Il 30 settembre 1975, alle 22:50, un metronotte sente delle urla provenire dal bagagliaio di una Fiat 127, in via Pola, nel quartiere Trieste di Roma. Poco dopo intervengono i carabinieri, che forzano l’auto e si trovano davanti una scena raccapricciante: una ragazza insanguinata chiede disperatamente aiuto e, accanto a lei, giace il corpo di un’altra giovane donna, ormai morta. Sono vittime di quello che passerà alla storia come il massacro del Circeo. Tre ragazzi della “Roma bene”, Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, avevano invitato Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, originarie del quartiere popolare della Montagnola, nella villa di proprietà della famiglia di Ghira, nel comune di San Felice al Circeo, e per due interminabili giorni le avevano seviziate, torturate e abusate. Lopez muore a causa delle violenze, Colasanti si salva solo perché si finge morta. Il caso sconvolge tutta l’Italia, e l’opinione pubblica andrà avanti a parlarne per mesi. La sua eco è così dirompente che anche i più grandi intellettuali si inseriscono nel dibattito, interrogandosi sul significato politico e sociale di un episodio così aberrante.
Uno dei primi commenti illustri è quello di Italo Calvino, che nell’ottobre 1975 scrive sul Corriere della Sera: “Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta […] si presentano con la sguaiataggine truculenta delle bravate da caffè, con la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è stato sempre facile”. Poco tempo dopo, Pier Paolo Pasolini si inserisce nel dibattito scrivendo sulla rivista Il Mondo una furente lettera indirizzata proprio a Calvino, dal titolo inequivocabilmente accusatorio: “Tu dici”. Il letterato friulano accusa il suo collega di aver commentato quell’atroce massacro partendo da presupposti non condivisibili, come il concetto stesso di borghesia: “Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione perché sono borghesi, la loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale perché la loro classe sociale lo pretende”.
Pasolini coglie quindi l’occasione per rimarcare un pensiero già espresso più volte. Ritiene che i moderni metodi di produzione abbiano distrutto le culture precedenti: non esistono più la borghesia tradizionale e le culture popolari, esiste un unico modello di valori a cui ambiscono tutti, ricchi e poveri. Calvino, invece, vede rappresentato nel calvario subìto dalle due giovani ragazze una feroce riproposizione della lotta di classe, dove i figli del padrone schiacciano senza alcuna pietà le loro coetanee, che hanno avuto la sola sfortuna di nascere in un contesto diverso.
Quello appena narrato è l’ultimo degli scontri tra Calvino e Pasolini in quanto il primo non avrà mai il tempo di rispondere alle accuse dell’intellettuale friulano: nella notte tra l’1 e il 2 novembre di quello stesso anno Pasolini verrà ucciso brutalmente sul litorale dell’Idroscalo di Ostia.
Prima di questo tragico epilogo, le diatribe tra i due autori hanno nutrito il dibattito culturale del Paese dalle colonne dei giornali più rinomati. Le dispute appassionavano i lettori perché i due intellettuali, sebbene avessero molte cose in comune – entrambi antifascisti e militanti nelle fila del Pci – coniugavano i loro principi in modi diametralmente opposti.
Pasolini era irrequieto ed eclettico e queste sue caratteristiche si riflettevano nei diversi mezzi con cui si esprimeva – la prosa, la poesia, il teatro, il cinema – e anche nel linguaggio diretto e senza filtri che aveva scelto di adottare. La vita privata dell’autore friulano irrompeva nella poetica delle sue opere, che si trasformavano spesso in manifesti politici. Calvino era invece un maestro nell’arte della prosa, dominava con leggerezza uno stile impeccabile mai fine a se stesso: “La mia fiducia nella letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”, scrisse. Ligure di origini ma nato a Cuba, Calvino si autodefiniva “un topo di biblioteca”, come scrisse in una lettera indirizzata proprio a Pasolini. Lo scrittore di Santiago interpretava perlopiù la letteratura come un rifugio in cui sperimentare variazioni stilistiche, ed era affascinato da una visione scientifica del mondo. Dagli anni Sessanta aderì infatti alla corrente della narrativa combinatoria, la quale prevedeva che le opere venissero strutturate in base a scelte rigidamente razionali: “Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita”, scriveva “e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura”.
Oltre che dalle differenze stilistiche, parte delle incomprensioni tra i due autori riguardavano anche le loro divergenti visioni sul ruolo degli intellettuali: un dibattito importante in quegli anni tanto ideologicamente segnati. Calvino accusava Pasolini di aver indugiato troppo nei salotti televisivi per poter sempre dire la sua sugli argomenti di attualità, sacrificando in questo modo le “lente ragioni”. Pasolini in effetti conciliava sovente l’odio feroce per i mass media con l’utilizzo di questi per divulgare il suo pensiero.
