Ne L’Agnese va a morire di Renata Viganò, l’unico romanzo della Resistenza scritto da una donna, l’Agnese del titolo diventa partigiana quasi senza rendersene conto. Dopo la firma dell’Armistizio l’8 settembre 1943, i tedeschi irrompono in casa della lavandaia Agnese per catturare il marito Palita, un militante comunista quasi del tutto infermo. Un giorno dei compagni la vanno a trovare per chiederle di trasportare la “roba da scoppiare” nei cesti del bucato: l’Agnese diventa una staffetta, trasporta le armi e fa le calze per i partigiani. Ma non si limita a questo. Una sera, presa da un impeto di rabbia contro il soldato che uccide la sua gatta per divertimento, fa “quella cosa”: mentre dorme, ruba il suo mitra e glielo scaglia in testa, uccidendolo. Da quel momento, l’Agnese entra a far parte a tutti gli effetti di una brigata, dandosi alla macchia e partecipando alle azioni.
Quella de L’Agnese va a morire e della sua autrice Renata Viganò, che prese parte alla Liberazione come staffetta e infermiera, è la storia di tantissime donne non politicizzate che, toccate in prima persona dagli eventi che seguirono l’Armistizio, decisero di compiere questa scelta estremamente difficile e radicale. Tuttavia, il sacrificio di queste donne è rimasto per lungo tempo ai margini della corposa storiografia dedicata alla Resistenza, che spesso si è concentrata solo sull’eroica e archetipica figura del partigiano giovane e maschio. Viganò ci racconta invece di una donna matura, goffa, molto pragmatica, lontana da ogni romanticismo ideologico, e lo fa nel 1949, pochissimi anni dopo la Liberazione. Eppure, nonostante la nostra memoria letteraria disponga di questo incredibile personaggio che va oltre ogni aspettativa, se parliamo di Resistenza pensiamo subito al partigiano Johnny o a Pin de Il sentiero dei nidi di ragno, e non a un’Agnese.
Le partigiane erano e sono considerate come delle aiutanti degli uomini, principalmente perché il loro lavoro nella Resistenza, come racconta bene il romanzo, fu soprattutto quello che la teoria femminista chiama lavoro riproduttivo e di cura: cucinare, lavare, curare le ferite, dispensare affetto e compagnia, organizzare la parte “burocratica” delle missioni. Questo contributo è considerato minore rispetto a quello di chi invece imbracciava il fucile. Tuttavia, si tratta di un duplice pregiudizio: da un lato, si ignora completamente che molte di queste donne a un certo punto presero effettivamente parte ad attentati e agguati; dall’altro si considera il lavoro riproduttivo come qualcosa di accessorio e non di essenziale come invece è avere vestiti puliti e rammendati, mangiare bene, dormire, trasportare di nascosto armi e munizioni e riceve cure mediche in una situazione di clandestinità. Le donne erano l’unico ponte tra la macchia e la vita civile, anche grazie al ruolo che ricoprivano nella società di allora: insospettabili, considerate incapaci di commettere violenza e deputate alla cura della casa. Questo significava poter eludere facilmente i controlli e disporre della tessera annonaria, una fonte di cibo imprescindibile in tempo di guerra.
Come scrive Pino Casamassima in Bandite! Brigantesse e partigiane – Il ruolo delle donne col fucile in spalla, “Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla ‘naturale’ divisione degli spazi”. C’era quindi anche un problema interno alla Resistenza e connesso al maschilismo della società italiana di allora, non estraneo ai partiti di sinistra. Comunisti e socialisti non volevano estendere il suffragio alle donne per paura che, per natura, avrebbero votato quello che diceva loro il prete: non ci deve quindi stupire se, nella maggior parte dei casi, vennero escluse da qualsiasi processo decisionale all’interno delle brigate e degli organismi di autogoverno.
