Da quando sono nati i social network, la gente si affanna a cercare la giusta didascalia per ogni foto, come se un’immagine dovesse essere per forza associata a un pensiero profondo anche nel caso di un piatto d’insalata o di un selfie sfocato. Senza un apparente motivo, in questo contesto, come scrittore sfruttato per incorniciare un’istantanea social con una frase strappalike spesso viene scelto Charles Bukowski. Per chi conosce le sue opere, appare ironico che proprio lui abbia assunto il ruolo di “penna da Bacio Perugina”, ottima per impreziosire fotografie di tramonti, galvanizzare il no-pain-no-gain dei palestrati o rendere più lirico il primo piano di un culo. Così, gli è stata appioppata la nomea di poeta dell’amore – proprio a colui che ha scritto che l’amore è un cane che viene dall’inferno – ed è stato reso un docile cantore delle nobili emozioni.
C’è, per esempio, una sua frase che gira molto sui social: “Io dico alle donne che la mia faccia è la mia esperienza e le mani sono la mia anima”. In realtà è un pezzo estrapolato dall’opera Taccuino di un vecchio sporcaccione e la versione completa recita: “Io dico alle donne che la mia faccia è la mia esperienza e le mie mani sono la mia anima. Qualunque cosa, pur di tirare giù quelle mutandine”. Omettere la parte finale di questo componimento significa travisare il vero Bukowski e crearne uno edulcorato, utile per l’omologazione da didascalia. D’accordo, spesso chi utilizza le sue frasi non ne conosce molto di più e davanti a una sua immagine forse lo confonderebbe con Nino Frassica, ma la discrepanza tra le opere di Bukowski e la sua versione percepita sui social è talmente paradossale che potrebbe essere superata solo da un Baudelaire poeta della felicità e da un Proust maestro della sintesi.
È lo stesso Bukowski a fugare ogni dubbio nelle sue opere – pochi romanzi, vagonate di racconti e poesie – attraverso il suo alter ego Henry Chinaski: fondamentalmente – parole sue – un erotomane ubriacone, che si sarebbe giocato pure la madre alle corse dei cavalli. Forse è un semplicismo che rientra nel suo stile sardonico, spesso fuori dalle righe, ma la descrizione in effetti si avvicina parecchio alla realtà. Sotto questa coltre di lassismo si nascondeva però uno scrittore profondissimo, capace di raccontare l’essere umano nudo e crudo come pochi avevano fatto prima di lui. Non a caso, tra i suoi scrittori di riferimento spiccano Louis-Ferdinand Céline, John Fante e Henry Miller, non di certo dei conformisti alla ricerca della limpidezza. Bukowski, infatti, raschiava la ruggine, bramava la sporcizia dell’esistenza, tenendosi alla larga da qualsiasi espediente legato alla retorica. È un peccato quindi che oggi la sua immagine sia stata ripulita – e quindi disintegrata – dai social, proprio perché il suo tratto caratteristico era l’asprezza di chi la vita l’ha vissuta “tra ospedali e galere e puttane”. Scrisse anche: “Se mai dovessi parlare di amore e di stelle, uccidetemi”. Se oggi il caro Hank aprisse la home di Instagram, deciderebbe di morire per la seconda volta.
Lui stesso giocava su questi temi sfondando la quarta parete e spiegando al lettore certi trucchi del mestiere, dissacrando se stesso e i suoi colleghi. Non a caso intitolò una sua raccolta di racconti Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze – e c’è un fondo di verità in questo, considerando la sua travagliata vita sentimentale e certi pensieri quantomeno problematici che aveva sulle donne. Chi usa Bukowski sui social come portale verso l’amore assoluto, probabilmente si stupirebbe se leggesse la frase, comunque notissima, “L’amore non esiste: è un miraggio, una favola, come il Natale”, e ancor di più se scoprisse di condividere le stesse perle di saggezza di chi ha scritto “Continuo a ripetermi che non tutte le donne sono puttane; lo sono solo le mie”. Bukowski è colui che scrisse anche: “Quello che mi trattiene dal violentare ragazzine di undici anni è il buon senso sociale, oltre alla possibilità di essere arrestato”. Un’aberrazione che oggi, giustamente, viene concepita come tale, ma che non stupisce i lettori di Bukowski. Nelle sue parole c’era una brutalità che non cerca assoluzioni, e anche la più infelice delle sue frasi veniva smembrata per essere possibilmente rinnegata dopo due pagine, senza comunque smarrire il senso abominevole del concetto che aveva espresso, senza filtri sociali o etici. L’uso dell’alter ego, inoltre, gli serviva per trattare i temi più marci della coscienza umana – non per forza della sua! – e le meschinità dei nostri tempi. Quando consiglia ai giovani scrittori di “bere, scopare e fumare un mucchio di sigarette”, non lo fa per ergersi a ribelle o a cattivo esempio nichilista, ma perché in tutte le sue opere è lui stesso il vero bersaglio, il soggetto da schernire e ripudiare.
