Tra fine del bonus cultura, crollo del potere d’acquisto – che spinge a rinunciare ai beni non necessari – e tagli alla cultura, anche per le biblioteche, l’editoria italiana è in un momento particolarmente fragile, che si somma a una instabilità strutturale. È un momento dominato da “una sensazione condivisa di malessere”, come l’ha definita Luca Briasco, editor della casa editrice Minimum Fax, riflettendo sui risultati dell’ultima edizione della fiera “Più libri, più liberi”. Il problema è che a più libri pubblicati non corrispondono più vendite. In questo contesto, in cui è sempre più difficile anche scegliere cosa leggere nella vasta offerta del mercato, ecco i libri che abbiamo letto questo mese.
Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian, Matt Colquhoun
Il 19 novembre 2017, in occasione del National Selfie Day, Paris Hilton postò una vecchia foto che la ritraeva insieme a Britney Spears, scrivendo, forse un po’ scherzando, che erano state loro a inventare il selfie. Il New York Times, in risposta, cercò di ricostruire le vere origini degli autoscatti che popolano i nostri social e le nostre interazioni. Nell’articolo, Mark Marino, docente all’Università della California del Sud, dichiarava che il punto zero andasse invece individuato nell’autoritratto fotografico realizzato da Robert Cornelius nel 1839. Quale che sia realmente il momento della sua nascita, è evidente come il selfie sia diventato non solo il nostro principale modo di rappresentazione ma anche uno degli elementi più utilizzati come prova del fatto che staremmo vivendo una vera e propria epidemia di narcisismo. Oggi che questo termine è usato un po’ da tutti, ovunque, spesso a sproposito, lo scrittore, filosofo e fotografo inglese Matt Colquhoun prova a offrire una visione diversa e francamente fresca e interessante del fenomeno nel saggio Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian: se il selfie non fosse un moto di vanità, un atto per immortalare la stasi, ma piuttosto l’espressione del nostro desiderio di trasformazione, di cambiamento?
Andando contro il ritornello moralizzatore per cui la nostra egocentrica ossessione sarà la nostra rovina, Colquhoun recupera il mito di Narciso, incapace sì di resistere al proprio riflesso, tanto da volerlo raggiungere finendo per annegare, ma trasformatosi in un fiore. Partendo dal Rinascimento con Albrecht Dürer, passando per Rembrandt e Caravaggio, fino a fotografi e celebrità come Lee Friedlander e Hervé Guibert e Kim Kardashian, il testo esplora l’ascesa dell’autoritratto, sostenendo che è esprima innanzitutto un senso di indeterminatezza soggettiva, valido da secoli ma ancor di più oggi, in una società capitalista di cui riconosciamo sempre meno i valori e in cui, di conseguenza, non sappiamo più chi siamo o dove stiamo andando. Le nostre immagini, infatti, sono anche un modo per reclamare noi stessi anche se una volta condivise non ci appartengono mai del tutto e sin dagli albori richiedono di riconoscere e accettare uno scarto tra chi siamo, chi ci sentiamo e come ci vediamo ritratti. Forse allora è proprio portando a compimento questo continuo tentativo di cadere nel lago che anche noi potremo trasformarci, rinascere, superarci e abbandonare l’immagine che ci siamo sentiti costretti a cucirci addosso, pronti per il prossimo selfie.
Christopher e quelli come lui, Christopher Isherwood
“Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato”, dichiara l’alter ego dello scrittore britannico Christopher Isherwood nell’incipit di uno dei suoi testi più famosi, Addio a Berlino. Erano gli anni Trenta del Novecento, e nell’allora Repubblica di Weimar il partito nazional-socialista acquisiva sempre più consensi, dando le prime avvisaglie di ciò che di tremendo sarebbe accaduto di lì a poco. A Isherwood, che aveva lasciato l’Inghilterra per Berlino, prima temporaneamente e poi stabilmente, la città apparve all’inizio come “un misterioso tempio dell’iniziazione”. Era soprattutto per i ragazzi che Christopher voleva trasferirsi. La sua atmosfera libertina la rendeva per lo scrittore “il crogiolo ribollente della storia nel suo divenire”. Fu solo molti anni dopo, nel 1976, dopo aver viaggiato in Cina ed essersi trasferito in California, aver realizzato saggi, traduzioni scritturali buddhiste, racconti e romanzi, che Isherwood pose finalmente se stesso davanti all’obiettivo, in una riflessione allo specchio confluita nell’autobiografia Christopher Isherwood e quelli come lui.
