La nostra cultura è ricca di storie e immagini di violenza, brutalità e stupri. Sia nel mondo greco che in quello latino si possono trovare una miriade di esempi di pensatori, scrittori e letterati che, nonostante le loro raffinate riflessioni in molti ambiti della vita, accettavano l’uso della forza contro le donne senza porsi interrogativi. Dagli storici, come il greco Erodoto per il quale era inconcepibile che le donne potessero avere libertà e che a sostegno di questo affermava che erano desiderose di cose come il matrimonio forzato e il sequestro, al poeta romano Ovidio, che nel suo grande classico della poesia erotica latina, l’Ars amatoria (“L’arte di amare”), dichiarava: “Anche quella che ti farà credere di non volere, vorrà” (Haec quoque, quam poteris credere nolle, volet, v.274-275). D’altronde erano tempi molto diversi, e non ha senso fare processi a posteriori. Anche i più grandi artisti e pensatori erano comunque figli della loro epoca. Eppure questa visione ha continuato a influenzare la società e per certi versi ce la portiamo dietro ancora oggi. Tanto che a distanza di circa due migliaia di anni, un mediatore culturale di Bologna ha affermato che per le donne lo stupro è brutto solo all’inizio.
Le grandi storie occidentali hanno inevitabilmente contribuito a tramandare episodi di violenza sessuale contro le donne che un tempo erano comunemente accettati (ma d’altronde la cosa non deve stupire, dato che stiamo parlando della stessa epoca in cui venivano buttati i gladiatori nelle arene a farsi sbranare dalle bestie feroci). Rea Silvia, Dafne, il ratto delle Sabine. Un vero e proprio campionario di bestialità fatto di abusi e rapimenti. Come quello di Cassandra da parte di Aiace, oppure quello di Andromaca da parte di Ettore, e poi quello di Auge da parte di Eracle, oltre al già citato e famoso ratto delle Sabine attraverso cui Romolo fondò Roma e la popolò.
Il nostro immaginario è intriso di storie in cui il sesso è prima di tutto violenza e affermazione di forza, sopruso. Particolarmente crudele la vicenda di Danae, principessa di Argo cui era stato predetto che suo figlio avrebbe ucciso Acrisio e suo padre, temendo che la profezia si avverasse, la imprigionò. Salvo poi che, nel corso della prigionia, Giove se ne innamorò e trasformatosi nella nota pioggia d’oro giacque con lei. Danae, però, viene punita per l’atto impudico, rinchiusa in un cofano e gettata in mezzo al mare. Cassandra, fu invece trascinata via dall’altare del tempio in cui si era rifugiata dopo la fine della guerra di Troia e stuprata da Aiace. Più o meno la stessa sorte attende anche Elettra quando Zeus, “preso da un folle e violento amore per lei”, la violenta sull’altare di Atena. La statua della dea si macchia di sangue, e per punizione Elettra viene scaraventata sulla Terra dalla dea, o da Zeus stesso, ci sono diverse versioni. La sorte beffarda di Lucrezia ha dato vita, come testimonia Tito Livio nella sua storia di Roma Ab urbe condita (“Da quando la città è stata fondata”), a un esempio di virtù romana. Dopo essere stata minacciata di morte e violentata da Tarquinio Sestio, Lucrezia si confessa al padre e al marito, e mentre questi tentano di consolarla è lei stessa, dopo aver fatto giurare ai suoi uomini che sarà vendicata, a togliersi la vita, trafiggendosi con un coltello il cuore per il disonore ricevuto. Di questo episodio si servirà poi Christine De Pizan femminista ante-litteram e poetessa francese nel suo Livre de la Cité des Dames Cité de dames, (La città delle dame), per dimostrare la falsità dei presupposti su cui si basavano libri come De claris mulieribus (“Le donne famose”), di Giovanni Boccaccio, e il Roman de la Rose, di Jean de Meung.
Neanche il mondo cattolico è salvo. Il caso di Maria Goretti, la “martire della purezza” della Chiesa cattolica, è la storia di una contadina dodicenne dell’Agro Pontino, povera e analfabeta ma oltremodo virtuosa che preferisce la morte al disonore quando, piuttosto che concedersi all’uomo che tentava di violentarla ed essere disonorata, si fa ammazzare. Un evento mirabile che gli è valso la canonizzazione nel 1949 oltre che la devozione incondizionata del regime fascista e della popolazione rurale delle paludi bonificate.
Secondo la storica inglese Joanna Bourke, proprio nello stupro e nella violenza sono radicati i luoghi comuni e gli stereotipi che fanno del corpo della donna e, non dello sguardo maschile, l’elemento provocatore che fa scattare la violenza e che affermano che “un no vuol dire sì”, oppure che è impossibile violentare una donna che oppone resistenza, e altri cliché simili come l’insopportabile e diffusa convinzione che le donne siano per natura più portate a mentire. Attraverso i miti e le leggende infatti, si tramandano da secoli concetti sessisti e misogini, racconti e scene di violenza sessuale, che ci influenzano ancora, tanto che per l’artista multimediale e pornoattivista Slavina, nome d’arte di Silvia Corti, bisognerebbe addirittura riprogrammare in autonomia il modo in cui abitiamo il nostro corpo se vogliamo riuscire a decostruire secoli di sessuofobia e metafore colpevolizzanti.
