Questa la nostra selezione di libri letti a maggio 2025 - THE VISION
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Le emozioni che proviamo non sono solo nostre ma sono plasmate e plasmano a loro volta il mondo in cui viviamo, riflette un saggio su come le paure collettive siano profondamente intrecciate con fattori economici, politici e ideologici, mentre altre storie si chiedono che fine abbia fatto la sinistra globale, raccontano la scoperta di essere trans di un’artista degli anni Settanta, l’impossibilità di afferrare la memoria o la perdita di connessione umana in un Giappone distopico. Ecco cosa abbiamo letto a maggio 2025.

Vanishing World, di Murata Sayaka (Edizioni E/O) 

In un Giappone distopico, il sesso nelle coppie sposate è scomparso, e la riproduzione avviene esclusivamente tramite inseminazione artificiale. L’amore passionale continua a esistere, ma solo nella forma extra-coniugale o nei confronti di personaggi immaginari – come i protagonisti dei cartoni animati – codificati e costruiti appositamente per risultare attraenti per persone di tutte le età. Amane è una giovane cresciuta con il racconto romantico della madre, che narra di un amore fisico con il padre, un concetto ormai tabù e considerato “incestuoso” da gran parte della società. Ciò provoca in lei un conflitto interiore fin dai primi anni di vita, ma anche un punto di vista originale sul mondo. Forse anche per questo, una volta sposata, non ha problemi a demandare al marito il peso della gravidanza e del parto, grazie a un progetto sperimentale. 

Con Vanishing World, Sayaka Murata – nota per il successo di La ragazza del convenience store – dipinge una società asettica ma vibrante di tensioni sotterranee, offrendo una riflessione acuta sulla perdita di connessione umana. Alcuni critici hanno interpretato questo romanzo come una possibile utopia femminista o queer suggerendo che, attraverso la rappresentazione di una società senza sesso e con ruoli di genere dissolti, Murata stia proponendo una critica alle rigide strutture patriarcali. In parte è indubbiamente così. D’altro canto, però, l’idea dei matrimoni bianchi e dell’amore passionale demandato a fidanzati esterni sembra avere a che fare con un concetto di libertà personale e sessuale più esteso – e con un desiderio inconscio, quasi un augurio. 

Con la sua penna affilata, come al solito, Sayaka Murata radiografa una società straniata, esplorando temi come l’alienazione, l’identità e il desiderio con uno stile che mescola bizzarria e profondità emotiva. Un romanzo provocatorio, che conferma l’autrice giapponese come una delle voci più originali della letteratura contemporanea.

Modernità esplosiva, di Eva Illouz (Einaudi Editore)

Non è affatto facile trovare una strategia per confrontarsi con le nevrosi e i nodi irrisolti che ingombrano la nostra psiche, quelli che ci tengono in scacco, incastrandoci in uno stato di malessere. Soprattutto in questo periodo, in cui l’ossessione per la positività ha permeato ogni angolo della società, le nostre emozioni negative vengono spinte ai margini dell’esistenza, escluse da ogni confronto. Eppure, le emozioni che proviamo non sono solo nostre, al contrario di come siamo portati a pensare, ma sono plasmate e plasmano a loro volta il mondo in cui viviamo. Il nuovo saggio della sociologa Eva Illouz, Modernità esplosiva, si concentra proprio su questo punto, esplorando come le diverse emozioni siano plasmate dalla collettività e riflettano la società moderna, in particolare a seguito della rivoluzione culturale degli anni ’70 e dell’ascesa delle politiche neoliberiste. Illouz sostiene che le ansie collettive e il malcontento diffuso siano profondamente intrecciati con fattori economici, politici e ideologici, e non esclusivamente psicologici. Sentimenti come speranza, delusione, invidia, rabbia, paura, nostalgia, vergogna, orgoglio, gelosia e amore sono quindi profondamente influenzati da istituzioni, linguaggio, narrazioni e ideali sociali, e non sono solo un elemento privato e singolare.