Con le parole che usa per mostrarsi, Isherwood sembra proseguire nel tentativo che aveva già espresso nei suoi romanzi di far sembrare non solo ordinario l’eccentrico, ma eccentrico l’ordinario, o almeno interessante, aggiungendovi la scelta di raccontarsi in terza persona. Amori, viaggi, qualche ricordo di una visita, Christopher che scrive in giardino, a torso nudo, sotto il sole. Ogni avvenimento dalla partenza dall’Inghilterra, nel 1929, al 1938, quando lo troviamo appoggiato al parapetto di una nave scrutando l’orizzonte, ansioso e speranzoso, in vista della terra dove passerà più di metà della sua vita, è riportato con generosità, nella proposizione di scrivere un libro sincero e basato sui fatti, soprattutto quelli che riguardano se stesso, che sono sempre i più difficili a cui rivolgersi con lucidità. “Mettilo in una teca di vetro e ammiralo come fosse un tesoro, se vuoi”, scrive in una lettera la prima moglie del protagonista de Il mondo di sera – che Isherwood pubblicò nel 1954 –, riferendosi al passato su cui voleva aiutarlo a far luce. A leggere oggi il vivo autoritratto dello scrittore, viene voglia di voler fare proprio così: scoprirlo come fosse un tesoro, mentre la luce che lo abbraccia cambia come passa il giorno.
Elizabeth, Ken Greenhall
Elizabeth è un libro urticante e magnetico. La protagonista, una ragazza di tredici anni, è spietata come solo alcune preadolescenti sanno essere, non si fa illusioni sul mondo, né su di sé. Il suo sguardo ipertrofico coglie con perfetta esattezza – e un certo sadismo – i dettagli più raccapriccianti e le miserie private di chi le sta vicino. Dopo la morte dei suoi genitori, viene accolta dalla famiglia paterna in un’antica dimora coloniale a Manhattan, a ridosso del porto in disarmo, in cui i vecchi edifici e i simboli della città si trasfigurano in antiche vestigia urbane che sembrano resistere alla crescita dei grattacieli. Discendente diretta di una genìa di streghe, fornita di un piccolo ma efficiente armamentario di specchi, animali guida e incantesimi, oltre che di un fascino ambiguo e di una sapienza ancestrale, Elizabeth – guidata dalle apparizioni di un’antenata – esercita senza pietà i suoi poteri per procedere con freddezza verso l’affermazione di sé, invece che farsi piegare dagli uomini e dalla vita, come succede nella maggior parte dei casi – nella realtà ben più ottusa e mediocre di questo romanza – alle ragazze simili a lei. Elizabeth ci fa incontrare un’eroina di raggelante sensualità, una sorta di Lolita goth, cerebrale e sarcastica, una sopravvissuta, ammantata del potere e del fascino di chi ha attraversato il tempo, le norme, forse la morte, e sicuramente molte vite, per arrivare oltre, in un certo senso trasfigurata, eppure completamente aderente a ciò che è, al nocciolo più autentico e forte dell’esistenza.
