Il 13 ottobre del 2016, mentre da Stoccolma arriva l’annuncio del Nobel per la letteratura a Bob Dylan, a Milano si spegne Dario Fo. Uno dei vincitori più discussi del premio, muore proprio nel giorno in cui l’Accademia svedese fa una scelta altrettanto spiazzante. Le polemiche che hanno seguito la scelta di Dylan, infatti, somigliano per certi versi a quelle che nel 1997 travolsero Dario Fo ma, di fronte alle reazioni sdegnate che provocò la nomina di quest’ultimo, sembrano irrisorie. In Italia l’orgoglio per la vittoria di un connazionale, infatti, all’epoca venne subito sorpassato da un inspiegabile senso di delusione autolesionista: il trionfo di Fo si trasformò in fretta nella sconfitta definitiva della nostra cultura, almeno per chi se ne considerava depositario. In un’epoca in cui non si aveva ancora così tanta paura di esprimere apertamente le proprie opinioni in ambito artistico, il poeta Mario Luzi, ad esempio, parlò di “schiaffo alla cultura italiana” mentre lo scrittore Giorgio Montefoschi affermò che tanto valeva dare il Nobel a Moira Orfei, ritenendo il lavoro di Fo e Rame al livello di uno spettacolo circense – disciplina che tra l’altro oggi ha raggiunto indiscussi livelli artistici e che nessuno si sognerebbe di nominare in quanto insulto.
Per capire cosa disturbasse tanto l’élite intellettuale del nostro Paese basta scandagliare le parole pronunciate da Sture Allen, il segretario dell’Accademia assegnataria del Nobel, che nella motivazione del premio giustificò così la scelta: “Mescolando il riso e la gravità, Fo ha fatto prendere coscienza degli abusi e delle ingiustizie della vita sociale, ma anche del modo in cui queste possano inscriversi in una prospettiva storica più ampia”. Per gli svedesi Fo era un “narr”, un giullare, ma come teneva a precisare egli stesso nella loro lingua il termine aveva una sfumatura positiva. Il narr è infatti colui che racconta la verità nascondendola sotto il paradosso e il grottesco. Ed era proprio questo approccio leggero ma non superficiale tanto apprezzato altrove che minava alle fondamenta il modo in cui in Italia si era da sempre pensata la cultura. Riconoscere ed esaltare il valore di un certo teatro, e quindi di un particolare modo di fare arte, equivaleva a delegittimare la vecchia distinzione tra cultura alta e popolare, e ciò infastidì molti intellettuali che si erano da sempre ritenuti “superiori”.
Fo usava con ironia l’infinito patrimonio di cultura popolare del nostro Paese, che tanti altri avevano sottovalutato, per permettere a tutti di riappropriarsi di quella cultura che sembrava appannaggio di pochi. Lo fece attraverso una lunga ricerca non sempre riuscita, che però trovò compimento in Mistero buffo, il suo capolavoro, creato insieme a Franca Rame nel 1969: un’opera teatrale stratificata, continuamente reinventabile che mantiene ancora la sua freschezza, arricchendosi di significati sempre nuovi e sopravvivendo alla morte dei suoi autori.
Il Mistero nacque quando un operaio apostrofò così Fo e Rame: “Bello il vostro teatro, ma non lo fate mai per le classi più umili”. Negli anni precedenti Fo aveva proposto spettacoli che parlavano di temi apertamente militanti, che però gli operai stessi a cui erano proposti e per cui erano pensati – ma non solo – facevano fatica a seguire e a comprendere: erano tentativi farraginosi, in cui l’arte finiva per soccombere all’intento politico. Anche per questo, quando la coppia Fo-Rame si presentò nell’Aula Magna occupata della Statale di Milano, i tremila studenti presenti furono presi alla sprovvista: si aspettavano di sentire citare i cardini di ogni buona rivoluzione e invece Fo iniziò a parlare della cultura delle classi subalterne – da sempre messa in disparte o interpretata di volta in volta secondo convenienza – e lo faceva parlando nella loro stessa lingua. Assistendo anche solo a questa prima prova era facile intuire ciò che Mistero buffo sarebbe diventato, un’opera trasversale che fin dall’inizio mette in chiaro il suo intento: nessuna propaganda, nessuna spinta a rivoluzioni di cartapesta, ma il tentativo di recuperare un’identità popolare negata.
