C’è un libro per quattrenni o giù di lì che racconta di un Paese in cui le parole sono a pagamento. Ci sono fabbriche che le producono giorno e notte e per parlare è necessario acquistarle, o rovistare nei bidoni della spazzatura di chi le ha buttate. Si possono prendere parole sfuse, parolacce, modi di dire e interi discorsi. Ci sono parole che costano di più e altre che costano meno, a seconda di quello che vogliono dire, della loro importanza, dell’uso che se ne può fare: ciliegia, polvere, seggiola, ventriloquo, filodendro, amore. A volte il vento le porta in giro e se sei abbastanza svelto riesci ad acchiapparle con un retino.
In una grande libreria di una grande città italiana, rischiando di essere calpestata da persone che erano lì per mangiare in un posto instagrammabile e non per comprare libri (lo si capiva appunto dalla disattenzione con cui camminavano tra gli scaffali), mi sono trovata a parlare con una nonna che sapeva il fatto suo e stava cercando un libro per il nipotino, impegnato a gestire il contraccolpo della nascita di due gemelle. Ci siamo trovate subito d’accordo nel constatare che la maggior parte dei libri considerati belli per bambini sono fatti per compiacere gli adulti, libri che i bambini, grazie ai loro potenti radar, non degnano di uno sguardo. Un’altra enorme fetta è pura monnezza, che ovviamente i bambini trovano irresistibile (grande lezione per i genitori hipster, che però nelle grandi città di solito sono troppo occupati a seguire un ideale o lo smartphone e di rado osservano le reazioni dei minori di fronte ai libri che hanno dato loro in dotazione). A metà tra queste due categorie ci sono i libri davvero belli per l’infanzia, che attraggono i piccoli e pure i genitori e li si può leggere centinaia di volte senza stancarsi mai. Sono pochi e sono indimenticabili. Riescono nella sfida impossibile di unire le giuste figure alle poche parole sulle pagine, manifestando un mondo suggerito eppure più preciso di tanti romanzi. La grande fabbrica delle parole, di Agnès de Lestrade e Valeria Docampo, è uno di questi.
La cosa che mi ha colpito di più è che questa storia racconta con estrema semplicità il mondo in cui viviamo oggi, in cui la parola scritta viene usata sempre più spesso come fosse un’immagine. Se la parola può essere discussa, l’immagine chiede consenso e ci impone di cedere una parte importante della nostra autonomia in fatto di comprensione. Lo sviluppo esponenziale delle immagini ci ha fatto perdere la nostra abilità di negoziare significati e contraddittorio: il dialogo non ci cambia, perché semplicemente non è più un dialogo (dal greco dia-logos, attraverso il significato della parola). La nostra è una società che usa e consuma tantissime parole, e che le usa alla stregua di immagini, infatti sono parole scritte, che si riversano ogni giorno sui social e nelle nostre plurime chat. Nell’epoca post fotografica in cui viviamo, come l’ha definita il fotografo e scrittore spagnolo Joan Fontcuberta, “abitiamo l’immagine nella stessa misura in cui essa abita noi. Ci troviamo in un’onnipresente iconosfera, un contesto di pensiero visivo, in cui le immagini che circolano in rete sempre più rapidamente non sono più presenze inerti: la loro incessante energia cinetica le rende attive, furiose, pericolose”.
Quello del linguaggio è un tema enorme, che potenzialmente ci perseguita in ogni istante della nostra esistenza, fin da piccoli. Noi infatti pensiamo in maniera verbale, anche se da piccoli le parole sono suoni e non segni. A differenza degli abitanti della strana città raccontata nel libro, crediamo che le parole siano gratuite, ma in realtà non lo sono affatto – è molto chiaro a chi lavora nel vasto settore dell’editoria. La parola ha un prezzo (ed è molto caro), occupa uno spazio e un tempo e soprattutto, quando digitale, necessita di un notevole consumo di energia. Questo consumismo linguistico ha portato Antonio Pennisi e Alessandra Falzone ne Il prezzo del linguaggio a dire che il linguaggio porterà alla nostra stessa estinzione.
L’uso forsennato che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni della parola scritta sui social, usandola come se fosse parola detta, sembra averci a dir poco prosciugati. Questo fenomeno, nell’ultimo anno mi sembra essersi manifestato in modo sempre più lampante. Se all’inizio sembrava solo un problema di ascolto, ora è chiaro ci siano sempre meno parole da dire e da dirsi. Una sorta di spossatezza collettiva. Eppure, le parole sono la prima cosa che abbiamo e in teoria sembrerebbero davvero gratis, e infinite, e libere. Sono tempi di indecifrabile crisi. Il mondo ci è sempre più illeggibile, perché abbiamo dismesso la parola – che richiede mente e ragione per essere usata – per passare all’immagine – che richiede fede e abbandono, e che non è mai vera. Per ogni selfie che scattiamo, per ogni mezz’ora di immagini assorbite da Instagram senza accorgerci del tempo che passa, abbiamo perso la possibilità di dire.