Le donne diventarono così le maggiori esponenti di quella che lo storico francese Jacques Sémelin ha chiamato “Resistenza civile”, cioè tutte quelle pratiche di lotta messe in atto dai civili che non prevedevano l’uso della violenza, ma del coraggio, dell’astuzia e della capacità di influenzare gli altri. Una “guerra senz’armi”, come l’hanno chiamata Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone in un saggio sulla storia della Resistenza femminile in Piemonte. Questo non fu il destino di tutte le partigiane, ovviamente. L’Anpi riconosce 35mila “partigiane combattenti” (a fronte di 150mila uomini), che hanno ottenuto il ruolo di tenenti, sottotenenti o al massimo maggiori, e 20mila “patriote”, con compiti di supporto, assistenza e organizzazione. Le donne decorate con la Medaglia d’oro al valor militare sono 19, di cui 15 alla memoria e 4 in vita; gli uomini con questa onorificenza sono 572. Ma secondo la storica Simona Lunadei, questo si spiegherebbe anche col fatto che molte donne si rifiutarono di chiedere un riconoscimento a guerra terminata: molte, come il personaggio di Renata Viganò, sentivano solo di aver fatto quello che andava fatto.
Oltre a quelle che si trovarono a combattere per caso”, per senso del dovere o per seguire mariti, fidanzati e talvolta figli, ci furono anche donne già impegnate in politica o nelle associazioni comuniste e cattoliche che pretesero un ruolo più attivo all’interno dei nuclei partigiani. Da queste esperienze nacquero i Gruppi di difesa della donna (Gdd), un’associazione comunista e femminista fondata da Lina Fibbi, Pina Palumbo e Ada Gobetti, che partecipò a molte azioni di sabotaggio e lotta armata, e l’Unione donne italiane di sinistra (Udi). Anche molte donne cattoliche parteciparono alla Resistenza, mettendo a frutto le esperienze maturate nella Gioventù femminile di Azione Cattolica (come ad esempio la futura ministra della Sanità Tina Anselmi). Se questi gruppi nacquero con l’esplicito obiettivo di aiutare gli uomini impegnati nella Liberazione, già dal 1944 si organizzarono in maniera più autonoma e, oltre a partecipare attivamente alle azioni, fornirono supporto alle vedove, alle contadine o alle madri lavoratrici. Nel 1944 l’Udi fondò anche il proprio giornale clandestino, Noi donne, in cui si discuteva di politica e del ruolo della donna, si commemoravano le cadute e si riportavano le notizie sulle lotte femminili. I Gdd organizzarono anche numerosi scioperi e manifestazioni, su esempio della “rivolta del pane” del 16 ottobre 1941, quando un gruppo di donne parmensi assaltò un furgone della Barilla per ridistribuire il pane alla popolazione.
Di alcune figure straordinarie si ricordano ancora gli atti coraggiosi: Mimma Bandiera, la partigiana bolognese che, una volta catturata, resistette per sette giorni alle torture senza mai tradire i propri compagni. O Carla Capponi, dei Gruppi di azione patriottica (Gap) romani, che prese parte all’attentato di via Rasella. Quest’ultima ci ha lasciato un’autobiografia molto importante per capire il ruolo delle donne nella Resistenza, Con cuore di donna. Capponi racconta la difficoltà nello stabilire un rapporto paritario con i compagni del Gap, la loro riluttanza a consegnarle un’arma (che infatti dovrà rubare a un soldato fascista su un autobus affollato), ma anche il vantaggio di essere una bella ragazza in grado di distrarre fascisti e tedeschi, unito alla costante minaccia della violenza sessuale.
Che fossero staffette o dinamitarde, lavandaie o tiratrici scelte, senza le donne non si sarebbe compiuta la Liberazione. “Non consideratemi diversamente da un soldato che va su un campo di battaglia”, dice una delle tante testimonianze che compongono La donna nella Resistenza, documentario del 1965 di Liliana Cavani. Il loro contributo, al pari delle altre “Resistenze dimenticate”, come quella degli Internati militari italiani o quella creola e jugoslava, non può e non deve essere archiviato come qualcosa di marginale. In un momento in cui la memoria della Liberazione è sempre più osteggiata, in cui il 25 aprile viene considerata una festa “divisiva”, non possiamo permetterci il lusso di una memoria parziale.