Corpo, umano, Vittorio Lingiard
Se per tanti filosofi del passato vivere significava non avvertire i movimenti della vita, e quindi non accorgerci di tutte quelle piccole e grandi impasse fisiologiche che attraversano il nostro corpo, oggi la consapevolezza di vivere, accorgerci di stare vivendo quanto meno, potremmo dire che si annidi proprio agli estremi: ovvero sentire – e lamentarci – di tutti questi stati imperfetti che ci troviamo ad abitare di minuto in minuto, tanto che per diversi neuroscienziati e filosofi la coscienza starebbe proprio in questo, nel sentire il costante squilibrio dell’esistere. È in questo territorio che si addentra lo psichiatra Vittorio Lingiardi con il suo Corpo, umano, che unisce autobiografia e psicoanalisi, medicina e immaginazione e si snoda in tre parti – il corpo ricordato, il corpo dettagliato, il corpo ritrovato – e in cui sembra riverberare la domanda che Gilles Deleuze rivolge al pensiero di Spinoza: “Cosa può un corpo?”. Lingiardi ausculta corpi, come insiemi di forme e sintomi “mentali”, mostrando come corpo e mente siano un tutt’uno e non due realtà più o meno connesse.
Unendo scienza, arte e letteratura, Lingiardi racconta il corpo in quanto “nostro io, ma anche il primo tu”, prossimo a un laboratorio alchemico capace di generare apparizioni e intuizioni infinite: anatomico, fisiopatologico, sociale, politico, religioso, estetico, spoglio, vestito, danzante, energico, stanco, innamorato, spaventato, dissociato, dolente. Emerge forte e chiara la domanda su come connettersi a questo corpo, precipitarci, come viverlo, come entrarci in relazione, come sentirlo soggetto e non oggetto di una mente dissociata, nevrotica, sradicata appunto, la risposta sicuramente valida che sembra darci questo libro è attraverso il linguaggio, il racconto, la nostra stessa narrazione, che ricuce percezione e immagine, ricordo e presente, struttura, impulso e sovrastruttura. Noi siamo il nostro corpo, eppure ci convinciamo, tutto intorno a noi ci spinge a farlo, di non esserlo, di essere qualcos’altro. Dunque lo abitiamo distrattamente, come turisti di passaggio. Così Lingiardi lo ascolta, gli rivolge attenzione, un organo alla volta, come in una sorta di body scan, una meditazione contemporanea, in cui diciamo alla pelle, al fegato, ai polmoni, al timpano, al cuore e così via: parla, hai tutto il tempo che vuoi, io ti ascolto.
Il capitale nell’Antropocene, Saito Kohei
“Avete comprato la vostra sporta riutilizzabile per usare meno sacchetti della spesa? Andate in giro con la vostra borraccia personale per non dover comprare bevande in bottiglie di plastica? Adesso ce l’avete, una vettura elettrica?” scrive il filosofo marxista Saito Kohei nella prefazione del saggio Il capitale nell’Antropocene, recentemente tradotto in italiano. “Diciamolo chiaramente. Tutte queste buone intenzioni non portano a niente”, continua, tranchant. Il presupposto del caso editoriale giapponese, pubblicato in lingua originale nel 2020, è infatti questo: il capitalismo non sarà mai in grado di offrire soluzioni adeguate alla crisi ecologica globale. Dobbiamo rassegnarci e trovare nuove strade: la borraccia è soltanto un modo per placarci la coscienza mentre continuiamo a vivere in un sistema economico iniquo e insostenibile.
Il tomo, di circa 300 pagine, è una lunga e dettagliata argomentazione a favore della tesi di Saito Kohei, che accosta i fatti alle idee, dandoci alcune delle risposte che cercavamo sul futuro dell’umanità e del pianeta. Secondo il filosofo, il modello attuale, definito dell’imperialismo ecologico, non fa che aggravare una situazione che si sta dimostrando ogni giorno più disastrosa. Un ritorno a Marx in un’ottica ecologica, scrive Saito, è uno dei pochi modi che abbiamo per sfidare lo status quo: un paradigma basato sul comunismo della decrescita, un approccio che rifiuti l’idea di crescita infinita e si concentri su un rapporto più sostenibile con l’ambiente e la società.
Bisogna riscoprire, insomma, quella che Karl Marx definiva “la relazione metabolica tra uomo e natura”, ovvero l’elemento che, attraverso il lavoro, differenzia gli esseri umani dagli altri animali. Una relazione armonica che il sistema capitalista ha distrutto in nome di un veloce guadagno.