Il carteggio tra Pasolini e Calvino però ci permette oggi di costatare una grande stima reciproca tra i due, anche se una serie di ulteriori polemiche nate a cavallo tra il 1973 e il 1974 fecero sì che i loro rapporti si incrinassero e che le loro divergenze si acuissero. Nel 1974 Calvino si insinuò in un solco di attacchi che buona parte dell’intellighenzia di sinistra muoveva nei confronti di Pasolini: esponenti e militanti del Partito comunista e di quello socialista lo accusavano di diffondere, tramite le sue opere, interpretazioni reazionarie e nostalgiche di un passato recente e meno recente.
Il letterato friulano era da pochi anni riconosciuto e apprezzato per il suo lavoro di analisi sul sottoproletariato, era il famoso autore del libro Ragazzi di vita e il celebre regista del film Accattone, due opere che avevano profondamente segnato la cultura italiana del dopoguerra e che avevano permesso al pubblico di approfondire le dinamiche di un mondo perlopiù ignorato dalla piccola borghesia. Fu in quel clima rovente che Calvino, in un’intervista concessa a Il Messaggero, disse: “Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina. Lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire”.
Pasolini, che già nel 1973 aveva scritto: “Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me”, replicò a queste critiche in una lettera dai toni risentiti. Pasolini scrisse di rimpiangere un universo contadino “prenazionale e preindustriale”, il retaggio di una comunità di esseri umani che vivevano con meno dello stretto necessario e a cui non importava nulla dei mutamenti geopolitici: per loro vivere nell’Italia unita, nel Regno delle due Sicilie o nella dittatura fascista non avrebbe fatto differenza, perché tanto il peso del loro lavoro sarebbe rimasto uguale. Pasolini detestava al contrario la società dei consumi, che ammette un’unica classe sociale: quella della borghesia arraffona e ignorante. Secondo il friulano, nelle epoche storiche passate esisteva “Gente povera e vera che si batteva per abbattere il padrone senza diventare quel padrone”.
Più che nostalgia per il passato, Pasolini sembrava sedotto dall’idea di un futuro ancora da costruire, proprio sulla base di alcuni valori immutabili mutuati dai tempi andati. Nonostante le polemiche tra i due, anche Calvino aveva ampiamente indagato gli orrori dell’industrializzazione incontrollata, come nella sua raccolta di novelle Marcovaldo ovvero le stagioni in città. Marcovaldo, impiegato in una fabbrica anonima che ruba tutto il suo tempo, è un uomo in cerca dell’autenticità, delle cose semplici, innocenti, perché è convinto che proprio questa “innocenza” della pura realtà quotidiana sia l’unica soluzione possibile contro l’alienazione da terzo millennio. I due scrittori avevano idee diverse sull’interpretazione del passato, e hanno teorizzato soluzioni differenti su come affrontare il futuro. Erano però entrambi disgustati dal presente.
Sarebbe irrispettoso cercare di assolutizzare il pensiero di questi due giganti della cultura italiana: Calvino e Pasolini erano due autori poliedrici. Identificare Calvino solo come un intellettuale riservato vorrebbe dire ignorare colpevolmente i suoi libri incentrati sui disagi della società industriale come la Giornata dello scrutatore e La nuvola di smog. Pasolini era ateo, omosessuale e comunista, ma amava Cristo e nel 1964 gli dedicò il film Il Vangelo secondo Matteo.
Le loro differenze infiammano tutt’ora gli animi dei loro estimatori – com’è avvenuto in occasione della pubblicazione del pamphlet Pasolini contro Calvino della dottoressa Carla Benedetti – e guidano ancora le scelte degli insegnanti. Noi continuiamo a godere delle loro opere avanguardiste, dato che viviamo nel mondo che avevano sapientemente previsto. Ci tocca però rammaricarci di non aver vissuto in un mondo in cui due dei più grandi letterati che il nostro Paese abbia mai avuto se le davano di santa ragione dalle colonne dei giornali, che li ospitavano perché c’era un pubblico pronto a leggerli. Calvino e Pasolini ci hanno lasciato in eredità due modi diversi di difenderci dall’omologazione imposta dalla società dei consumi: lo studio e la disciplina del primo e la ribellione indomabile del secondo: trovare il coraggio per scegliere è compito nostro.