Quando la scrittrice Harper Lee, nata nel 1926 in una piccola comunità dell’Alabama, decise di parlare della insensatezza del razzismo negli Stati Uniti degli anni Trenta ricorse a un’immagine molto precisa. L’odio e la violenza di molti suoi concittadini verso chi aveva la pelle di un colore diverso non erano solo sbagliate, inopportune, insensate, ma erano frutto di crudeltà e una manifestazione di cattiveria gratuita. La stessa che serve per uccidere un uccellino dalla voce melodiosa come un usignolo. Proprio di usignoli si parla nel titolo originale di uno dei testi chiave della letteratura statunitense, To Kill a Mockingbird, tradotto in italiano con Il buio oltre la siepe. Negli Stati Uniti il libro è un classico che si legge a scuola come in Italia si leggono I Promessi Sposi o Il diario di Anna Frank. Come capita spesso, la traduzione finisce per tradire il significato dell’originale. L’immagine forte del titolo inglese in italiano è sfumata in un concetto che identifica la genesi dell’intolleranza nei confronti di chi è diverso più nell’ignoranza, con la metafora del buio, che nella cattiveria.
Nella sua opera, l’usignolo di Lee è Tom Robinson, accusato ingiustamente di stupro solo perché nero, portato in carcere e ucciso nella sua fuga verso la libertà. Ma creature indifese, metaforicamente, sono anche Jean Louise, detta Scout, e Jeremy Finch, due ragazzi orfani di madre che vengono presi di mira dall’intera comunità di Maycomb solo perché figli di Atticus Finch, l’avvocato che si batte per dimostrare l’innocenza del bracciante considerato da tutti colpevole a prescindere.
Il luogo in cui il romanzo viene ambientato non è una città reale. Maycomb è un luogo inventato, ma è chiaramente ispirato alle piccole comunità dello Stato dell’Alabama dove Lee ha trascorso tutta la sua vita fino al 2016, anno della sua scomparsa all’età di novant’anni. Non a caso la storia, che valse alla scrittrice il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1961, si ispira a un fatto di cronaca passato alla storia come il processo dei ragazzi di Scottsboro.
Nel marzo 1931 nove adolescenti afroamericani furono accusati di aver stuprato due donne bianche a bordo di un treno merci della Southern Railroad, nel nord dell’Alabama. Haywood Patterson, Olen Montgomery, Clarence Norris, Willie Roberson, Andy Wright, Ozzie Powell, Eugene Williams, Charley Weems e Roy Wright stavano cercando lavoro quando furono coinvolti in una rissa a sfondo razziale tra i passeggeri. Tra i presenti si trovavano anche le due prostitute Victoria Price e Ruby Bates, due donne bianche che per evitare l’accusa di vagabondaggio e di attività sessuale illegale dissero di essere state stuprate dai nove ragazzi. Il 9 aprile 1931 otto dei nove giovani furono condannati a morte. Il giudice concesse a Roy Wright, il più giovane del gruppo, l’annullamento del processo a causa dell’età. Questo primo verdetto scatenò le proteste dell’opinione pubblica, portando la Corte Suprema degli Stati Uniti a ribaltare le condanne nel 1932, nel caso Powell v. Alabama. La Corte Suprema chiese e ottenne un nuovo processo facendo leva sul fatto che i nove giovani non avessero un’adeguata rappresentanza legale. Seguirono una serie di processi e riconciliazioni alla fine dei quali i ragazzi di Scottsboro scontarono collettivamente più di 100 anni di carcere. La vicenda legale si protrasse per più di 80 anni e contribuì a rafforzare il movimento per i diritti civili dei neri in Alabama. Harper Lee non si fece scappare l’occasione di ispirarsi alla vicenda nota a livello nazionale.
Il romanzo, uscito nel 1960, ispirò l’altrettanto celebre adattamento cinematografico del 1963 di Robert Mulligan con Gregory Peck nei panni dell’avvocato Finch e diventò subito un manifesto del movimento per i diritti civili e della lotta alla discriminazione razziale prima negli Stati Uniti e poi in Europa. La fortuna dell’opera sta anche negli insegnamenti di alto valore educativo racchiusi tra le sue pagine. Uno su tutti è il discorso che Atticus fa al figlio Jem quando gli spiega che per alcuni valori vale la pena battersi anche se ci si sa già sconfitti in partenza: “Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere in questi casi, ma qualche volta succede”.
