Almeno una volta nella vita, se siete donne, vi sarete trovate a criticare un’altra donna. Nessuna si salva, nessuna è esclusa. Le nostre critiche spesso sono più feroci di quelle dei maschi: più acute, precise, ficcanti. Lo abbiamo sentito dire spesso: gli uomini saranno anche stronzi, ma le donne sono più cattive. Questa frase, come molte altre, è entrata nella coscienza collettiva e spesso sono proprio le donne a dirla, rievocando una serie di angherie e soprusi che hanno subito da altre donne. Fin da bambine il mondo, a volte involontariamente, ci convince di essere cattive. Abbiamo più strumenti per giudicare le malcapitate del nostro genere, perché sono gli stessi che usiamo per giudicare anche noi, in modo sempre troppo severo. Lo facciamo per prendere le distanze, per fare gruppo e sentirci parte di qualcosa, per tracciare i confini della nostra identità, in modo negativo, dicendo:“Io non sono come lei”.
Nel suo libro L’aggressività femminile, la psicoanalista Marina Valcarenghi definisce l’aggressività come “quella predisposizione istintiva che orienta a conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o in altri termini quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità”.
Le motivazioni di questo bisogno di definirci sembrano affondare le loro radici nel complesso femminile, ovvero in quell‘inibizione dell’aggressività delle donne operata nel corso degli ultimi secoli. Al giorno d’oggi, a questa violenza, si risponde ancora in modo squilibrato, oscillando spesso tra due estremi: da una parte quello dell’iper-aggressività, che porta alla critica e alla presa di distanza; dall’altra, quello del deficit aggressivo, che si riscontra nella difficoltà che molte donne incontrano nell’elaborare, affermare e proteggere con efficacia la propria identità soggettiva e il proprio progetto di vita, diventando vittime inconsapevoli della società in cui vivono e delle persone che le circondano. Una sorta di difficoltà nel mantenere la rotta, che ci impedisce di elaborare un’autodifesa del proprio spazio fisico, psichico e sociale. Ci lasciamo influenzare troppo, fin quando non ci accorgiamo di non essere più ciò che avevamo pensato di essere. Da lì la frustrazione e il senso di inadeguatezza.
Non sei tu la stronza, ma non sei neanche la vittima di quelle e di quelli più stronzi di te. Il problema non è della singola persona, ma è un fenomeno antropologico, esteso a un modo di essere di tutte, radicato profondamente nell’inconscio collettivo. Le donne non possono avviare un percorso di liberazione personale senza prima rompere questo condizionamento socio-culturale.
Come dice Valcarenghi, sembra sia successo qualcosa in tempi remoti che ha indotto la compressione dell’aggressività non di una ma di tutte le donne, forse una mutazione istintiva legata a uno stato di necessità o a esigenze conservative della specie. Per tracciare il percorso storico di questa repressione, che ha portato all’oppressione della donna, basta studiare la mitologia mediterranea– sumerica, assiro-babilonese e greca. Ci si rende conto che il complesso femminile affonda le origini nella narrativa del nostro genere. Dal mito, passando per i testi sacri, alla caccia alle streghe, fino a oggi.Lilith, la ribellione all’uomo; Meti, l’astuzia che supera l’intelligenza maschile; Eva, sappiamo tutti cos’ha combinato: la Storia, ma soprattutto le storie, ci avvisano. Il femminile è aperto, ricettivo, adattabile ma, come l’acqua, quando si agita ha una potenzialità distruttiva senza pari, e questa potenza ha sempre spaventato gli uomini.
Nella mitologia indiana, ma non solo, la narrazione della figura femminile ha assunto caratteri diversi. In India, infatti, le caratteristiche di genere, così come i nostri concetti cardine del Bene e del Male, sono molto più morbidi. Tra tutte spicca Durga, letteralmente “colei che difficilmente si può avvicinare”, Dea guerriera che venne evocata dalla Trimurti (i tre aspetti del divino, Brahmā il creatore, Viṣṇu il preservatore e Shiva il distruttore) per sconfiggere il caos distruttivo portato dal demone Mahishasura, il maschile fuori controllo; e Kali, la nera, creata dal sopracciglio aggrottato di Durga, la sua forma irata. Il suo aspetto è feroce e terribile perché implica un cambiamento radicale, che tutto dissolve, una distruzione totale del creato e del tempo. Non ci si può opporre a Kali. Si narra che questa dea fu fermata soltanto dal membro nudo di Shiva, spesosi in un “naked man” ante litteram per salvare il cosmo dalla sua ira.