Il ritmo veloce con cui il mondo cambia intorno a noi, enfatizzato dalla globalizzazione, genera spesso un senso di “dislocazione” e un desiderio, o nostalgia, di un passato perduto, spesso idealizzato. Una sensazione che si lega ad altre emozioni primarie – come la rabbia, la paura, l’invidia, la gelosia, la vergogna – e che per questo finisce il più delle volte per essere sfruttata strategicamente da movimenti politici populisti. Anche la speranza, storicamente più positiva, nella modernità in cui viviamo non fa che generare delusione. Il mito dell’American Dream l’ha infatti presentata come fondamentale, intrecciandola alla meritocrazia. La cultura consumistica, con la sua incessante stimolazione di desideri e fantasie, predispone infatti intrinsecamente gli individui all’insoddisfazione, anche rendendo più difficile adempiere alle promesse di mobilità sociale e realizzazione personale, concepite come un fallimento individuale più che un problema sistemico. Oggi finiamo così per percorrere quelle che Illouz definisce delle “vite fallite” in cui, a causa del condizionamento sociale e della negazione, non siamo in grado di riconoscere o agire sulle nostre emozioni più significative. Ma è proprio comprendendo queste ultime, invece, che possiamo sfidare, insieme, modelli di società oppressivi per realizzare un nuovo presente. 

Io sono lei, di Lucy Sante (NN Editore)

All’inizio del 2021 Luc Sante – artista della ​​la scena artistica e culturale dei primi anni Settanta – invia a una stretta cerchia di amici una mail dirompente: a sessantasette anni sta per affrontare la transizione di genere. È il 16 febbraio quando, giocando con FaceApp sul telefono, per la prima volta Sante si confronta con una versione femminile di sé: un incontro digitale che diventa un’epifania riguardo alla consapevolezza di essere una donna trans, Lucy, e che ha fatto emergere la sensazione provata da piccola quando si sentiva fuori posto rispetto alla mascolinità tradizionale e desiderava un’identità femminile. Un confronto, quello con la disforia di genere, che è spesso stato segnato dall’impedimento di esprimere i suoi veri desideri a causa delle pressioni sociali, della mancanza di modelli di riferimento transgender accessibili e della paura del giudizio, in particolare da parte delle donne. Anche la sua professione di scrittrice ha giocato un ruolo nella repressione delle proprie emozioni, perché temeva che il suo lavoro venisse giudicato ed etichettato in quanto trans, a prescindere dalla sua scrittura. L’avvento di Internet, invece, le ha offerto uno spazio cruciale per esplorare la sua esperienza in modo sicuro, rivelando una comunità eterogenea e narrazioni variegate. Il processo iniziale di “coming out” con amici e familiari, tra cui la sua psicologa, la compagna Mimi e il figlio Raphael, si è svolto rapidamente nell’arco di una settimana, dissolvendo i segreti di una vita. Una temporanea sospensione della transizione, causata dai timori di distruggere la sua relazione di lunga data e dal senso di non “meritare” di essere una donna, ha rivelato la profonda “transfobia interiorizzata” e la complessa interazione tra la sua identità di genere e la sua attrazione per le donne.

In Io sono lei Sante ci consegna il racconto di una vita: descrive i cambiamenti fisici ed emotivi, il cambiamento nella sua percezione di sé e il ritrovato senso di libertà e autenticità che è derivato dall’abbandonare decenni di repressione. Racconta i primi segnali di disforia di genere, come il desiderio di essere una ragazza e il trovare conforto nei ruoli femminili, spesso accolti con confusione o disapprovazione. Sante sottolinea che la sua transizione non è solo una trasformazione fisica, ma un profondo atto di auto-scoperta e liberazione. Riconosce le complessità e le sfide di questo viaggio, comprese le aspettative e i pregiudizi sociali che le persone transgender devono ancora affrontare. Attraverso la sua scrittura crea un resoconto personale di verità e autoaccettazione, una sorta di manifesto politico in cui la storia personale di Sante e la promessa di un futuro da abitare entrano in risonanza con la comunità tutta.

La sinistra non è woke. Un antimanifesto, di Susan Neiman (Utet)

Che fine ha fatto la sinistra? È questa la domanda che fa da sfondo al nuovo saggio di Susan Neiman, filosofa morale statunitense, formatasi con Rawls e Cavell e oggi alla guida dell’Einstein Forum di Potsdam. In un panorama globale in cui l’ascesa delle destre reazionarie sembra inarrestabile – dal ritorno del nazionalismo in Europa alla rielezione di Donald Trump negli Stati Uniti – Neiman individua una causa meno analizzata ma trasversale: la sinistra ha smesso di essere se stessa, di incarnare i suoi valori. Nel suo anti-manifesto, Neiman non si scaglia contro la “cancel culture” o le battaglie per i diritti civili – anzi, ne riconosce l’importanza – ma critica il modo in cui certa sinistra, nell’assumere una postura “woke”, ha smarrito le sue radici più profonde. Secondo l’autrice, la sinistra storicamente si fondava su tre pilastri: la giustizia sociale, l’universalismo e la fiducia nel progresso. Ma oggi, questi valori sembrano messi in discussione proprio da chi, in teoria, dovrebbe difenderli e portarli avanti.

