sfera domestica, scolastica e addirittura quella del tempo libero – colonizzata mediante i ludi juveniles della cultura, dell’arte e della musica, i Campi Dux (manifestazioni ginnico-militari riservate ai migliori avanguardisti del Paese) e altre forme di vita associata come il Cineguf, la stampa giovanile, il teatro all’aperto, il canto, la musica e le colonie estive. Per effetto dell’educazione ricevuta fin dalla più tenera età, la nuova generazione si trovò nella condizione di essere naturalmente fascista. L’identità del giovane maschio fu costruita attraverso il confronto con un rigido modello di mascolinità, che traeva le sue radici nel dinamismo, nella rottura di tutti gli schemi prefissati, nella velocità d’azione dell’uomo nuovo futurista, nell’esaltazione della violenza liberatrice contro il grigiore burocratico e borghese. Non c’è da stupirsi, dunque, se alla caduta del regime circa nove milioni di ragazzi di età compresa fra i sei e i ventun anni facevano parte delle organizzazioni fasciste. Certo, un’adesione così ampia fu sicuramente il frutto del sistema coercitivo messo in moto dal regime, ma resta il fatto che molti giovani come Bilenchi – nati sotto al fascismo ed educati secondo i precetti fascisti – consideravano Mussolini “l’unico vero rivoluzionario” del Paese e per lui, “che rimediava sempre agli errori degli altri”, si sarebbero “fatti ammazzare”.
Una prima opposizione al regime fascista da parte delle nuove generazioni avvenne solo nel 1936, con l’aggressione all’Etiopia e soprattutto con la guerra civile spagnola. Il sostegno del Duce al futuro dittatore Franco provocò diversi malumori fra i giovani intellettuali italiani e mostrò scopertamente la natura reazionaria e conservatrice del fascismo a livello sociale. In breve tempo, buona parte della nuova generazione forgiata da Mussolini si schierò dall’altra parte della storia, lottando contro l’esercito franchista e contro i principi e la propaganda fascisti. Come scriverà Elio Vittorini sul primo numero della rivista Il Politecnico nel 1945 la guerra civile spagnola face sbocciare un “nuovo antifascismo” che si formò “non per trasmissione di esperienza da padri a figli e da vecchi a giovani ma per dure e brutali lezioni avute direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni individuali e per faticose scoperte di verità. Tutta autoeducazione, e tutta tra il luglio del ’36 e il maggio del ‘39”. Ancora più in là negli anni, nel 1962, lo scrittore Vasco Pratolini affermerà: “Tutti i nostri equivoci caddero. Avevamo sempre attribuito al fascismo idee e intenzioni che non aveva. Ad essere fascisti di sinistra come noi s’era nell’imbroglio. […] La Spagna chiarì che eravamo contro la cultura e gli operai. Non fu la via di Damasco, ma la controprova dei nostri dubbi”.
Sebbene sia difficile stabilire il numero di italiani che partirono come volontari, se ne contano fra i 4 e i 5mila, molti dei quali giovani. L’esercito antifascista lottò con ogni mezzo possibile contro il franchismo, rimarcando, spesso, l’urgenza di portare le stesse istanze di libertà nel proprio Paese al grido di “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Questo fu possibile nel 1943, con l’inizio della Resistenza partigiana, ove il 75% dei combattenti per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo fu costituito da ragazzi nati fra il 1922 e il 1925. All’indomani dell’Armistizio infatti, più di 60mila giovani fra i diciassette e i trent’anni abbracciarono la causa partigiana, spinti dalla volontà di reagire all’oppressione fascista, all’occupazione tedesca e all’insensatezza di una guerra che soltanto in Italia portò quasi 500mila persone, fra civili e militari, alla morte.
A partire dalla metà degli anni Venti, il fascismo mise quindi in atto un vero e proprio esperimento di pedagogia politica di massa inquadrando i giovani all’interno delle proprie organizzazioni, sventolando il vitalismo giovanile come attivo fattore di cambiamento, mobilitando la nuova classe con la mistica del dinamismo, del virilismo e della rivoluzione antiborghese. In questo senso, il regime chiamò i giovani a rifiutare qualsiasi forma di solidarietà con la generazione precedente, a rompere tutti i vincoli d’eredità civile e culturale, convincendo loro che sarebbe bastata la giovinezza da sola per cambiare il mondo. Per la generazione di Bilenchi e Vittorini essere fascisti significò, però, non soltanto assecondare i propri impulsi vitalistici, ma anche ritrovarsi dentro forme di vita comunitaria che diventavano assoluto, crescere con il ritratto di Mussolini in bella mostra, aver subito un’educazione talmente forte da potersi dichiarare “giovani e vecchi” al tempo stesso e vantare a soli ventidue anni d’età ben “nove di anzianità fascista”. Quella stessa generazione – naturalmente fascista, perché educata esclusivamente attraverso i principi del fascismo – riuscì però ad affrancarsi dal modello proposto dal regime, a ripudiarlo prima nella guerra di Spagna e poi durante la Resistenza, dove ancora una volta (e questa volta, per davvero) fu chiamata a farsi carico di cambiare il mondo, a prendere in mano il destino collettivo.
La storia dei giovani partigiani è la storia del rifiuto ad accettare la realtà così come ci viene imposta dal potere. In questo senso, la lezione che ci lascia in eredità può diventare uno strumento fondamentale per intervenire sul presente e lottare per cercare di cambiarlo. In un mondo sempre più intollerante, in cui – come emerso anche in queste ultime elezioni europee – soffia un forte vento reazionario, le nuove generazioni sono chiamate a praticare una sana disobbedienza civile, a intervenire nella e sulla storia scendendo in piazza per far valere i valori legati alla democrazia, alla diversità, all’ambiente, ai diritti civili e sociali; sono cioè chiamati, ancora una volta, a reagire contro chi vorrebbe una società chiusa, intollerante, indifferente verso le minoranze, per portarla, come scrive il filosofo Walter Benjamin in Metafisica della gioventù, finalmente in “quel centro dove nasce il nuovo”.