Tornando alla contemporaneità, gli squilibri dell’aggressività femminile non sono mai stati analizzati approfonditamente, nemmeno dai padri fondatori della psicoanalisi. La riflessione che ci si avvicina di più è forse il Thanatos freudiano, visto come istinto di morte, o aggressività, che può portare un individuo ferito alla coazione, ovvero a ripetere azioni lesive, rimanendo così legato a ciò che lo fa star male. Una sorta di masochismo inconscio. Non vi vengono in mente alcune donne vittime delle loro reiterate scelte sbagliate? Quando incontri esclusivamente“psicopatici”, stalker, uomini possessivi o uomini che non si vogliono impegnare(mentre tu sì) di solito non è colpa del mondo, ma tua. Sei tu che in qualche modo attui una serie di dinamiche comportamentali inconsce e scelte tali per cui finisci abbandonata tre giorni dopo avergliela data, anche se ti aveva promesso amore eterno e tanti bambini– o quantomeno di venirti a trovare il prossimo week-end.
Dall’inibizione artificiale di questo istinto femminile nasce una lunga serie di comportamenti deficitari o eccessivi: senso di colpa, autodistruttività, abitudine al lamento, dipendenza, insicurezza o manie di controllo, senso del sacrificio, inadeguatezza, prepotenza e atteggiamenti insofferenti e collerici, rabbia che poi sfoghiamo su altre donne– perché non possiamo permetterci di farlo su nessun altro– e quelle donne lo sfogheranno su altre donne, e così via, ad libitum. A volte, invece, siamo ipercritiche per ottenere il favore di altre donne, e quindi potere, o degli uomini, e quindi complicità.
Spesso questo enorme senso di colpa che ci è stato caricato sulle spalle nei secoli si radica poi nel“reato del non-essere”. Ci sentiamo colpevoli, tra le altre cose, anche per aver subito soprusi, stupri, aggressioni e rifiuti, e così reprimiamo la vergogna, non la denunciamo, non ci esprimiamo. A volte finiamo per farlo vent’anni dopo– perché solo dopo vent’anni ci accorgiamo di esserci fregate da sole– per poi essere linciate dalla folla in qualità di furbe approfittatrici. Cosa vi ricorda?
Come nel brevissimo racconto di Jacques Sternberg, La cortesia: “Lei aveva ricevuto un’educazione eccellente, e il saper stare al mondo le veniva spontaneo. Quando, stanca di tutto, si gettò nel vuoto dal settimo piano, ebbe il tatto di richiudere la finestra alle sue spalle, per non fare corrente nella stanza dove suo marito leggeva il giornale”.
Il pensiero inconscio che si sviluppa da questo costante non sentirsi ascoltate e allo stesso tempo giudicate dalla società, da noi stesse e dalle altre donne finisce per tradursi in questo: “Se non posso trovare senso nella mia identità, e quindi nella mia esistenza, allora lo troverò sacrificandomi per l’identità altrui”. È così che la donna diventa vittima, senza nemmeno accorgersene. E non per colpa di qualcuno, ma esclusivamente sua, come reazione ai pregiudizi sociali che ha interiorizzato e che da secoli è costretta a sopportare. Abdica.
La società attuale ha perso fiducia nelle capacità e nella forza del femminile. Gli uomini, la loro religione, la loro storia, la loro filosofia, la loro letteratura – e dico “loro” perché, volenti o nolenti, la Storia, la Filosofia, la Letteratura, la Scienza che studiamo oggi sono state fatte al 98% dagli uomini – hanno convinto la donna di essere debole e colpevole, e lei ci ha creduto. Come la mucca che si fa sfamare dall’allevatore che poi la ucciderà. È un patto. Le donne che riescono a uscire da questo meccanismo, poi, invece di aiutare le altre, le giudicano ancora più aspramente, spostandosi sul carro zoppicante dei vincitori.
Ne Il conflitto fra le donne, Sofie della Vanth sostiene che la donna, non avendo riconosciuto nella società un ruolo positivo, appare spaesata e confusa. Da qui nascono la sua insicurezza e risentimento, che finisce per scaricare nella vita di tutti i giorni in inutili conflitti, andando ad alimentare sempre di più rancore e sprecando energie in modo controproducente alla sua realizzazione, e ostacolando ulteriormente il cammino delle altre donne.
Invece di sperare che qualcuno riconosca e difenda i nostri diritti, cerchiamo di operare noi per prime un cambiamento, giorno dopo giorno, senza lasciar perdere, senza distrarci, senza farci aiutare da nessuno: per una volta, senza adattarci. Non siamo vittime, dal momento in cui accettiamo di esserlo, la nostra forza e la nostra libertà svaniscono.