Questo squilibrio così evidente nel rapporto fra maschile e femminile che affonda le sue origini nella notte dei tempi ricade inevitabilmente sulla rappresentazione della donna e su come concepiamo il sesso e la violenza sessuale, arrivando fino ai giorni nostri. I romanzi odierni brulicano di protagoniste “sedotte” contro la propria volontà, da Cinquanta sfumature di grigio di E.L.James, passando per Le relazioni Blackstone di Raine Miller ai romanzi rosa come Il risveglio di Anne Rice, ed è sempre Bourke ad affermare che ogni otto film americani almeno uno contiene una scena di stupro. D’altronde era stata già la teorica femminista Laura Mulvey in un saggio del 1975 intitolato “Visual Pleasure and Narrative Cinema” a spiegare come l’intera esperienza cinematografica fosse sessualmente definita e discriminante attraverso il concetto del “male gaze”, vale a dire in base al fatto che la maggior parte dei film hollywoodiani erano girati per soddisfare il pubblico maschile, e consentivano soltanto a quest’ultimo di immedesimarsi facendo della donna l’ultimo anello della catena e l’oggetto sessualizzato di quello sguardo. Si tratta di una teoria ancora valida, che in Italia Lorella Zanardo una decina di anni fa ha messo a nudo con Il corpo delle donne, un documentario che ha segnato una sorta di punto di svolta per la rappresentazione delle donne sugli schermi televisivi.
Fino al 2018, prima di essere rimosso, era possibile trovare sulla piattaforma digitale Steam, Rape day, il videogioco che permetteva di interpretare un sociopatico armato di mitra in un mondo di zombie. Nel gioco, stando al suo creatore: “potete infastidire, uccidere e stuprare le donne mentre continuate la vostra storia. È un mondo pericoloso senza leggi. Gli zombi si divertono a divorare la carne delle donne e a violentarle brutalmente. Tu sei lo stupratore più pericoloso della città”.
Questi sono solo alcuni degli esempi di come questo substrato di violenza, misoginia, ed eteronormatività che caratterizza la società occidentale abbia prodotto ciò che gli studi di genere chiamano “cultura dello stupro”, ovvero quella dimensione in cui la violenza sessuale e lo stupro non solo sono ampiamente diffusi e normalizzati, ma lo sono altrettanto gli atteggiamenti e le pratiche che lo giustificano e lo incoraggiano. Lo stupro è stato normalizzato e sdoganato non soltanto nei media ma anche nelle occasioni pubbliche e da esponenti politici, pensiamo alla frase shock pronunciata nel 2014 dall’attuale presidente del Brasile Jair Bolsonaro, rivolta alla deputata di sinistra ed ex ministra dei diritti umani Maria do Rosario Nunes: “Non la violenterei perché non se lo merita”. O alle più recenti proteste di Casal Bruciato nel corso delle quali un militante di Casa Pound ha gridato “Ti stupro” a una donna rom e all’arresto sempre di due esponenti neofascisti per violenza di gruppo su una donna a Viterbo con la conseguente scoperta di una chat in cui venivano condivisi i dettagli dell’abuso.
Il corpo delle donne continua ad essere considerato, una proprietà e un dominio maschile e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna. Le violenze che quotidianamente si verificano e si perpetuano ai danni delle donne sono una diretta conseguenza di questo. A dare una definizione di cultura dello stupro, è stata la giornalista Susan Brownmiller, nel saggio Against Our Will: Men, Women and Rape, in cui parla di stupro non soltanto nei termini di violenza carnale ma anche come di “un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono le donne in uno stato di paura e come un modo di pensare e di relazionarsi con gli altri”. Con cultura dello stupro infatti sono indicate diverse forme di violenza anche non strettamente fisica: le battute sessiste, la colpevolizzazione della vittima, lo slut-shaming, ovvero il processo attraverso cui le donne vengono attaccate e giudicate “colpevoli” di trasgredire i codici di condotta sessuale che la società ha previsto per loro, l’oggettivazione sessuale e la banalizzazione dello stupro carcerario, fino ad arrivare agli epigoni più recenti e noti come la diffusione degli adesivi della compagnia petrolifera X-Site Energy, che incitano a stuprare Greta Thunberg. La diciassettenne, affetta dalla sindrome di Asperger, è raffigurata sotto forma di cartoon mentre viene stuprata da un uomo che stringe fra le mani le sue treccine (la Royal Canadian Mounted Police che si è occupata del caso ha però dichiarato che non vi è alcun reato e ha stabilito che non può essere considerata pornografia infantile. C’è ancora infatti una parte considerevole del mondo che nega la cultura dello stupro, anche nell’apparentemente evoluto Canada. Oppure il caso dei sette ventenni che hanno prenotato un tavolo in una discoteca di Lignano Sabbiadoro a nome “Centro stupri”, con tanto di magliette coordinate.
Secondo l’ultimo sondaggio dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, una donna su venti in Europa è stata stuprata a partire dall’età di quindici anni, un dato che, a oggi, avrebbe prodotto all’incirca 9 milioni di stupri. Nemmeno le leggi sono ancora adeguate: da uno degli ultimi report di Amnesty sul tema, emerge che le leggi della maggior parte degli Stati europei non considerano seriamente questo reato e non riconoscono che un rapporto sessuale privo di consenso sia uno stupro. Solo Belgio, Irlanda, Germania, Svezia, Inghilterra e Galles, Scozia, Irlanda del Nord, Cipro, e Lussemburgo, definiscono lo stupro sulla base dell’assenza di consenso. Tra gli assenti c’è anche la Danimarca che ha un gravissimo problema con la cultura dello stupro e l’Italia. Sebbene Roma abbia firmato il Trattato di Istambul nel 2013, mancano le norme che stabiliscono quando un rapporto è consensuale e quando non lo è. Come denuncia Amnesty, è proprio l’assenza del “consenso” tra le condizioni previste dal codice penale italiano che rischia di lasciare gli stupratori impuniti, dati sconfortanti che dimostrano quanto, se da un lato la cultura dello stupro è ancora tutta da decostruire, quella del consenso è invece ancora tutta da fare.