Alcuni giorni fa è morta Claire Wineland, l’influencer ventunenne che ha vissuto tutta la vita con la fibrosi cistica e un intero quarto di vita in ospedale, e ha cercato di cambiare la nostra percezione della persona malata. Più di trenta operazioni, un coma, un attacco cardiaco in ascensore, una cinquantina di farmaci al giorno, ma già a tredici anni si era accorta che il vero impedimento della sua malattia, ancor più delle disfunzioni progressive agli organi che le causava, era il ruolo che in quanto malata era costretta a recitare di fronte al mondo: una figura candida, sacrificale, un’incarnazione placida e dolente della sua malattia. “Ci dispiace tanto”, mormoravano tutti sommessamente quando la incontravano per la prima volta, come rivolgendosi a una patologia senza volto. E sicuramente agli altri dicevano: “È così coraggiosa”, “È un angelo”.
Si tratta del ruolo molto preciso che la società assegna a ogni malato grave, a prescindere dalle caratteristiche individuali. Un ruolo che appiattisce la sua personalità in nome di un taciuto bisogno collettivo: quello di apprendere – da qualcuno che, in quanto vicino alla morte, viene ritenuto anche vicino al cielo, a Dio – il vero significato delle nostre vite che annaspano sotto tonnellate di falsi valori. Il “coraggio” del malato – attributo jolly, dato per scontato a prescindere dal carattere del soggetto e dal suo modo di affrontare la malattia – è la campana tibetana del nostro vivere male, è ciò a cui chiediamo di destarci dalla trivialità delle nostre esistenze per sollevarci in volo verso la verità. Così al malato è negato del tutto il rapporto produttivo con la vita: il malato non può creare. Il malato può solo contenere, incubare, elaborare, al massimo sublimare la sua malattia. Qualsiasi suo pensiero sgorga, sanguina, trasuda, consegue dalla sua patologia, dal suo corpo fragile e compromesso. Il malato, dal suo letto che si fa altare sacrificale, restituisce ai vivi dei motivi per vivere e dei modi per far pace con se stessi. Nel migliore dei casi, su un palco dedicato, si fa propaganda vivente di massime sul valore della vita. La felicità è nella colazione con i tuoi figli, dice, o in una passeggiata al tramonto.
Eppure c’è stato Stephen Hawking, che ha rivoluzionato la fisica teorica da una sedia a rotelle, nella quasi totale immobilità, emanando le sue parole geniali da un sintetizzatore vocale. Fin quando una Bebe Vio ci stupirà non per le sue capacità ma per averle sviluppate nonostante i suoi impedimenti fisici sbaglieremo miseramente. Lo dimostra la mole barbarica di troll che la attaccano online, soffermandosi in modo surreale sulle piccole imperfezioni del suo viso ignorandone la bellezza.
“Mi accorsi di non conoscere nessun malato interessante, nessuno che stava facendo qualcosa della sua vita. Certo, c’era l’occasionale persona senza braccia e gambe che parlava su un palco, assicurando a tutti di poter fare quello che voleva, ma la cosa si fermava lì,” dice Claire in una TED Talk, un anno prima di morire. Indossa una maglia con scritto “sexual intellectual”, e al naso cannule di ossigeno che porta con la sicurezza e l’eleganza di monili. Perché Claire era tutt’altro che una vittima sacrificale. Claire era elegante, bella, chiassosa, sicura di sé. Perché, contrariamente a quanto vorremmo, anche i malati possono essere così. Anche i malati possono essere sexy, scomodi, provocanti, osceni.
Eppure qualcosa ci spinge a trasformarli in angioletti asessuati e un po’ impersonali, in bambini evanescenti che aleggiano candidamente ai margini della vita. Preferiamo usarli come banali simboli di casta speranza – santini di plastica da ammirare e compatire, esseri innocui da salvare per salvare anche noi stessi – anziché includerli nel nostro vivere con tutte le loro umane sfaccettature.
