Per decenni la nostra società ha inculcato in tutte le nuove generazioni la convinzione che le discipline del sapere si dividano in due macro-aree: da un lato le materie umanistiche, considerate la scelta più consona per le donne; dall’altro quelle scientifiche da sempre attribuite agli uomini. Se è vero però che sono molte di più le donne che si avvicinano per svariati motivi alle lettere, non è detto che il sistema umanistico sia libero dal sessismo. Anzi.
Prendiamo un’antologia letteraria, ad esempio: quanti degli scrittori presenti sono donne? Poche, pochissime di sicuro nessuna di loro è riuscita a ricavarsi uno spazio più ampio di una pagina, quella che di solito è riservata agli autori minori. Durante gli anni scolastici questa grande assenza passa quasi inosservata e se capita che qualcuno la faccia notare, la risposta più comune è: “Le donne non hanno scritto grandi opere al pari dei loro colleghi uomini”. Ma ne siamo proprio sicuri?
Le donne letterate nel corso della storia italiana in realtà sono molte di più di quelle che i programmi ministeriali ci lasciano immaginare. La prima poetessa risale al I secolo a.C. e porta il nome di Sulpicia, con ogni probabilità autrice di sei biglietti d’amore contenuti nel Corpus Tibullianum. Nel Medioevo le donne scrivono nelle corti e nei conventi, come Caterina da Siena, santa e patrona d’Italia che nel corso della sua vita ha composto e dettato lettere dall’alto valore politico, orazioni, e il Dialogo della divina Provvidenza, in cui affronta temi come la povertà, l’obbedienza, la provvidenza divina. Con l’invenzione della stampa, poi, aumenta la disponibilità dei testi e quindi il numero di lettori, ma anche di lettrici e scrittrici e al biennio 1556-1558 risale il primo romanzo scritto da una donna: si tratta di Urania di Giulia Bigolina, pubblicato per la prima volta nel 2002 da Bulzoni.
A riportare alla luce invece la letteratura scritta da donne del Settecento è stata Tatiana Crivelli con il suo La donzelletta che nulla temea. Percorsi alternativi nella letteratura italiana fra Sette e Ottocento per Iacobelli Editore, che intende proprio uscire dai canoni letterari dominati dagli uomini per recuperare ciò che hanno fatto le donne. Il focus di Crivelli è l’Accademia dell’Arcadia di cui facevano parte circa 450 socie: un numero esorbitante, che però non ha trovato neanche un piccolo spazio sui libri di scuola. Qui la discriminazione è duplice: l’esperienza arcadica infatti è stata sempre denigrata sia dai contemporanei stranieri che dagli studiosi venuti in seguito perché considerata leggera e poco impegnata, femminea e poco virile. Nata nel 1690 come reazione all’eccesso del Barocco, l’Accademia prende il nome dall’Arcadia, regione della Grecia diventata topos letterario in quanto luogo idilliaco, e dal prosimetro omonimo del poeta Jacopo Sannazzaro di ambientazione pastorale. Si dota di regole specifiche, come il ricorso a pseudonimi, e si contraddistingue per una produzione di stampo classicista, “petrarchista”, bucolico. Per questi motivi, già il Romanticismo ne disprezzò la poetica considerata evasiva e anacronistica, poco impegnata e “seria”, mentre l’Italia era alle prese con l’Unità e quindi con la costruzione di un’identità civile. Il politico, filosofo e critico letterario Francesco De Sanctis, nella sua opera di sistemazione letteraria Storia della letteratura italiana – edita tra il 1870 e il 1871 – ad esempio parlò degli arcadi come di “gente dotta e insieme frivola”, intellettuali che “per correggere l’eroico si gettarono nel pastorale”. “Assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea” e ancora “profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta ‘idolo mio’, ‘mio bene’, ‘vita mia’” è invece definita la società che esaltava la poesia di Metastasio, allievo prediletto del fondatore dell’Arcadia. Si capisce bene quindi il motivo per cui le socie dell’Accademia siano state completamente dimenticate.
Alcuni imputano la mancanza di donne nel discorso culturale critico agli sbarramenti che dovevano superare con enormi sacrifici e fatica per riuscire ad accedere al mondo del sapere. Del 1847 è Dell’educazione morale della donna italiana in cui la scrittrice ed educatrice Caterina Franceschi Ferrucchi parla dell’importanza dell’istruzione femminile: bisognerà aspettare il 1874 però prima che alle donne venga data la possibilità di iscriversi ai licei e all’università. La fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento rappresentano un periodo di fermento e di grandi cambiamenti che portano alla nascita dei primi movimenti per l’emancipazione femminile. Le donne si riuniscono e parlano di diritti, battaglie e oppressioni. Nel 1908 si svolge il primo Congresso nazionale femminile a Roma e tra le partecipanti vi è anche una delle scrittrici più importanti e allo stesso tempo più emarginate della letteratura italiana del Novecento: Sibilla Aleramo. Nel suo romanzo autobiografico Una donna, che molti considerano una pietra miliare del femminismo italiano, Aleramo analizza la condizione delle donne attraverso la sua storia. Qui l’autrice parla di maternità, di sofferenza, di ambizioni e della necessità di salvare se stessa che l’ha portata a lasciare il marito e il figlio per prendersi cura di sé. Ma soprattutto, per la prima volta in un’opera letteraria, uno stupro è raccontato in prima persona da chi scrive.