Nella premessa Fo cominciava prendendo in giro gli studiosi che si intestardivano nel voler far passare opere poetiche di origine popolare per divertissement aristocratici. L’esempio cui faceva riferimento era Rosa fresca aulentissima, un componimento di Cielo “Ciullo” d’Alcamo. L’autore era un esponente della poesia popolare giullaresca e quindi un buffone ma ovunque, in ambito accademico e artistico, si cercava di nobilitarne la condizione sociale. Ciò accadeva perché restava forte la convinzione che la poesia, e con lei tutte le forme di espressione più auliche, potesse essere prodotta solo da chi apparteneva a un’élite: un membro del popolo, come suggeriva già Benedetto Croce, poteva al massimo creare una “copia meccanica” di Rosa fresca aulentissima. Fo si opponeva a questo pregiudizio, rivendicando le origini popolari non solo di quest’opera ma di gran parte di quella che veniva considerata cultura alta. Il teatro, soprattutto quello grottesco, a cui appartiene il “mistero buffo”, infatti, era da sempre stato “il giornale parlato e drammatizzato del popolo”.
Fo per parlare a questo pubblico trovò una lingua nuova e universale, incomprensibile solo a chi del popolo non faceva parte, un iper-dialetto: il grammelot. In risposta al desiderio del potere di imporre un modo standard di esprimersi, si proponeva un idioma dinamico, in continua trasformazione, che poteva essere compreso solo tenendo in considerazione anche la prossemica e i suoni onomatopeici, di cui massimo conoscitore era il giullare, così riabilitato nella sua figura narrativa e sociale. Il giullare “nasce dal popolo e dal popolo prendeva la sua rabbia per ridarla ancora al popolo, mediata dal grottesco e dalla ragione, affinché il popolo prenda coscienza della propria condizione”.
Mistero buffo veniva presentato come una “giullarata popolare” e da questa tradizione comune, comica e dissacrante, pescava a piene mani. Ma tutto quello che rientrava nel suo frullatore postmoderno veniva rielaborato, riadattato e attualizzato per parlare del presente. Era ed è, infatti, praticamente impossibile assistere a due repliche identiche dello spettacolo: i monologhi che lo formano lasciano spazio a battute sui personaggi pubblici del momento e sui fatti di cronaca che accadono mentre si sta recitando, o ancora, alcune battute vanno indirizzate proprio al pubblico che assiste effettivamente alla scena. Una buona parte della riuscita del testo resta quindi in mano alla capacità di improvvisazione dell’interprete, e dunque non è scritta, proprio come succedeva nell’arte antica, composta essenzialmente da un canovaccio. È questa apertura, questa possibilità continua di reinventare il materiale, che permette al Mistero di mantenersi sempre attuale e proiettato verso il futuro: l’universalità dei temi trattati nei monologhi può adattarsi potenzialmente a qualunque evento. La quarta parete, continuamente infranta, diventa l’emblema di un dialogo continuo e diretto con un pubblico partecipe e immerso nel suo presente. La famosa parabola della resurrezione di Lazzaro, ad esempio, viene attualizzata e diventa il pretesto per parlare di un mondo dove già tutto veniva spettacolarizzato. Nel 1984, a chi contestava l’utilizzo indiscriminato da un punto di vista accademico e filologico di diverse fonti, Dario Fo rispose: “I lavori che si occupano della politica contemporanea e quelli basati sulla cultura popolare sono soltanto due facce della stessa medaglia. Lavorando su quei vecchi testi schiettamente popolari li abbiamo riempiti di un significato importante per il nostro tempo”.