Tutta la sua carriera letteraria non è altro che una lunga sessione di autoanalisi in cui si dipinge come un vecchio alla deriva, devastato dai vizi e dalla disillusione. Ci sono i tratti di un’infanzia segnata dalle cinghiate del padre e da un nome tedesco (Heinrich Karl) che non gli si cuciva addosso quando la famiglia emigrò dalla Germania negli Stati Uniti. Bukowski, infatti, è stato lo scrittore dai molteplici nomi, come a voler ricercare se stesso senza trovarsi mai. Heinrich Karl diventato Henry Charles, poi Hank per gli amici, Henry Chinaski nelle sue opere: è un percorso verso un’identità mai definita, soffocata dai dolori fisici e mentali, o dai tentativi di emancipazione per non omologarsi alla massa, come quando, durante il college, stanco delle prediche patriottiche, finse di essere un nazista. Non lo era e non gli importava nulla di Hitler, voleva solo indispettire gli altri. Anzi, la guerra la detestava proprio: nel 1944 fu arrestato dagli agenti dell’FBI per renitenza alla leva. Ben presto, però, la sua emancipazione divenne un’emarginazione e prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura fece i lavori più umili vivendo ai margini della società. L’alienazione di un ufficio postale, i soldi che non bastavano mai, la compagnia di reietti e derelitti: già covava le storie che poi avrebbe raccontato e che inevitabilmente si sarebbero ricollegate a un realismo a tratti malsano, putrido, e proprio per questo di una lucidità disarmante, perché sincero.
Il fenomeno del citazionismo decontestualizzato non riguarda solo Bukowski, ovviamente. È dall’avvento di Internet che ogni citazione viene data per scontata, soprattutto se messa sotto l’immagine del suo presunto autore. Da almeno vent’anni gira sul web una frase attribuita a Sandro Pertini: “Quando il governo non fa ciò che vuole il popolo, va cacciato via anche con mazze e pietre”. È stata condivisa da utenti di ogni fazione politica: dalla sinistra per omaggiare un proprio idolo, dai Cinque Stelle durante la loro stagione da ribelli d’opposizione e persino dalla destra, come tributo a un degno avversario. Il problema è che Pertini non ha mai pronunciato quella frase. Rientra a tutti gli effetti nella categoria delle citazioni diventate celebri senza essere mai state pronunciate. Per Bukowski, invece, la questione è diversa: le citazioni che vengono usate a suo nome sono tutte reali, ma tagliuzzate da un contesto più esteso. Quasi a prevederlo, lui stesso scriveva: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un libro, quel che gli serve e trascurano il resto”. Per rimarcare il concetto, dimostrando una certa lungimiranza sul suo stesso destino, scrisse anche: “Il guaio di ogni aforisma è che può facilmente diventare una mezza verità, una fregnaccia, una bugia o un appassito luogo comune”. E nel suo caso è stato proprio così.
Anche altri personaggi sono stati snaturati dalle narrazioni social attraverso l’accetta del citazionismo, fino a rasentare il revisionismo storico. Per esempio, Galileo Galilei non ha mai pronunciato la frase “Eppur si muove”, e Arthur Conan Doyle non ha mai fatto dire a Sherlock Holmes “Elementare, Watson!”. Eppure sono le prime parole che ci balzano in mente se pensiamo a loro. Per le citazioni vere, invece, il processo è più complesso. Il citazionismo esiste da prima di internet, e veniva usato principalmente per darsi un tono durante le conversazioni, lasciando intendere un certo livello di cultura mettendosi in bocca le parole degli altri. Con l’avvento dei social, però, è cambiata la sua funzione e le frasi vengono inserite non come vanto di una conoscenza letteraria o artistica, bensì come addendum a immagini o post che spesso non hanno nulla a che fare con le parole in questione. Prendere in prestito solo una parte di un’opera spesso equivale a una mutilazione, come se da Amore e Psiche di Canova segassimo un’ala e occultassimo il resto. Allo stesso modo, sarebbe limitante prendere un singolo verso di una poesia di Wislawa Szymborska e appiccicarlo virtualmente sotto alla foto del proprio cane, quando magari i versi successivi virano su una riflessione sulla desolazione e la malinconia.
Sarebbe dunque bello se oggi Bukowski venisse riscoperto sotto un’altra luce, quella reale delle sue opere, e non sotto quella di plastica dei social, dove appare con un candore che non gli è mai appartenuto. Internet può riabilitare un personaggio, distruggerlo, ricostruirlo, plasmarlo a suo piacimento seguendo gli umori della piazza virtuale, di un passaparola che quando parte non si può placare. E così Pertini sarà sempre il politico delle mazze e delle pietre, Jim Morrison il cantante a cui attribuiscono anche la ricetta della pasta col tonno e Bukowski l’uomo delle didascalie sdolcinate. Se proprio vogliamo creare il prototipo dello scrittore un po’ saggio e “melenso” buttiamoci piuttosto sul Paulo Coelho di turno; lasciamo che Bukowski resti uno dei più talentuosi disadattati dell’ultimo mezzo secolo, liberandolo dalla condanna del citazionismo da foto al tramonto.