A inizio ottobre è arrivato nelle sale italiane quello che all’estero è stato acclamato come la nuova pietra miliare della cinematografia sulla storia della lotta all’HIV e quindi anche su una delle pagine più intense e drammatiche della storia della comunità gay occidentale. 120 Battiti al Minuto – l’ultimo film di Robert Campillo, vincitore del Grand Prix a Cannes – avrebbe dovuto sensibilizzare e toccare i cuori della comunità LGBT nostrana, rinvigorire il senso di appartenenza e rilanciare il dibattito sui temi della prevenzione e della lotta allo stigma, e invece in Italia non se l’è visto nessuno, o quasi. 66.998 euro l’incasso del film nei primi quattro giorni di programmazione, 10.299 spettatori paganti, 18° posto complessivo al botteghino, quando in Francia solo il primo giorno in sala, a fine agosto, il film aveva sfiorato i 200mila euro con il primato al box office e quasi il triplo degli incassi dopo un mese di programmazione. Se n’è parlato abbastanza perché la casa di distribuzione italiana Teodora abbia attirato su di sé non poche polemiche con un tweet di accuse alla comunità LGBT italiana: “Fiasco in Italia per #120BattitiAlMinuto che nel mondo riempie le sale: e anche la comunità LGBT diserta il film. Ve lo meritate Adinolfi”.
Un episodio recente e emblematico, liquidato abbastanza velocemente dai commentatori tra tentativi di dirottamento dell’attenzione – “è stato poco distribuito”, “il film è lento”, si è letto spesso nei commenti – e piccole manifestazioni di rammarico. Un episodio emblematico non solo del nostro solito, rinomato provincialismo, e del fatto che sappiamo spesso fare la differenza, dimostrando che delle cose belle e importanti sappiamo fregarcene alla grande, ma anche e soprattutto dell’esplicitazione di un orientamento generale di cui non si parla abbastanza. Credo lo si possa dire con una certa serenità: la comunità LGBT non esiste. Sicuramente non in Italia. Esistono certo le persone L, quelle G, B e T, ma l’idea di “comunità” è un costrutto artificiale utile più che altro dall’esterno, per comunicare, fare profitto, smuovere voti o, all’occasione, portare gente in sala.
Innanzitutto va precisato che l’acronimo LGBT – che si trova scritto variabilmente anche come LGBTI o LGBTQI o LGBT+ – indica e riunisce donne lesbiche, uomini gay, persone bisessuali, transessuali e transgender, gli intersessuali e poi un gruppo piuttosto nebuloso e affascinante che viene indicato dalla lettera Q: queer ma anche questioning, ovvero “quelli che si interrogano”. La sigla identifica insomma tutte quelle identità che, dal punto di vista del genere e dell’orientamento sessuale, vengono definite come “altre”. Tutti quelli che, secondo il punto di vista binario ed eteronormativo, sono considerati “diversi”. Un gruppo, o una “comunità” appunto, ricavata come calco al negativo dal gruppo maggioritario e predominante degli eterosessuali (e dei cisgender, ovvero di chi si riconosce nel suo corpo biologico).
Quindi, da una parte abbiamo questo scenario ideale-teorico, dall’altra invece la realtà, ovvero i comportamenti, le parole e i gesti delle persone in carne e ossa. E questa realtà è fatta spesso di tensioni e ostilità, sotterranee o esplicite. Tra gay e lesbiche, ad esempio, c’è un’antipatia, diciamo “epidermica”. Locali, circoli e associazioni sono perlopiù separati. All’interno della comunità dei maschi gay, poi, stereotipi e omofobia interiorizzata vanno alla grande. I bisex di fatto ricevono dai gay lo stesso trattamento che subiscono dalle persone eterosessuali: non vengono creduti – “è una fase” – o offesi – “va con tutti, gli/le basta scopare”. Le persone transessuali e transgender sono scarsamente considerate, se non isolate, e di intersessualità si parla al massimo in qualche articolo random, ogni tanto, che cerca di spiegare cos’è questa strana cosa che inquieta un po’ tutti senza esclusione di colpi. Per non parlare poi della questione HIV/AIDS – forse uno dei temi che più di ogni altro in passato ha generato solidarietà tra le persone LGBT: le app gay per incontri sono tutt’ora piene di messaggi discriminatori e offensivi verso le persone sieropositive, al punto tale che chi scopre di aver contratto il virus ancora oggi nasconde accuratamente la propria condizione. Di HIV, se ci si cura, non si muore più, ma i sieropositivi che non parlano della propria condizione sanno bene che a morire potrebbe essere, ad esempio, la loro vita sentimentale e/o sessuale.