Da A time for dancing a Now is good, il cinema americano di fascia adolescenziale documenta perfettamente la nostra crudele necessità di azzerare la personalità (e la sessualità) delle ragazze malate in modo da farne contenitori inerti di speranze, angeli sacrificali del nostro terrore di morte: io muoio innocente, tu comprendi attraverso la mia morte innocente quale sia il vero valore della tua vita e ti impegni silenziosamente a rispettarlo d’ora in poi. In questo paradigma non c’è spazio per la complessità della persona: il malato è un’icona che ci libera dalle nostre ansie ordinarie e consumistiche per restituirci – attraverso il suo trapasso – un’immagine più pulita e accettabile di noi stessi e della vita che ci resta. Il malato si immola affinché noi possiamo avvicinarci al significato dell’esistenza.
Così le malate delle teen comedies sono tutte uguali: vergini acqua e sapone con gli occhi buoni e il sorriso saggio, il vissuto semivuoto di ragazzine e la moralità di Gandhi. “Non dobbiamo vederci più,” dice ognuna di loro al fidanzato, per risparmiargli il dolore di vederla morire. E ovviamente il fidanzato in questione non molla mai, anzi resiste stoicamente al capezzale, ascoltando le sue immancabili rivelazioni su cosa sia, davvero, il senso di tutto (naturalmente è l’amore).
“Non mi interessa se sono malata, perché non sto cercando di aggiustarmi,” dice Claire. Ed è proprio questa idea della persona malata da “aggiustare” che ci porta a vedere sacri e potentissimi cristi crocifissi in ogni corpo sofferente: è l’idea cristiana che il fallimento del corpo sia legato all’ascesa salvifica della mente, purché ci sia un testimone ad assistere e ad arricchirsi spiritualmente di questo dolore.
Nell’immaginario cristiano, il malato è lo strumento inerte di una comunicazione con Dio: non solo la sofferenza della malattia assicura una vicinanza al divino, ma persino il contatto con la persona malata assicura santità. Lo testimoniano le oscure attività di Madre Teresa di Calcutta, che si impegnò a sottrarre antidolorifici ai malati terminali per assicurare loro il cielo e – di riflesso – assicurare a se stessa una santificazione in Terra: nonostante la sua assistenza ai malati si basasse su una privazione di cure anziché su cure effettive, la sua presenza ai capezzali è bastata infatti ad assicurale la santità. Nelle parole di Santa Cunegonda: “Il dolore è una parola vera, il dolore è una parola buona, il dolore è una parola misericordiosa”. E del dolore buono e vero e misericordioso degli altri continuiamo a nutrirci.
Questa visione del malato è unicamente occidentale. In India, chi nasce con malattie o deformità evidenti viene venerato in quanto portatore di una differenza che lo assimila al divino. Non esiste, in questo sentire, il pietismo e il valore sacrificale della sofferenza: il diverso, seppure malato, è venerato per il suo splendore e non per il suo dolore. Buddha portava i suoi discepoli a osservare i corpi in disfacimento: non per impressionare o commuovere, ma per osservare con serena obiettività lo svolgimento della vita. Perché è della vita che fa parte la malattia, non è un’inerte e misteriosa anticamera di morte come spesso la percepisce la nostra società.
Eppure, mentre assistiamo e compatiamo il sofferente, saccheggiando i suoi sorrisi e facendone il bottino delle nostre speranze, facciamo contemporaneamente l’operazione contraria con la nostra sofferenza: la rimuoviamo, la mettiamo da parte, seppellendola in parvenze socievoli e negli emoji dementi dei social. Ogni giorno, schizofrenicamente, facciamo del nostro dolore materiale rimosso e di quello degli altri uno strumento di purificazione.
“Non siamo ancora riusciti ad apprezzare la nostra sofferenza umana. Ma se aspettiamo abbastanza, se attraversiamo la vita facendo qualcosa di noi stessi, forse un giorno ci accorgeremo che è un dono,” dice Claire. È la nostra sofferenza, piccola o grande che sia, e non quella degli altri, a essere materia da interiorizzare e da utilizzare per evolverci e per creare dei significati all’interno della nostra esistenza. Quando Claire finisce di parlare gli spettatori bisbigliano. Forse ripensano ai malati che hanno lasciato a casa, consigliando loro di avere pazienza anziché fantasia, di sopravvivere anziché di vivere. Ora Claire è morta, ma ci ha lasciato in eredità una proposta di rinnovamento culturale che non dobbiamo mettere da parte, perché gli unici veri influencer sono quelli che propongono – e impongono – al mondo nuovi modelli umani, non nuovi modelli di scarpe e cappotti.