
Ci sono situazioni, nel faticoso percorso di apprendimento e apprendistato esistenziale e intellettuale di ciascuno di noi, che con semplicità ci fanno chinare il capo. Il capo si china per avvicinarsi a qualcosa di sconosciuto, a un sapere che non ci appartiene, e in quel gesto è racchiusa tutta l’umiltà necessaria ad avvicinarsi all’ignoto, col desiderio di scoprirlo, svelarlo, imparare a conoscerlo, farlo proprio, misurarlo. È così che funziona la nostra mente, è questa l’attitudine che rivolgiamo al mondo, e agli altri, dalla pergamena alla persona desiderata, dalla forma al diagramma. Le strutture della nostra mente si rispecchiano da sempre nelle forme possibili del mondo. Da qui il diagramma, a partire dall’albero genealogico, e cioè il “disegno”, da “diagrapho”, circoscrivo, determino con la linea, dalla particella “dia”, che vale come distinzione, e “grapho”, appunto, incido, disegno, scrivo: tutti gesti che si sviluppano dallo stesso atto, che la mano copia sul foglio a partire dalle linee un tempo tracciate sulla terra, a dividere i campi; poco importa nei vocabolari se si tratta di terreni o di ambiti della conoscenza, sempre si tratta di parcellizzazioni del mondo.

Il disegno, il tracciare linee, il definire forme che a loro volta sono sintesi della realtà – che come ogni realtà nasce nei nostri occhi e mai nel “dato” – ha lo stesso portato etimologico della scrittura, che ingiustamente molti di noi ritengono più precisa. Dunque il diagramma, o il grafico, è appunto questo strumento che mescola sapientemente arte e logica, tratto e prospettiva, ciò che attraverso la distinzione, e il discernimento, e l’immaginazione visiva organizza il mondo. D’altronde da sempre l’essere umano per conoscere enumera, struttura, dà forma e gerarchia. Da qui l’enorme ricerca restituita da Rem Koolhaas e Giulio Margheri, architetto associato di OMA, e con la consulenza di Sietske Fransen, a Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada, in occasione e in parallelo alla 19esima Biennale di Architettura. “Diagrams: A Project by AMO/OMA”, visitabile fino al 24 novembre di del 2025, espone più di trecento diagrammi di varie epoche (dal XII secolo a oggi), culture, latitudini, indagandone il ruolo che hanno assunto nel corso dei millenni, fino all’impatto che hanno avuto sulla cultura contemporanea, e suddividendoli per macrocategorie globali: Ambiente costruito, Salute, Disuguaglianze, Migrazione, Ambiente naturale, Risorse, Guerra, Verità e Valore. Punto di partenza il lavoro del sociologo afroamericano W.E.B. Du Bois, che realizzò i famosi studi e infografiche sulla comunità black degli Stati Uniti e che furono presentati all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. Da qui si spazia, ambito dopo ambito, ad altri grandi autori di diagrammi, come Florence Nightingale, fondatrice inglese dell’assistenza infermieristica, che grazie a questi strumenti riuscì a ottenere notevoli progressi legislativi in campo sanitario; o Charles Joseph Minard, ingegnere civile francese che realizzò il diagramma sulla campagna napoleonica in Russia con grandi innovazioni visive; e ancora l’educatrice femminista americana Emma Willard che usava i diagrammi per divulgare e rendere più accessibili i dati; e poi quelli del naturalista ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt, fino a quelli legati all’astronomia, alla teologia e alla medicina, con una bellissima selezione di “mappe” del corpo umano.