Con Mistero buffo il teatro torna a essere un linguaggio vivo e uno strumento di riflessione e rivalsa per i ceti più bassi. E questo invito senza mezzi termini a una presa di coscienza collettiva, espresso con un linguaggio nuovo e ficcante, che sembrava rispondere con le pernacchie ai registri altisonanti dell’accademia, non entusiasmò certo i rappresentati di quella che era l’élite culturale, ma non solo. Era l’epoca immediatamente successiva al ‘68, che in Italia si trasformò ben presto negli anni di piombo, un periodo di scontri estremi tra diverse fazioni politiche, al confine con la guerra civile, appesantito oltre che dalle ideologie, da attentati e da violenze di diverso tipo. Molti, dopo il ‘68 consideravano insostenibile la cappa di conformismo che avvolgeva la vita quotidiana, limitando la libertà degli individui. L’arte di Fo e Rame si fece così portavoce di messaggi considerati profondamente sovversivi ed essendo capace di parlare a tutti e di avere un peso così grande sulla coscienza collettiva risultò subito inaccettabile. Il Mistero traghettava attraverso la sua stessa forma al grande pubblico valori rivoluzionari, per la prima volta in modo forte e chiaro. Per certe frange estreme, conservatrici e reazionarie, si trattava di una minaccia concreta da mettere a tacere, se serviva anche con l’uso della forza.
Durante le rappresentazioni dello spettacolo, si verificarono infatti diversi episodi volti a screditare il messaggio dell’opera e a fermare i due artisti che l’avevano creata. Come ricorda il figlio: “Mio padre e mia madre, che con i loro spettacoli si permettevano di denunciare la corruzione del sistema politico-sociale italiano, subirono aggressioni, intimidazioni. A Dario, una volta, fu tirata una cassetta di escrementi, ma anche gli spettatori venivano colpiti: a Palermo chi aveva assistito allo spettacolo trovò l’auto distrutta dai vandali. E Franca, poi, venne rapita, torturata, stuprata”. Questa violenza, però, invece che sortire l’effetto sperato di ammutolire l’artista, la convinse ancora di più della necessità della sua lotta e della difesa delle proprie idee. Così Rame, poco tempo dopo l’accaduto, portò in scena un testo fondamentale per il nostro teatro: Lo stupro, in cui il racconto di quell’esperienza drammatica, e all’epoca profondamente stigmatizzata, diventava opportunità per una riflessione potente e condivisa sulla condizione della donna.
La forza del percorso artistico di Fo e Rame sta nel riuscire a rendere qualsiasi vicenda narrata, anche la più privata o apparentemente triviale, in materia di riflessione universale. Il Mistero rappresenta l’apice della loro produzione artistica proprio perché, grazie alla sua stessa struttura, continua a parlarci inglobando nuove chiavi di lettura. Dario Fo lo recitò per l’ultima volta due mesi prima di morire e come sempre lo riadattò al pubblico che aveva di fronte. Qualche giorno prima del Nobel, aveva chiarito perché ci tenesse tanto a mantenere attuale il suo lavoro: “Il nostro dovere di intellettuali, di gente che monta in scena, che parla soprattutto con i giovani, non è solo di mostrare come si muovono le braccia, come si respira per recitare, come si usa la voce. Non basta: bisogna informarli di quello che succede intorno. Perché loro dovranno raccontare la loro storia”.
Mistero buffo ci ricorda – ed è questa la grande forza dei classici – che un teatro, una letteratura, una qualsiasi espressione artistica che non riesca a parlare del proprio tempo, ma soprattutto al proprio tempo, finisce per diventare inconsistente e che bisogna nutrirsi anche di queste opere del passato per ampliare la propria prospettiva sul presente e ottenere gli strumenti necessari per poter essere in grado di raccontare la nostra storia, prima che qualcun altro lo faccia per noi.