Secondo l’autrice, influenzata da una lettura radicale di Foucault e da una visione disincantata dell’Illuminismo, parte della sinistra ha finito per vedere in ogni struttura sociale una mera espressione di potere, considerando ogni progetto collettivo con sospetto. Così, il discorso politico si è frammentato in mille rivendicazioni identitarie, rinunciando all’idea di un fronte comune ampio e realmente inclusivo e intersenzionale, perdendo inoltre la tensione progressista verso un futuro “migliore” per tutti che storicamente aveva contraddistinto la sinistra.

Neiman lancia un messaggio chiaro: la sinistra non può ridursi a un insieme di istanze individuali frammentate, né può vivere di sola critica al passato. Deve tornare a immaginare un domani, a credere nella possibilità del cambiamento, a proporre una visione del mondo che sia davvero alternativa. Solo così potrà ritrovare una propria identità, il proprio ruolo e, forse, tornare a contare qualcosa per le persone. La sinistra non è woke è un saggio lucido e coraggioso che invita a riflettere su cosa significhi oggi essere davvero di sinistra. Non per nostalgia del passato, ma per l’urgenza di un nuovo inizio.

Goodbye Hotel, di Michael Bible (Adelphi)

C’è sempre un’atmosfera sospesa nei romanzi di Michael Bible, un senso di smarrimento dolce e devastante, come se la verità si trovasse poco oltre il confine del visibile, coperta da una coltre di nebbia, silenzi e memoria sfocata. Goodbye Hotel, il nuovo libro dello scrittore americano, conferma questa poetica dello spaesamento, della nostalgia per qualcosa che non è mai esistito davvero – o che forse è esistito, ma in un’altra dimensione del possibile. François, il narratore, è un uomo in fuga, che rifugiatosi in un hotel newyorkese che sembra fuori dal tempo e dallo spazio – il Goodbye Hotel del titolo, ultimo approdo dei dispersi del mondo – decide di raccontare una storia accaduta – o forse solo immaginata – venticinque anni prima. François è un narratore inattendibile, che non pretende di offrire verità assolute: è ben cosciente di avere a disposizione soltanto “un pezzetto di verità”, e lo condivide col lettore come si farebbe parlando di una vecchia foto ritrovata per caso in una scatola.

La sua storia ci riporta ad Harmony, cittadina sperduta nel Sud degli Stati Uniti, dove ogni giorno si confonde con il successivo e dove la giovinezza è una trappola che sembra promettere solo sogni impossibili. È in questo scenario che si consuma l’incontro tra due ragazzi innamorati e un enigmatico uomo in completo di seersucker, sotto lo sguardo silenzioso ma veggente di Lazarus, una tartaruga dalle doti chiaroveggenti, una figura quasi mitologica, che incarna il potere del tempo e del mistero, e che ci ricorda che il confine tra realtà e immaginazione è sempre più labile di quanto siamo disposti a credere. Il linguaggio di Bible è ipnotico, lirico, pieno di ellissi e folgorazioni poetiche. Come nei suoi romanzi precedenti, soprattutto in L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, l’autore costruisce un mondo che sembra uscito da un sogno lynchiano: inquietante, struggente, eppure pieno di grazia. La narrazione si muove su piani temporali e simbolici che si intersecano, sfidando ogni linearità e chiedendo al lettore di lasciarsi andare, di seguire più che di capire la storia.

Goodbye Hotel è un romanzo sulla memoria e sull’impossibilità di afferrarla davvero. È il racconto di un dolore antico che cerca casa, di un passato che non smette di bussare, di un’America smarrita, ma bellissima nella sua desolazione. È anche, forse, un invito ad accettare che la verità sia a volte sfuggente, irraggiungibile, protetta da un guscio duro come quello di una vecchia tartaruga centenaria. Un libro visionario e profondamente umano, che ci ricorda quanto può essere potente la letteratura quando osa non spiegare tutto.

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