A pagina 62 del copione appena rimaneggiato per conto della commissione di censura, l’incaricato alla revisione del testo teatrale La governante di Vitaliano Brancati aveva apposto un post-it riferito a una sezione in particolare del secondo atto. Nella terza scena, l’autore siciliano sfogava infatti tutta la sua frustrazione per dover sottostare al filtro castrante della censura mettendo in bocca al personaggio dello scrittore/alter-ego Alessandro la seguente riflessione: “La moralità italiana consiste tutta nell’istituire la censura. Non solo non vogliono leggere o andare a teatro, ma vogliono essere sicuri che nelle commedie che non vedono e nei libri che non leggono non ci sia nessuna delle cose che essi fanno e dicono tutto il giorno.” Sotto la battuta, scritto sul foglietto adesivo, il commento di chi si occupava proprio di far funzionare il meccanismo illustrato nelle parole di Brancati era breve e quasi impersonale: “Non sembra opportuno tagliare questo pezzo, quasi accusando il colpo”. L’autore di Don Giovanni in Sicilia minacciava infatti di creare un dibattito pubblico sui meccanismi censori e sul potere che li gestiva e bisognava stare attenti a non dargli opportunità di recriminare.
Vitaliano Brancati era stato costretto a sottoporre per la prima volta la sua opera teatrale alla commissione di censura il 14 dicembre 1951. A presiedere la commissione c’era l’avvocato Nicola De Pirro, che già aveva svolto lo stesso lavoro in epoca fascista ed era tornato al suo posto dopo un paio d’anni e una rapida quanto funzionale abiura del passato. Nel caso de La governante, De Pirro si trovava a dover giudicare un lavoro dalla trama piuttosto semplice in cui tornavano alcuni temi cari a Brancati.
La pièce è incentrata su una famiglia borghese siciliana trapiantata a Roma, i Platania, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di una nuova governante incapace di accettare le proprie pulsioni omosessuali. Tutti gli abitanti di casa Platania, compreso il personaggio che dà il titolo all’opera, sono costretti a dover scegliere tra la propria natura e la maschera che gli viene imposta dalla società, in una lacerazione che ricorda alcune commedie pirandelliane. Il conflitto interno che la censura desiderava eliminare era però soprattutto quello di Caterina, divisa tra la sua etica calvinista e l’omossessualità repressa a fatica, fino ad arrivare al suicidio come forma massima di auto-censura in un mondo moralista e bigotto come quello dell’Italia borghese di metà Novecento. La governante era quindi in primis un atto di accusa verso una società che impediva alle persone di esprimersi liberamente e forse per questo alla fine la sua rappresentazione non venne autorizzata, nonostante gli iniziali tentativi di tagliarla per nascondere il tema dell’amore lesbico.
Brancati fu insomma definitivamente censurato, con l’accusa di non condannare il suo personaggio ma anzi di avere “una sottile compassione, unita peraltro ad una certa ammirazione, per tutte le lesbiche in potenza o in atto che ci rappresenta”. Un’accusa simile non era nuova per Brancati, cui infatti furono rimproverate più o meno le stesse cose al momento della presentazione de Il bell’Antonio, un libro in cui il protagonista era ostaggio degli stessi stereotipi che impedivano a Caterina di esprimere se stessa. Ormai sconfitto, lo scrittore pubblicò La governante in un volume che conteneva pure un breve pamphlet dal titolo Ritorno alla censura. Quest’ultimo testo venne composto all’inizio del 1952 ma resta ancora oggi un manifesto di come andrebbe intesa la cultura e della necessità che essa rimanga sempre libera e vicina al popolo che deve fruirne.
In Ritorno alla censura Brancati disegna un panorama italiano che, dal dopoguerra, non è mai davvero cambiato: come già fatto nella commedia, l’autore denuncia infatti apertamente un legame stretto tra Chiesa e Stato che ha permesso alla censura fascista di sopravvivere intatta anche dopo la fine del regime, al punto da conservare la medesima sede in Via Veneto 56, dove continuano a lavorare gli stessi censori prima sostenitori di Mussolini.
Scrive Brancati che: “Le bombe hanno provocato per loro uno spostamento d’aria che li ha allontanati per uno o due anni dalle loro sedie”. Dopo questo breve e prospero interregno tra il 1945 e il 1946 però, fa notare lo scrittore siciliano, tutto tornò velocemente alla normalità perché la cultura era diventata “odiosa” e pericolosa agli occhi di chi deteneva il potere. La classe dirigente, poco acculturata per scelta, ha infatti imparato in fretta a diffidare non solo della letteratura ma anche del cinema e del teatro perché in fondo anche dietro queste forme d’arte “c’è sempre un libro”.