Penso all’inizio di Her, in cui il protagonista Theodore scrive per altri – che non sanno più farlo – lettere intime (“Listy důvěrně”, come il secondo quartetto per archi del compositore ungherese Leós Janáček). Il titolo Lettere intime fu scelto dal compositore per alludere alla sua lunga amicizia con Kamila Stösslová, una donna sposata molto più giovane di lui, per dare un’etichetta verbale alla sua traduzione in musica della loro relazione spirituale, raccolta in un carteggio di oltre 700 lettere. Oggi, che veniamo tediati dalla sofferenza altrui, che non abbiamo né spazio né tempo da dare agli altri, soprattutto senza un ritorno, ciò può sembrarci incredibile, per non dire impossibile. Ora un messaggio troppo lungo sembra quasi una mancanza di garbo, ci scusiamo preventivamente per i messaggi vocali (perché non ci telefoniamo?), che poi verranno comunque ascoltati almeno a velocità 1,5.
Il tempo è denaro, le parole non hanno valore, eppure muovono il mondo e hanno una loro economia, non solo estetico-poetica, ma anche finanziaria, solo che nessuno ci crede. Oggi sembra che le parole ci costino, ci costi dirle, rivolgerle e ci costi pure riceverle, ascoltarle, lasciare che ci raggiungano, che percolino nella nostra mente. Ma non è chiaro cosa ci costino. Io lavoro con le parole, ricevo denaro per mettere insieme dei testi, correggo e perfeziono quelli degli altri, in passato ho anche lavorato come copywriter. Ero sconvolta da quanto qualcuno potesse valutare una frase. 150 caratteri.
Al liceo una professoressa di lettere, consegnandomi un tema in cui mi aveva dato il voto più alto della classe mi disse in modo sprezzante, appoggiandomi il foglio protocollo sul banco: “Sei proprio una parolaia”. Quella frase mi rimase dentro a lungo. Come si dice, il corpo non dimentica e nel corso del tempo e del mio percorso ha continuato a venirmi in mente, come una sorta di oracolo, insieme alla stramba trama de La prosivendola di Daniel Pennac. Alla maturità, un commissario esterno (era il primo anno della commissione mista) di letteratura mi diede 11/15 nel tema perché a suo dire avevo usato troppe ripetizioni enfatiche. Aveva ragione. Mi salvò dall’iscrivermi alla Normale di Pisa – cosa che sospetto mi avrebbe annientata definitivamente – e mi permise di scoprire molti anni dopo Pāṇini, la cui opera segna il passaggio dal sanscrito vedico al sanscrito classico, e il concetto di lāghava, la leggerezza del testo, la sua parsimonia, il principio di economia che gli dà forma. Da qui i termini sottintesi che vanno intesi comunque nel testo. Da cui la richiesta di decodifica da parte del lettore di un certo tipo di testo che si pone come enigma, che indica, alluce, suggerisce, ma non dice mai, media, resta sopito finché qualcuno non lo interroga e si sforza di comprenderlo, ascoltarlo, decifrarlo, un testo che appare nella forma leggero, ma che una volta risvegliato mostra tutta la sua elevata densità specifica.
Invece oggi ci rovesciamo addosso emozioni in forma verbale scritta, immediate, cioè non mediate, e quindi aggressive, violente, indiscutibili, come le immagini, come le azioni fisiche, quasi che la parola fosse un conato di vomito mentale. Questa abitudine d’uso del nostro linguaggio ha fatto sì che riducessimo sempre di più gli spazi di comunicazione che riteniamo sicuri, veri, e quindi viene da sé che quando sentiamo la necessità di ritirarci lo facciamo nel silenzio, alzando muri, chiudendo occhi e orecchie, riducendo ogni contatto, ogni comunicazione, impedendo alle parole di arrivarci a toccare e impedendo a noi di raggiungere gli altri con esse.
Sempre Fontcuberta in un’intervista ha detto di voler insegnare al pubblico, o comunque indurlo, a reagire in modo critico alla verità proposta dalle immagini. “Per questo motivo,” ha continuato “il mio lavoro probabilmente non ha solo una dimensione pedagogica, ma anche una valenza di profilassi, nel senso che vuole liberarsi dal peso della falsificazione, della manipolazione, della narrazione fittizia che in una certa misura grava sulle immagini fotografiche”. Oggi la stessa ombra si è estesa anche al linguaggio, e quindi alla nostra mente e al modo di abitare il mondo e di costruire relazioni. Se vogliamo che le cose e le persone ricomincino a parlarci l’unico modo è far rimarginare questa ferita, con costanza e attenzione, impegnarci ogni giorno a usare il linguaggio diversamente, come una sorta di riabilitazione.