Nel 1998 il sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieu ha pubblicato Il dominio maschile. In poco più di 130 pagine l’opera voleva riflettere sul “dominio maschile, nel modo in cui viene imposto e subìto” a partire da uno studio antropologico sulla società androcentrica dei cabili d’Algeria. Il motivo che spinse Bourdieu a partire da questo antico popolo stava nella necessità di “spezzare il nesso di familiarità ingannevole che ci unisce alla nostra tradizione”, mantenendo il giusto distacco e la necessaria oggettività di analisi.
Fin dalle prime righe, il sociologo si oppone alla “violenza simbolica”, cioè quella “dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime”. Questa consiste nell’imposizione quasi impercettibile da parte dei dominanti – cioè, degli uomini – sui dominati – ovvero, le donne – della loro visione del mondo, dei ruoli sociali e delle strutture mentali. “La violenza simbolica – scrive Bourdieu – si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questo rapporto come naturale”.
Secondo Bourdieu, quando si parla di uomini e mascolinità non ci si può non riferire di conseguenza alla categoria di potere perché è proprio in quest’ultima che la mascolinità si è storicamente delineata e ha preso forma. Non può essere un caso – come ha notato lo storico Sandro Bellassai – che, dalla fine dell’Ottocento in poi, proprio il virilismo sia stato un pilastro retorico e un vero e proprio collante delle culture nazionaliste, imperialiste, autoritarie e razziste. E che, proprio i detentori del potere, nel tentativo di rafforzare il loro dominio, abbiano a lungo tempo reiterato in tutti i modi possibili un certo tipo “fisso” di mascolinità. Si pensi – come ricorda Maria Giuseppina Pacilli in Uomini duri – che nel 1892 un settimanale destinato ai bambini pubblicò le immaginarie esclamazioni patriottiche di un fanciullo in età pre-scolastica: “Voglio diventare un soldato, voglio andar alla guerra a combattere contro quegli uomini neri, contro gli Abissini!…Sì, li voglio ammazzare tutti! Oh! Quanto sarà bello colla sciabola, colle spalline, colle spalline, colle medaglie!”.
Lasciando da parte i meccanismi e le strategie della politica per virilizzare la società, si possono invece individuare due modi in cui il potere simbolico viene perpetrato: attraverso l’azione degli uomini sulle donne e con l’azione di alcuni uomini su altri uomini. Bourdieu definisce tale processo “somatizzazione dei rapporti sociali di dominio”: si tratta di un collettivo e incessante lavoro di biologizzazione di categorie sociali in cui la differenza anatomica fra i sessi – cioè fra il corpo maschile e quello femminile – diventa la giustificazione “naturale” di una differenza, e di una subalternità, che non ha proprio nulla di naturale, dato che si tratta di una costruzione sociale. Il modo d’essere particolare e soggettivo di alcuni maschi viene suggellato, imposto come universale: il canone, prototipo e parametro di giudizio per tutti, uomini o donne. La visione androcentrica si impone così come neutra, senza la necessità di giustificazioni o di “discorsi miranti a legittimarla”.
È proprio sulla base di questo presunto ordine naturale – universale e immutabile – che le donne sono considerate, e spesso si considerano, come “uomini mancati”, diverse, “naturalmente” inadatte ai ruoli e alle posizioni di potere da sempre occupati dagli uomini. A una donna che riesce a ottenere un compito tradizionalmente maschile si chiede di dimostrare di possedere non soltanto ciò che è esplicitamente richiesto per portare a termine l’incarico, ma anche tutto un insieme di caratteristiche che la controparte maschile possiede “di norma”, come l’autorità, la forza o una voce ferma e sicura. Nel momento in cui lo fanno, tuttavia, sono guardate con sospetto, percepite come fredde nei rapporti sociali e antipatiche. Inoltre, come nota Bourdieu, alla “femminilizzazione” delle professioni segue un successivo deprezzamento, una svalutazione della posizione che hanno appena guadagnato: le donne restano così “separate dagli uomini da un coefficiente simbolico negativo che, come il colore della pelle per i neri o qualsiasi altro segno di appartenenza a un gruppo stigmatizzato, connota negativamente tutto ciò che esse sono o fanno”.
Altre volte è proprio l’esperienza di un mondo totalmente sessuato e androcentrico a favorire nelle donne l’insorgenza di una impotenza acquisita. A tale proposito, può essere utile il racconto personale che Jan Morris – scrittrice e giornalista pioniera del movimento transgender – fa in Enigma, circa il cambiamento di aspettative e di disposizioni successivo al cambiamento di sesso. Scrive: “Più ero trattata come una donna e più divenivo donna. Mi adattavo, bene o male. Se si presumeva che fossi incapace di fare una retromarcia o di aprire una bottiglia, sentivo, stranamente, che non ne ero effettivamente capace. Se qualcuno pensava che una valigia fosse troppo pesante per me, inspiegabilmente, anch’io la ritenevo tale”. Questa pressione, una sorta di effetto Pigmalione negativo, in verità viene subìta fin dalla tenera età, in maniera più o meno silenziosa: basti pensare al fatto che sono gli stessi genitori, oltreché gli insegnanti, a orientare ancora troppo spesso le bambine verso alcune carriere ritenute “da femmine” e a scoraggiarle dall’esercizio degli studi scientifici, creduti “più semplici per i maschi”.