Secondo Brancati, la sua situazione di coloro che ne condividono la battaglia non ha via d’uscita perché lo scrittore “non è per la soluzione dell’Italia possidente: fra libertà e ricchezza, ricchezza. Né per quella dell’Italia disperata: fra libertà e fine della miseria, fine della miseria”. Troppi sono cresciuti in una società basata sulla spinta al consumo e si sentono vuoti quando non riescono ad assecondarla. In un tale contesto, è ormai estremamente facile convincersi che la soddisfazione dei bisogni basti per sentirsi liberi ma, ammonisce l’autore di Ritorno alla censura: “Per quanto i bisogni abbiano un carattere tirannico, il soddisfarli non può chiamarsi libertà”. Riferendosi a una rappresentazione teatrale sulle imprese criminose del bandito Salvatore Giuliano, Brancati fa emergere il paradosso di un mondo che si scandalizza e spinge la polizia a tenere sotto sorveglianza l’attore che lo interpreta sul palcoscenico mentre il vero brigante è ancora indisturbato a piede libero. In certe sterili polemiche, propugnate da chi non è più in grado di riconoscere tra finzione artistica e realtà, non si può non riconoscere i germi di un atteggiamento sopravvissuto fino a noi, basti pensare a quanti potenti si sono interrogati più sulle implicazioni negative di serie come Romanzo criminale che sulla necessità di estirpare quelle realtà che determinati prodotti di fiction rappresentano.
In generale, da parte di una certa classe dirigente, continua a esserci un’ipocrisia di fondo: aveva ragione Brancati quando evidenziava che è come se venisse chiesto agli scrittori e in generale ai creatori di cultura: “Perché dovete dirlo in pubblico? Non basta che noi lo facciamo in segreto?”. Non c’è solo paura che il marcio venga a galla in questa domanda ma anche un po’ di bigottismo da parte di chi non comprende che l’arte possa toccare certi argomenti.
La sopravvivenza di molti meccanismi censori è dovuta al fatto che chi detiene il privilegio e il potere sa benissimo qual è la forza di un popolo “intuitivo e in molti casi dotato di genio” e istintivamente se ne proteggono, avvertendo “in modo oscuro, ma penoso, che la sostanza della cultura moderna è un’affermazione di libertà estrema, eroica, senza compromessi”.
Bisogna che la popolazione riesca a comprendere la realtà e diventi consapevole delle sue potenzialità ribellandosi alla spinta conformista, scoraggiando chiunque vorrebbe far vivere gli italiani “come un popolo del 1815” a forza di censure e giri di parole. C’è qualcosa di tristemente familiare in quello che scriveva una persona nata nel 1907: “L’Italia non si stanca mai di essere un Paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio”.
Per questo, forse, Brancati termina chiamando idealmente a raccolta i giovani. Oggi come allora siamo noi a doverci impegnare per sovvertire il sistema, portando in primo piano i veri avversari contro cui è necessario battersi: censura, prepotenze razziali e violenze fatte alla cultura in nome “della nazione, della classe e della religione”. L’appello fatto da Brancati agli atenei italiani quando scrive: “Saremmo felici che le università gettassero per prime l’allarme al profilarsi di qualunque dittatura, esse che dovrebbero essere le nostre vedette, per il loro sguardo reso acuto dalla cultura e dalla giovinezza”, ha forse maggior senso oggi che la laurea è alla portata di molti più ragazzi di quanto non fosse nel 1952 e ha una valenza particolare, anche alla luce dell’importanza che i giovani hanno rivestito nell’intera opera letteraria di Brancati, dove spesso appaiono inappagati o senza stimoli come ne Gli anni perduti o in Don Giovanni in Sicilia.
Brancati non riuscì mai a vedere La governante rappresentata in teatro. La prima dell’opera si ebbe solo il 22 gennaio del 1965, con sua moglie Anna Proclemer nel cast e la regia dell’esordiente Giuseppe Patroni Griffi. Oggi la vicenda dell’opera non scandalizza più ma forse abbiamo capito che il vero motivo per cui venne censurata non era da cercare solo nei suoi sottotesti omosessuali. Come ha ricordato qualche anno fa la figlia di Brancati, Antonia: “Il tema è l’ipocrisia di non ammettere quello che si è, l’unica speranza è la verità”. Quest’ultimo aspetto era anche il cuore di un pamphlet come Ritorno alla censura ed è l’ennesima testimonianza da riscoprire di un autore che ci ha ricordato come la libertà sia in primis il rifiuto di ogni pregiudizio ideologico e il risultato di un arricchimento culturale.