La storia dimenticata delle donne che permisero all'uomo di sbarcare sulla luna

Il 16 luglio 1969, quattro giorni prima che Neil Armstrong mettesse piede sulla Luna, Joann Morgan entrò nella sala di controllo del Kennedy Space Center, diventando la prima donna nell’intera storia della Nasa a entrare in quella stanza per restarci. “Durante le missioni Apollo 8, 9 e 10, tre ore prima del lancio, ero stata invitata a lasciare la sala e spostarmi in un altro edificio. Quella volta no. Il mio capo mi convocò e mi disse che sarei dovuta essere in sala di controllo: ‘Ci piace molto la rapidità con cui individui i problemi e li risolvi’, disse”, raccontò poi Morgan. L’ingegnere aerospaziale statunitense non sapeva che il suo direttore aveva dovuto chiedere il permesso per farla restare in sala al direttore del Kennedy Space center. Nonostante questo, la sua presenza fu accolta da alcuni colleghi uomini con scetticismo o ostilità, fino a “farle delle telefonate oscene”. Nelle foto d’archivio della Nasa di quei giorni Morgan, assunta dall’agenzia nel 1958, è l’unica donna a comparire in gruppi esclusivamente maschili, a eccezione delle mogli degli astronauti.

Joann Morgan nella sala di controllo del  Kennedy Space Center, 1969

Oggi la sua presenza e quella di altre donne che hanno lavorato alla Nasa durante il programma Apollo è celebrata come una delle più grandi conquiste femminili dello scorso secolo. La missione per raggiungere la Luna coinvolse in totale più di 400mila persone, tra cui migliaia di donne, che però erano nella maggior parte dei casi segretarie o dattilografe. Tra le eccezioni c’erano alcune delle capostipiti dell’ingegneria informatica: negli anni Sessanta, infatti, la programmazione era considerata “un lavoro da donne”, associato più che altro alla dattilografia, al mero inserimento di dati e all’uso della macchina da scrivere. Nell’articolo The Computers girls, pubblicato nel 1967 su Cosmopolitan, sono esemplificative le parole dell’ammiraglio Grace Hopper. Appoggiandosi agli stereotipi di genere di allora, la donna pioniera dell’informatica che inventò il termine bug, spiegava come le donne fossero per natura delle programmatrici: “In fondo programmare è come preparare una cena. Bisogna pianificare tutto in anticipo, perché sia pronto quando serve. E le donne sono più pazienti e attente ai dettagli”.

La più famosa tra le “programmatrici naturali” di quella missione è Margaret Hamilton. Ad aprile, quando è diventata virale la foto della scienziata Katie Bouman in posa davanti alle decine di hard disk necessari per ottenere la prima immagine di un buco nero, molti l’hanno messa a confronto con un’altra. Nell’immagine di 50 anni fa, Margaret è raffigurata nei corridoi del Massachusetts Institute of Technology accanto a 17 volumi impilati uno sopra l’altro, contenenti il codice del software di guida della missione Apollo. La donna era un prodigio della matematica e dopo un periodo trascorso come insegnante per mantenere gli studi del marito a Harvard venne nominata direttrice Software Engineering Division del Mit. Alla guida del suo team la scienziata sviluppò il software di bordo del modulo di comando Apollo (quello su cui viaggiarono i tre astronauti Neil Armstrong, Michael Collins e Buzz Aldrin) e quello del modulo lunare con cui Aldrin e Armstrong raggiunsero il suolo lunare.

Margaret Hamilton

Quando venne promossa a capo dello sviluppo del software, Hamilton venne raggiunta dal suo capo che le confessò di “essere preoccupato che i colleghi maschi si sarebbero potuti ribellare”. I timori si rivelarono infondati, uomini e donne lavorarono fianco a fianco: come ha ricordato Hamilton, l’attenzione era focalizzata sulla scrittura del software e sulla missione stessa. “Avevamo iniziato l’avventura che eravamo ancora ventenni,” ha raccontato la scienziata, “E ci piaceva cercare sempre nuove idee e soluzioni ai problemi che si presentavano ogni giorno. La programmazione era ancora un mistero per i piani alti, così avevamo libertà e fiducia assoluta. Eravamo le persone più fortunate del mondo: non avevamo altra scelta che essere pionieri”. Proprio pochi minuti prima che il modulo lunare toccasse la superficie del nostro satellite, scattarono alcuni allarmi che annunciavano il rischio di sovraccarico del computer di bordo. Hamilton aveva previsto questa eventualità e messo a punto un programma capace di intervenire in caso di emergenza, evitare il sovraccarico delle apparecchiature di bordo e permettere comunque la manovra di allunaggio, assicurando di fatto la riuscita della missione Apollo 11.