Farà sorridere che anche l’allestimento stesso della mostra si dispiega a sua volta come un diagramma. Nel grande spazio centrale del piano nobile del palazzo i vari temi generali vengono esposti in sintesi in una serie di vetrine orizzontali illuminate con luci puntuali che ricordano l’atmosfera di una biblioteca, o meglio ancora di un archivio. Un luogo in cui la conoscenza scritta si fa eredità custodita, assopita finché mani e occhi sufficientemente curiosi non ci si chinano sopra per interrogarla, risvegliarla. L’atmosfera del palazzo – che di mostra in mostra, dunque, cambia in maniera incredibile, disorientante, ubbidiente e malleabile, sotto lo sguardo progettuale dei curatori coinvolti di volta in volta da Fondazione – si fa attutita, silenziosa, paziente, lenta: i diagrammi, nelle loro teche, aspettano di essere osservati, per iniziare a parlare, a raccontare il loro breve, essenziale e specifico quid. Dal centro, poi, nelle varie sale laterali si sviluppano e approfondiscono le diverse urgenze tematiche globali su cui la ricerca si concentra, come in una discesa verticale. In questo dialogo silenzioso tra la linea e l’occhio, tra la forma e il pensiero, il visitatore si ritrova immerso in un tempo dilatato, meditativo (nel senso che si è costretti a sostare con una moltitudine di stimoli, di input, di percezioni), in cui la lettura dei segni diventa un atto di riflessione e contemplazione. Ogni teca, sapientemente composta, appare come un invito non solo a guardare, ma a cercare un filo, un pattern, un codice che parli all’intelligenza comune dell’umano, alla sua memoria ancestrale, e alla sua esperienza, tracciando connessioni profonde e inconsce, seguendo il nostro stimolo innato a cercare quelle famose segrete corrispondenze di Goethe per cercare di dare un senso al mondo e a noi stessi.
Così ci vengono offerte forme, colori e tratti estremamente vari e differenziati, prove dell’incontro tra immaginazione, creatività, logica e scienza, ma anche propaganda e persuasione. Il diagramma, infatti, viene esposto in tutto lo spettro delle sue forme, ibrido in equilibrio tra il dispositivo grafico e il sistema concettuale, che fornisce un modello estremamente specifico di comprensione del mondo, composto dal sovrapporsi di diversi strati cognitivi, che coinvolgono la cultura, un determinato Zeitgeist, la scienza, il diffondersi delle informazioni, e dunque la comunicazione, i numeri e le parole. Ogni diagramma, quasi come un ologramma fantascientifico che si attiva sotto il nostro sguardo, ci mostra una possibile forma di pensiero, ci suggerisce una visione del mondo, più o meno ristretta, lo sforzo immaginifico a volte che ha richiesto al suo o alla sua ideatrice realizzarlo, tradurre quella certa visione, e i dati a suo sostegno, in una forma conclusa, definita, in un certo senso autarchica.
Ogni diagramma, infatti, sostiene di dire una verità, la sua verità, che non è affatto detto sia una verità assoluta. Eppure è proprio in questa tensione tra pretesa di oggettività e natura interpretativa che il diagramma rivela la sua potenza politica ed estetica. Ogni scelta grafica – una forma geometrica, un colore, una freccia, una curva, una sigla, un perimentro – è un atto deliberato che può influenzare letture e decisioni, generare speranza, fiducia o dubbio e sospetto, legittimare o mettere in discussione un intero sistema di valori. Il diagramma, quindi, non è solo uno strumento, ma un atto di comunicazione finemente consapevole e strategico. Ma non ci si deve dimenticare, per dirla con Gilles Deleuze il cui lascito aleggia tra le stanze, “il diagramma è la possibilità del fatto, non il fatto in sé”.

Da qui si apre il grande interrogativo provocatorio sollevato da AMO/OMA, e sui rischi che emergono dalla presunzione di oggettività legata alla lettura dei dati, e degli esperimenti, e delle survey, che vengono convogliati in questi strumenti di comunicazione così versatili e apparentemente precisi, attendibili. Koolhaas, e il suo team, con la loro ricerca ci suggeriscono invece che questi strumenti tanto simili alla scienza, e tanto usati da essa, possano farsi veicolo di narrazioni false, strumenti di propaganda politica, distorti dall’ideologia, ma anche più semplicemente dallo sguardo che li ha informati. I diagrammi dunque mostrano e dimostrano – all’interno di questo enorme progetto di ricerca – il tensore tra il dato empirico, il fenomeno, e di volta in volta il sistema di credenze che lo rileva, che può essere una cultura, una civiltà, un periodo storico, ma anche il singolo sguardo di un individuo.

Il diagramma appare come una sorta di amuleto sibillino, capace di mostrare attraverso una struttura visiva chiara, decifrabile, leggibile, quella realtà spaventosamente complessa di fronte alla quale la nostra mente trema. Un oggetto ingannatore eppure estremamente affascinante, proprio perché la sua bugia è dolce, è un balsamo per le nostre incertezze, per il panico e il terrore che ci attanaglia di fronte al mondo, alla realtà – incondivisibile – dell’esperienza che facciamo durante la nostra vita. “Il diagramma,” come dice Koolhaas, “è una forma persistente di comunicazione che si adatta a qualunque medium esista in un dato momento”.

Dai diagrammi tridimensionali realizzati in Sudafrica intorno al 40.000 a.C., passando per le mappe della Groenlandia intagliate nel legno sull’isola di Ammassalik, fino alle nostre infografiche contemporanee, alle restituzioni prodotte grazie agli algoritmi e all’Intelligenza Artificiale, l’essere umano ha letteralmente cercato da sempre di sintetizzare le informazioni, veicolarle in maniera rapida e immediata. “Io apprezzo profondamente questa interdisciplinarietà del diagramma, che è una sua qualità intrinseca, un suo attributo invariabile [probabilmente l’unico], e credo che proprio il fatto di essere svincolato dal linguaggio lo renda la forma più efficace di rappresentazione,” continua Koolhaas, e sicuramente non sbaglia. Dopo molto tempo, oggi ci ritroviamo nell’epoca del dominio dell’immagine, ma dobbiamo essere ben consapevoli dell’enorme potere di cui è in possesso quest’ultima, proprio perché è auto-esaustiva, apparentemente univoca, e facilmente falsificabile.

Questi diagrammi allora si mostrano come tanti tasselli di un mosaico postmoderno, che non è detto che una volta messi insieme generino un’immagine coerente, pur essendo ciascuno perfetto a suo modo. Sono come tante capsule, distillati di visioni e conoscenza. Sembra essere questa la grande lezione che ci mettono sotto agli occhi Koolhaas, AMO/OMA, e Fondazione Prada: possiamo perderci, rimanere incantati da un dettaglio, ma non dovremmo mai perdere di vista – ed esercitarci in modo da ampliare il più possibile la messa a fuoco – il quadro d’insieme.