A sessant’anni dall’uscita del classico di Lee, il problema dell’odio razziale non è ancora risolto ed è anzi in espansione in tutto il mondo. Le metaforiche siepi sono diventate un muro di acciaio e filo spinato elettrificato, come quello promesso da Donald Trump lungo i 3mila chilometri di confine tra Stati Uniti e Messico. L’argomento con cui l’attuale presidente degli Stati Uniti ha vinto la campagna elettorale è proprio la politica di chiusura tanto verso la comunità internazionale quando verso gli immigrati e le minoranze che già vivono o che tentano di arrivare nel Paese.
Uno dei nuovi volti della discriminazione razziale è diventata la lotta all’immigrazione, con la volontà di delimitare un nuovo confine tra chi è cittadino e chi non lo è, tra chi ha diritti e chi non li ha. L’idea di costruire un muro tra Messico e Stati Uniti è stata riportata in auge dalle promesse elettorali di Donald Trump nel 2016, ma la prima barriera a presidio del confine risale al 1971. Ogni anno 350 milioni di persone lo attraversano legalmente, mentre le stime parlano di almeno 12 che hanno tentato di farlo negli ultimi 25 anni per fuggire da situazioni di violenza e sofferenza. Il governo federale degli Stati Uniti spende ogni anno cifre astronomiche per impedire che questo accada, anche se l’approccio e i fondi stanziati variano molto a seconda della corrente politica della maggioranza presente a Washington. Si stima che dal 2005 a oggi gli Stati Uniti abbiano speso 132 miliardi di dollari per militarizzare e rafforzare la sicurezza del suo confine sud, senza però ottenere risultati efficaci se non l’impennata del numero di migranti morti nel tentativo di arrivare negli Stati Uniti (più di 7mila tra il 1998 e il 2017)
Lo stesso concetto di “proteggersi” dal diverso che ha fatto la fortuna elettorale di Donald Trump va in aperto contrasto con lo ius soli in vigore negli Stati Uniti. Quel diritto che anche un repubblicano di ferro come Ronald Reagan, nel suo ultimo discorso alla nazione del gennaio 1989, ha citato come una delle basi del successo e della potenza statunitense: “Chiunque, da ogni parte del mondo, può venire a vivere in America e diventare un americano. Noi guidiamo il mondo perché siamo gli unici ad attirare qui il nostro popolo, la nostra forza, da ogni Paese e ogni parte del mondo. Così facendo, arricchiamo e rinnoviamo continuamente la nostra nazione […] se dovessimo chiudere le nostre porte ai nuovi americani, perderemmo la nostra leadership globale”.
La supremazia economica statunitense è nata e si basa sulla permeabilità culturale e su quella capacità di farsi contaminare senza eccessive resistenze dai “nuovi americani” che decennio dopo decennio arrivano per vivere nel Paese. Anche la crescita demografica è trainata dalla multiculturalità e dalla mescolanza razziale, tanto che già nel 2020 la maggioranza degli statunitensi con meno di 18 anni non è bianca, mentre tra un decennio questo varrà per la maggioranza degli under 30. Secondo le stime, nel 2050 questa realtà varrà per l’intera popolazione degli Stati Uniti: le cosiddette minoranze, tutte insieme, saranno più degli statunitensi bianchi, anche se questi continueranno a essere da soli il gruppo etnico più numeroso.
Il futuro, insomma, è e non può che essere multirazziale. Lo sarà negli Stati Uniti così come in Europa, nonostante le promesse di alcuni leader mondiali ai loro elettori di arginare un processo che non è possibile fermare. Sarà interessante vedere se chi ha subìto decenni se non secoli di razzismo saprà interrompere questa spirale e non infliggerlo a sua volta alle “nuove minoranze”. La memoria corta degli italiani, popolo di migranti che oggi ha deciso di farsi rappresentare da chi fa della lotta all’immigrazione il suo fiore all’occhiello, non fa ben sperare in questo senso. Per questo è ancora più importante oggi la memoria a lungo termine che sono in grado di trasmetterci arte e letteratura. Ecco perché, a distanza di sessant’anni dalla sua pubblicazione negli Stati Uniti vale ancora la pena rileggere il sempre attuale e toccante capolavoro di Harper Lee.