Il Novecento è forse il secolo più emblematico per capire il problema dell’esclusione femminile dalle alte sfere della letteratura. Nel 1926 la scrittrice sarda Grazia Deledda è la prima donna italiana (e fino a oggi l’unica) a vincere il premio Nobel per la Letteratura. L’Accademia di Svezia la sceglie “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Eppure oggi il suo nome compare solo tangenzialmente nelle antologie e le sue opere vengono a stento nominate, figuriamoci lette.
Tanti sono i nomi di donne che emergono approfondendo la letteratura del Novecento. Come quello di Gianna Manzini, spesso paragonata dai suoi contemporanei a Virginia Woolf e considerata una figura chiave nella sperimentazione letteraria dell’epoca. O quello di Livia De Stefano, autrice di La vigna di uve nere, il primo libro scritto da una donna sulla mafia in Sicilia, e di La mafia alle mie spalle, in cui indaga il fenomeno attraverso la lente del patriarcato. Un riconoscimento maggiore, ma mai pari a quello ricevuto dal marito Alberto Moravia, ha avuto Elsa Morante di cui molti fin dagli esordi hanno apprezzato il talento e la capacità di usare la parola come atto politico. È stata la prima donna a vincere il premio Strega con l’Isola di Arturo, di cui l’amico scrittore Raffaele La Capria – a riprova dei pregiudizi sessisti che le scrittrici hanno sempre dovuto subire – bonariamente e in modo piuttosto paternalista disse: “È un libro pieno di forza e di immaginazione. Sembra impossibile (non ti adirare!) che sia scritto da una donna”.
Purtroppo ancora oggi nelle librerie ci sono settori di “romanzi rosa”, “narrativa al femminile” e così via: romanzetti d’amore, copertine che vanno dall’azzurro cielo al rosa confetto, trame edulcorate, lessico povero e racconti pieni di stereotipi. Sembra un dettaglio, una sciocchezza, ma queste etichette, con cui siamo abituati a convivere da un lato si pone la letteratura considerata importante, che sa parlare di tutto, scritta soprattutto dagli uomini e destinata in primo luogo agli uomini, che non perdono tempo dietro alle frivolezze; dall’altro invece c’è ancora l’idea di questa scrittura per le donne: leggera, sentimentale, meno impegnativa. Corrispettivo oggettivo di quello che un tempo potevano essere i feuilleton, i romanzi d’appendice, i romanzi popolari – che a differenza di oggi però spesso erano scritti anche da grandi autori e autrici.
Escluse dai canoni letterari, dalle antologie e dai premi (dal 1947 a oggi, ad esempio, il premio Strega è stato vinto solo da 11 donne) ancora oggi assistiamo a quella che la scrittrice Michela Murgia chiama “sottorappresentazione del pensiero delle donne nei media e negli spazi culturali”, dovuta a una svalutazione delle loro idee. È come se si cercasse di inquadrare le scrittrici (ma anche le donne in generale) in una sottocategoria fatta da donne che scrivono per le donne di cose da donne. Basta chiedere a qualcuno qual è l’ultimo libro di una penna femminile che ha letto, per avere un’idea di che cosa stiamo parlando, anche se negli ultimi anni c’è sempre più sensibilizzazione in questo senso.
Il motivo per cui si è relegata la letteratura scritta dalle donne ha radici profonde. In un mondo in cui gli uomini detengono il potere, stabiliscono metri di valutazione e attribuiscono valore alle cose è invevitabile che vanga diffusa quasi esclusivamente la loro visione. Il nostro modo di pensare si muove in una narrazione socio-culturale maschile, e in cui anche quelle donne che riescono a rientrare sono costrette a uniformarsi allo stesso canone. Il problema è che di questa grande lacuna nella letteratura alla fine risentiamo tutti, non solo le donne, perché è una mancanza di diversità, di punti di vista, e quindi di ricchezza. Riscrivere la storia della letteratura è senza dubbio un’impresa difficile, anche a causa della perdita materiale di ciò che le donne hanno scritto nel passato; ma iniziare a cambiare la prospettiva attraverso cui guardiamo alle opere, giudicandole in base al valore che hanno e non al sesso di chi le ha scritte, offrirebbe di certo un grande apporto non solo alle belle lettere ma a tutta la nostra cultura.