Ci sono molte scene tratte da film di Nanni Moretti che sono divertenti da citare, da riguardare all’infinito su YouTube o da utilizzare come reaction per qualche diatriba sui social – i famosi “D’Alema, di’ una cosa di sinistra” o “Continuiamo così, facciamoci del male”, giusto per citarne un paio. Tra tutte le più famose e spendibili una mi ha sempre fatto ridere in modo particolare, ed è quella tratta dal suo primo lungometraggio del 1976, Io sono un autarchico: nella scena in questione si vede il regista che parla sul balcone con Fabio Traversa, uno dei volti ricorrenti nei film di Moretti, che gli annuncia l’assegnazione della cattedra di cinema dell’università di Berkley a Lina Wertmüller, con commenti come “Vedrai che il cinema italiano finalmente ha trovato il suo alfiere”. Mentre Traversa elenca i film della regista romana, Moretti è incredulo al punto di esplodere in un rigurgito bluastro non appena viene citato Pasqualino Settebellezze, disgustato dall’idea che Wertmüller diventi il simbolo del cinema italiano all’estero.
Al di là della scena in particolare che fa ridere – se fa ridere – per la sua esagerazione paradossale, la querelle tra Moretti, portavoce di un approccio al cinema che prende le distanza da quello di Wertmüller, continua anche anni dopo l’uscita di Io sono un autarchico, ed è interessante perché non si limita a un’antipatia tra i due cineasti, ma riassume il ruolo controverso di questa regista nella storia del nostro cinema. È una scena che incarna la polarizzazione dell’arte negli anni in cui in Italia si faceva talmente tanto cinema da potersi permettere schieramenti ideologici, estetici e stilistici al suo interno. Se da un certo punto di vista sembra un peccato essersi lasciati alle spalle – o non averli mai vissuti, come nel mio caso – gli anni d’oro della cinematografia italiana, dall’altro poterne parlare ora in termini retrospettivi ha i suoi lati positivi. Siamo abbastanza lontani nel tempo da poter guardare sia i film di Moretti che quelli di Wertmüller senza il dovere di schierarsi da un lato o da un altro, specialmente in questo momento in cui alla regista verrà consegnato un Oscar alla carriera.
Quando un Moretti agli esordi sputa bile blu al solo sentire nominare Pasqualino Settebellezze – ricordando in parte l’insolenza di suoi scontri con altri grandi registi italiani come Mario Monicelli – o Goffredo Fofi la definisce “artista dell’era di Craxi”, imputandole malefatte morali e artistiche a cui lei risponde con una querela, diventa evidente il fastidio e la disapprovazione di cui è stata oggetto Wertmüller nel corso della sua carriera. La storia di questa regista romana è molto legata non solo al cinema che ha fatto, ma anche a una serie di coincidenze professionali e biografiche che la rendono particolare. Forse proprio l’essere una donna regista con un carattere e una personalità così forti – oltre che uno stile peculiare, che piaccia o meno – è stata la caratteristica che Wertmüller ha sempre provato a mettere in secondo piano, ma che l’ha resa il soggetto di così tanti dibattiti. Wertmüller non è estranea al mondo degli Oscar, considerato che era già stata candidata a tre premi nel 1976 per Pasqualino Settebellezze, prima donna nella storia dell’Academy a essere nominata come miglior regista. Eppure, di questo suo grande merito che oggi tocca un tema sensibile e molto presente come quello dell’inclusività non tutte le donne hanno gioito, né lei ne ha mai parlato come se si trattasse di un traguardo da sottolineare per via del suo sesso.
La particolarità di questa regista infatti è che se da un lato incarna il modello di una certa emancipazione femminile, di una donna che ha affrontato un mestiere e un mondo decisamente ostile nei confronti del “sesso debole”, dall’altro ha spesso attirato le critiche delle femministe. Per lei che femminista in senso ortodosso non è mai stata, non esistono film fatti da donne, ma quelli fatti da persone, dove il sesso del regista è solo un dettaglio. A questo proposito, viene da chiedersi se la regista non abbia semplicemente avuto la capacità di adattarsi a una struttura maschile, adottandone forme e contenuti, ritenendo che non ci sia bisogno di sottolineare il fatto essere una donna. Oppure se proprio il suo disinteresse rispetto a ciò che è femminile e maschile non abbia dato vita a un cinema privo di disparità, “fluido”, senza necessariamente doversi caratterizzare verso un sesso, ma con il merito di saperli raccontare entrambi. Dopo millenni di repressione e sottomissione, si può contestare che prima della parità bisogna scardinare i modelli patriarcali dominanti piuttosto che adattarsi al male gaze tipico di tutto il cinema mondiale, ma non si può neanche negare quanto anche questa intenzione rischia nei fatti di intaccare la qualità di un’opera d’arte che è volta solo a contrapporsi. Questo non è successo nelle opere di Wertmüller, che sembrano libere da questa schematizzazione.