Ciò è stato confermato dal rapporto Ocse-Pisa 2015 e poi ribadito negli anni successivi: secondo il documento, “In tutti i Paesi e le economie che hanno raccolto dati anche sui genitori degli studenti, i genitori sono più propensi a pensare che i figli maschi, piuttosto che le figlie, lavoreranno in un campo scientifico, tecnologico, ingegneristico o della matematica – anche a parità di risultati in matematica”. Se a questo si aggiunge il ruolo negativo della politica, impegnata più nel proporre l’immagine anacronistica della donna portata per l’accudimento che nel favorire una vera parità di genere, si può comprendere – riprendendo Pierre Bourdieu – come “la stessa protezione ‘cavalleresca’, oltre a favorire il vero e proprio confino delle donne, o a giustificarlo in qualche modo, possa contribuire a tenere le donne al riparo da ogni contatto con tutti gli aspetti del mondo reale ‘per i quali non sono fatte’, in quanto essi non sono fatti per loro”.
Se è vero che le donne sono addestrate a “essere donne”, vale a dire a pensare, agire e muoversi secondo le norme di genere, anche gli uomini restano spesso prigionieri e vittime della rappresentazione dominante. In quest’ottica, quello che è un vero e proprio “privilegio maschile” (cioè il fatto di esistere a priori, di essere l’exemplum e di non aver bisogno, dunque, di pensare in termini di genere) si trasforma in una trappola, nell’obbligo morale di dover dare prova della propria virilità. Lo status di maschio impone a quest’ultimo, fin dall’età infantile, il rispetto di certe caratteristiche, come il leaderismo, la sicurezza dei propri mezzi, il coraggio fisico e morale, l’aggressività, la sfrontatezza, l’imperturbabilità – ossia l’anti-femminilità. Queste qualità cosiddette virili vengono sancite attraverso continue, e potenzialmente infinite, dimostrazioni pubbliche di sé. In tal modo, il gruppo maschile diventa – secondo la definizione offerta dal sociologo statunitense Michael Kimmel – una vera e propria “polizia di genere”, cioè un insieme di persone che si sorvegliano fra di loro per “certificare” l’appartenenza o meno dell’altro al gruppo dei “veri uomini”.
Come sempre più numerose ricerche confermano, le strategie adoperate per proteggere la propria mascolinità hanno effetti negativi sulla salute fisica e mentale delle persone. Si pensi, per esempio, alla maggiore ritrosia che gli uomini provano nel sottoporsi alle terapie di un medico – soprattutto se questo è di sesso femminile – e allo spropositato consumo che fanno, rispetto alle donne, di tabacco, alcool e carne. Mossi dalla paura di perdere la stima o l’ammirazione del gruppo, molti uomini (specie i più giovani) adottano comportamenti temerari, come praticare gli sport estremi, i giochi di violenza, superare i limiti di velocità o, ancora, ignorare le misure di sicurezza sul lavoro. La completa inibizione delle emozioni è inoltre causa, molto spesso, di aggressività, autolesionismo e abuso di droghe, oltreché della generale difficoltà nel costruire rapporti di amicizia con altri uomini. Ad avvalorare questa tesi è anche il rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità secondo il quale alcuni comportamenti maschili rischiosi, adottati come espressione di virilità, sono la causa determinante delle morti premature nel genere maschile.
A questo punto ci si può chiedere se il sistema di dominio maschile sia davvero l’unica strada possibile, rassegnandosi a una visione del mondo che è molto spesso nociva per entrambi i sessi. È abbastanza chiaro che non è affatto semplice emanciparsi da stereotipi sedimentati e da schemi comportamentali che abbiamo interiorizzato a tal punto da crederli “naturali”, cioè come l’unico modo di stare al mondo. Inoltre, in una società profondamente fallocratica e competitiva, gli uomini che decidono di abbandonare la maschera della mascolinità tradizionale – mostrando le loro debolezze e l’umana fallibilità – vanno incontro a pesanti conseguenze, tanto nell’ambito sociale quanto in quello professionale. Per questo, nonostante sia necessaria una presa di coscienza critica da parte degli uomini sull’insostenibilità del sistema attuale – vantaggioso soltanto per una ristrettissima cerchia di persone al vertice del potere (i cosiddetti “self-made man”) – è soprattutto compito della politica e della scuola offrire un’alternativa, decostruendo la virilità e incoraggiando una visione del mondo non più maschio-centrica e libera dai condizionamenti sociali. Solo in questo modo si potrà costruire una società più paritaria e vivibile, tanto per le donne, quanto per gli stessi uomini.