In quei minuti di tensione del 20 luglio 1969, nel centro di controllo missione di Houston, c’era un’altra donna a guardare il Lem avvicinarsi alla Luna: Frances Northcutt, detta Poppy. Frances arrivava dal Texas dove i genitori l’avevano mandata all’università per farle “incontrare un marito”, ma lei c’era andata per studiare matematica, fare “un lavoro da uomini e avere un salario migliore”. Nel 1969, non ancora trentenne, aveva già lavorato come ingegnere alla costruzione del programma di ritorno sulla Terra della missione Apollo. Alcune fotografie la ritraggono accanto ai colleghi uomini davanti a computer dalle dimensioni enormi. “Sentivo di essere costantemente osservata. Dovevo fare bene o gli altri l’avrebbero notato. Un giorno scoprii di avere un telecamera puntata solo di me. Ma tutto sommato ero riuscita a farmi rispettare. I miei colleghi sapevano che la parte del ritorno sulla Terra era la più critica del programma. Avevano bisogno di qualcuno che fosse preparatissimo”. “I knew my shit”, sapevo il fatto mio, ha riassunto anni dopo Northcutt, che per la sua competenza divenne in seguito una delle persone chiave nella gestione della crisi della successiva missione Apollo 13, nel 1970. Oggi, sulla Luna c’è un cratere chiamato “Poppy” in suo onore.

Frances ‘Poppy’ Northcutt

Sapeva quello che faceva anche Katherine Johnson che, tra le donne che hanno reso possibile l’allunaggio, è quella con la carriera più travagliata. Nata in Virginia da padre boscaiolo e madre insegnante, fin da giovane dimostrò capacità matematiche fuori dal comune. Sostenuta dai genitori, fu la prima afroamericana a riuscire a iscriversi ai corsi dell’Università della Virginia Occidentale nel 1938. Negli Stati Uniti ancora profondamente razzisti, Katherine faticò a lungo per trovare lavoro come ricercatrice scientifica e per alcuni anni si mantenne  insegnando matematica. Entrò alla Nasa nel 1953, quando l’agenzia spaziale statunitense aprì delle posizioni anche per i lavoratori afroamericani.

Katherine lavorò per anni all’interno del team chiamato ufficialmentecoloured computer”, un pool formato esclusivamente da donne di colore che eseguivano i calcoli matematici armate di fogli e matita. Erano come dei computer, chiamate a controllare tutti quei numeri per permettere agli ingegneri e ai matematici di dedicarsi a incarichi considerati più importanti. Le donne di colore avevano i loro uffici riservati, la loro mensa e persino il loro bagno, separato dal resto dei dipendenti Nasa. Katherine sfidò il regime di segregazione, lottando per entrare a far parte del team di ricerca di volo, allora formato esclusivamente da uomini bianchi. Grazie alla sua tenacia e soprattutto alle sue competenze nella geometria analitica, riuscì a farsi apprezzare fino ai piani alti della Nasa, che “Si dimenticarono di farmi tornare nel mio vecchio team” – poi sciolto nel 1958. Katherine Johnson lavorò alla Nasa fino al 1986, calcolando tra le altre cose la traiettoria di lancio per raggiungere la Luna durante la missione Apollo 11.

Katherine Johnson (a destra) e alcuni colleghi al NASA Langley Research Center, Hampton, Virginia, 1970

Lo scorso 26 agosto, in occasione dei suoi 100 anni, la Nasa le ha dedicato un articolo in cui sono riassunti tutti gli insegnamenti che la donna ha lasciato all’umanità. Primo: ama l’apprendimento: “Nella mia vita ho contato tutto: i passi per la strada, i passi fino alla chiesa, il numero di piatti e posate che lavavo alla fine di ogni pasto. Tutto ciò che poteva essere contato, io l’ho contato”. Oltre a questo Johnson ha sempre ricordato di seguire le proprie passioni, non arrendersi mai, continuare a farsi domande e fare ciò che si ama e amare ciò che si fa. Un appello prezioso per tutti, ma che assume un valore particolare per le migliaia di donne che ancora oggi lottano in tutto il mondo contro il pregiudizio, per affermarsi in campo scientifico e tecnologico. Come hanno riconosciuto gli stessi colleghi di Johnson in occasione dei suoi cento anni, “la Nasa non sarebbe quello che è oggi, se non ci fossi stata tu”.

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