Forse è proprio la libertà del suo cinema che mette a disagio su più fronti, sia quello moralista della censura, sia quello femminista, sia quello politico militante. Mettere in scena certi temi poteva toccare diversi nervi scoperti in un periodo in cui il dibattito pubblico sull’arte era molto acceso. C’è anche da dire che negli Stati Uniti è sempre piaciuto molto questo suo stile grottesco, di stampo più felliniano che legato alla tradizione della commedia all’italiana – Wertmüller è stata aiuto regista di Fellini sia in 8 e ½ che in La dolce vita – così carico e denso di stereotipi portati alla massima espressione, come maschere quasi archetipiche del costume italiano. Il successo oltreoceano l’ha resa una regista di culto più per i cinefili statunitensi che per quelli europei, cosa che di fatto spiega e legittima il suo Oscar alla carriera. Quello che in Italia infastidiva di Wertmüller, per gli americani era invece un motivo di apprezzamento. Se da noi veniva accusata, ad esempio, di rappresentare in modo caricaturale e falsato i conflitti di classe, ridicolizzando il proletariato, negli Stati Uniti era invece proprio questa versione macchiettistica della nostra società ad attirare attenzione. Per quanto riguarda gli attacchi delle femministe, invece, furono più severi proprio oltreoceano, come nel caso della critica del New Yorker Pauline Kael, che ne disapprovava con forza il cinema.
A guardare uno dei suoi film più famosi e riusciti, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, si capiscono non solo le ragioni che hanno spinto il dibattito su questa regista a una forte contrapposizione di giudizio, ma si trovano anche tutti gli elementi che nel bene e nel male ne hanno caratterizzato uno stile preciso e un modo di rappresentare che di fatto rimane una sua peculiarità. A partire proprio dal titolo, un’infinita sequela di parole che tutto sembra tranne che fatta per essere ricordata, alla presenza della coppia per eccellenza del cinema di Wertmüller, Mariangela Melato e Giancarlo Giannini (una sorta di “musa” per Wertmüller) fino al conflitto non solo tra Nord e Sud Italia, ma anche tra borghesia e proletariato che le due parti della penisola incarnano. A parte la famosa battuta con cui il marinaio Giannini descrive la ricca protagonista per la sua facilità di costumi tanto disinvolta da essere definita “bottana industriale”, e la bellezza della coppia Giannini-Melato sullo schermo, il film ha anche una sua complessità contenutistica interessante.
Un grande merito di Wertmüller è mettere in scena con disinvoltura comica non solo il capovolgimento di ruoli sociali ben definiti come quello del servo e della padrona – densi di tutto quel razzismo tra il Nord colto e ricco e il Sud povero e cafone – e il suo fallimento finale con il ritorno cinico e disilluso alle posizioni di partenza, ma anche il rapporto tra uomo e donna e la questione della violenza. Nel film la protagonista si ritrova a provare piacere nella brutalità, ad amare il suo ruolo di sottomissione, creando un cortocircuito tra la sua indole primordiale domata dall’attitudine pragmatica del “Signor Carunchio” e quella della sovrastruttura sociale da cui proviene. Si può analizzare questo schema come una rilettura della sindrome di Stoccolma, oppure come una piccola lotta di classe – poi fallita – in cui i due sessi sono solo simbolici, ma non davvero determinanti, o si può tenere conto di un aspetto della sessualità femminile che coinvolge anche questo lato più remissivo, piacevolmente succube.
Non sono difficili da trovare i motivi per cui il cinema di Lina Wertmüller abbia generato negli anni tutte queste discussioni, considerato il modo in cui la regista gioca nei suoi film più famosi e anche più belli – Mimì metallurgico ferito nell’onore e Pasqualino Settebellezze – con questi stereotipi, queste immagini così italiche tanto apprezzate dagli spettatori statunitensi. A distanza di quarant’anni dall’uscita delle sue opere più importanti è interessante non solo riguardarle per capire cosa la rende meritevole di un Oscar alla carriera, ma anche per esplorare tutti i temi che tocca e che hanno generato critiche e apprezzamenti. Che lei si definisca o meno una femminista, che il suo cinema abbia dato voce alle classi subalterne bene o male, che la sua rappresentazione degli stereotipi italiani abbia contribuito ad accrescerli o meno, bisogna riconoscere che un cinema in grado di stimolare tanto dibattito non può che essere un cinema che vale la pena conoscere. Si può anche reagire con un conato di vomito blu, come Nanni Moretti su quel balcone, ma intanto avuto una reazione. A cosa serve l’arte se non a questo?