Sia chiaro: la divisione tra persone LGBT non è certo un’invenzione delle persone LGBT stesse. Arriva da lontano ed è figlia soprattutto della cultura patriarcale. Sono il maschilismo e il sessismo imperanti a dividere e separare: i gay effemminati vengono derisi e stigmatizzati da quelli che non si ritengono effemminati (anche se poi magari lo sono eccome, ma hanno semplicemente un fisico più robusto e una barba più folta), e i gay passivi portano una specie di marchio di inferiorità rispetto ai gay attivi; le lesbiche suscitano l’antipatia dei gay perché donne poco femminili e le persone transgender destabilizzano a prescindere, risultando la vera minoranza nella minoranza, ancora oggi bersagliate, nel linguaggio comune degli altri membri della “comunità”, da tutto un repertorio di offese e sfottò, che le riconduce sempre alla parodia e al mondo della prostituzione. Ovviamente rapporti singoli di amicizia esistono, ma il punto è proprio questo: la “comunità” LGBT si riduce perlopiù a rapporti individuali di interesse/disinteresse, all’interno dei quali circolano, più o meno indisturbate, omofobia e discriminazione. Un forte legame che intercorre tra persone omosessuali è, ad esempio, quello dettato dell’interesse sessuale ed è proprio l’interesse sessuale che spesso legittima l’ostilità: “Se a me le checche fanno schifo non è colpa mia”.
Più che legami di solidarietà e comunità, tra quelle lettere che formano la sigla LGBT, e anche all’interno dei singoli sottogruppi, se non siamo al tutti-contro-tutti davvero poco ci manca. Certo, esiste il mondo delle associazioni – dove ci sono alcuni militanti che manifestano i loro ideali e il loro impegno, accanto ad altri che, di fatto, le sfruttano per la carriera politica – ma le associazioni LGBT sono storicamente poco frequentate dalle persone LGBT. E anzi, nelle conversazioni tra persone omosessuali, la parola “Arcigay” si porta dietro oggi, in molti contesti, un non so che di sorpassato e ideologico. E forse non immotivatamente: molti militanti maturano infatti una certa rigidità paternalistica che spesso dà vita a micro comunità di nicchia che poco dialogano con l’esterno. “Le associazioni hanno sempre fatto poco e niente”, si sente dire abbastanza di frequente, e non importa se chi lo dice magari non ha mai messo piede in un’associazione. L’attivismo spetta agli altri, e chi non lo fa ritiene comunque di poter giudicare. Una dinamica di questo tipo è stata pubblicamente incarnata di recente da Gianna Nannini: la cantante ha dichiarato in alcune interviste di essersi trasferita in Inghilterra con la sua compagna per poter crescere la figlia in un luogo più “friendly”. Giustamente sui social, e non solo, in molti hanno fatto notare come la stessa Nannini, per decenni trincerata dietro il diritto alla privacy, non sia stata esattamente una paladina dei diritti civili. Il suo coming out è arrivato solo di recente e in tanti l’hanno ritenuto un frutto (tardivo) del mero interesse. Come a dire: bene, vero, l’Italia fa schifo, ma finora tu dove sei stata?
Nell’ultimo anno e mezzo ho lavorato a un magazine dedicato alla comunità gay, o LGBT che dir si voglia, ed è stata un’esperienza abbastanza rivelatrice. La maggior parte delle persone LGBT ha un rapporto conflittuale con le dinamiche di comunità: oggi che una certa tranquillità, almeno in parte, è stata raggiunta, molti vogliono più che altro liberarsi dalle briglie identitarie e lo fanno col disinteresse, ma anche con posizioni giudicanti e perfino reazionarie (tipico il caso di quei gay che stigmatizzano i presunti eccessi dei Pride o che tacciano le denunce di omofobia di “vittimismo”). Insomma, pare che quel po’ di diritti e visibilità in più vengano usati più che altro per rinnegare un’appartenenza, per rifiutare l’omologazione in nome della grande passione contemporanea: l’autopromozione, la rivendicazione della propria singolarità, il culto della propria unicità. Prendere le distanze dalle persone che condividono il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere è di fatto un modo per esistere di più: “non sono quello”, ovvero “non sono solo quello”, “non voglio essere ricondotto – ovvero ridotto – al gay o alla lesbica di turno”.
La comunità LGBT è un dispositivo teorico e retorico che funziona benissimo dall’esterno: ci impacchetta in un insieme ordinato e circoscritto con una mossa utile per i proclami politici e le operazioni di marketing. Ma la parola “comunità” stona decisamente con la natura reale dei rapporti che le persone LGBT intrattengono tra di loro: queste hanno in comune il fatto di essere (o di esser state) discriminate, ma spesso davvero nient’altro. Ovviamente non significa che tra le persone LGBT ci siano solo ostilità. La “comunità LGBT” esiste però soprattutto nella narrazione pubblica, condivisa, è fatta per lo sguardo eterosessuale, quello che ci deve accettare, e in quella narrazione quelle ostilità non vengono sufficientemente rappresentate. Probabilmente perché non fa comodo, non è utile alla causa: diffonde un’immagine poco edificante. È davvero così? Il rischio è autentico? Non lo so, ma credo che sia sano parlarne, perché è sempre negli spazi di silenzio che avvengono le cose peggiori. Ci sono ingiustizie che non sanno che farsene degli acronimi e delle etichette.