Nell’aprile del 2019 Bret Easton Ellis, autore dei cult Meno di zero e American Psycho, ha pubblicato Bianco, la sua prima opera di nonfiction, articolata in otto capitoli, a metà tra il memoir autobiografico e la raccolta di saggi. Già dal momento della sua uscita, il libro – edito in Italia da Einaudi – ha suscitato reazioni forti, guadagnandosi decise stroncature e suscitando polemiche che hanno coinvolto l’autore in prima persona. Significative sono state le bocciature da parte del Guardian e del New York Times, con giudizi duri legati più a questioni ideologiche che a effettive valutazioni estetiche. Il Guardian ha parlato di un’opera priva di senso, lavoro di un uomo “così ossessionato dal proprio diritto di parlare da dimenticare del tutto di dire qualcosa”; e il New York Times ha invece bollato il libro come “scritto apposta per offendere”.
Queste reazioni non meravigliano. In Bianco Ellis attacca senza tregua la Generazione Y, quella dei millennial e mostra l’ipocrisia del suo sistema di valori. Il suo è un libro esplicitamente di rottura, scritto nel tentativo di stendere davanti agli occhi di chi legge le storture ideologiche della generazione che, al momento, incide notevolmente sull’opinione pubblica. Indipendentemente dalle conclusioni alle quale giunge Ellis, che spesso sono legate a episodi personali, Bianco è un lavoro che inquadra molto chiaramente il nostro tempo e ne mostra i meccanismi, soprattutto quando si inceppano. Andrebbe letto anche solo per questo.
Nella prima metà di Bianco, Ellis sembra muoversi indisturbato tra i suoi ricordi personali. I legami con il presente ci sono – ad esempio, confrontando la libertà con la quale lui è cresciuto all’oppressione degli attuali “genitori elicottero” – e il sarcasmo che lo contraddistingue sembra ridursi alla nostalgia, come se si rendesse serenamente conto di essere cresciuto in un mondo che non c’è più. I motivi di polemica maggiore – nonché gli spunti più interessanti del libro – emergono quando si arriva all’attualità, o quantomeno agli anni più recenti. La seconda metà dell’opera è divisa, infatti, in quattro capitoli – “Il consenso”, “Twittare”, “Post-impero” e “Oggi” – ma il fluire delle argomentazioni e delle considerazioni personali sembra procedere senza soluzione di continuità. I bersagli delle sue polemiche sono appunto i millennial e la cultura della quale, volenti o nolenti, si fanno portavoce come generazione, e che sembra trovare la sua piena realizzazione sui social network. Se, a prima vista, le posizioni di Ellis possono sembrare quelle di chi non capisce le dinamiche di una generazione successiva alla propria, l’autore di American Psycho dimostra, in realtà, di averle comprese benissimo – sia nelle ragioni alla base, che nelle modalità – e, soprattutto, di esserne malvolentieri circondato.
La sua critica principale è rivolta al conformismo della Generazione Y che, a suo dire, assumerebbe le forme di un nuovo fascismo, mettendo tutti in fila dietro le posizioni dominanti e accettate, contrassegnando come fallimentare o sbagliata qualsiasi rivendicazione di autonomia. Questi comportamenti si manifestano ancor più che nella vita reale sui social. Ellis non si limita alla critica però, e tenta di ricostruire le motivazioni pratiche dietro a questo comportamento, legate alle dinamiche economiche: “La new economy dipende dal fatto che ciascuno mantenga un atteggiamento reverenzialmente cauto e assai pratico: tieni chiusa la bocca e non avere altre opinioni se non quelle espresse in quel momento dal pensiero di gruppo più diffuso”. È la cultura dell’apparenza e dell’economia a essa legata – con continui attacchi di Ellis alle corporation – che deve essere necessariamente positiva.
Il conformismo si fa più pericoloso quando abbraccia il campo delle opinioni e del pensiero politico. In particolare, Ellis critica gli atteggiamenti di censura soloniana dei social, dove basta pensarla diversamente per essere bloccati, fino ad arrivare nei casi più estremi a episodi di cancel culture. Il paradosso, secondo Ellis, è che questi comportamenti, che definisce fascisti, provengono spesso da chi per credo politico si professa invece liberal. Parlando di questo tema non potevano mancare i riferimenti a Donald Trump. Più che al presidente in sé, però, Ellis si rivolge ai suoi oppositori che, invece di accettare la sua presenza alla Casa Bianca e pensare a come batterlo politicamente, reagiscono in maniera emotiva e per questo inconcludente, con modalità molto simili a quelle usate in Italia dal centrosinistra con Salvini nei mesi del suo governo. Il fatto che, all’uscita del libro, la maggior parte delle testate abbia posto l’accento su ciò che in Bianco si dice e che non si dovrebbe dire, dimostra non solo quanto queste non abbiano capito il reale senso del libro, ma anche quanto le recriminazioni del suo autore siano corrette.
Il problema, per Ellis, è ben più ampio della questione politica. Non voler entrare neanche in contatto con chi ha posizioni diverse, escludere dalla propria bolla, social o reale, chi non la pensa esattamente come noi produce una duplice stortura. Da una parte, chi resta bloccato nella propria chiusura e ha a che fare solo con ciò in cui si immedesima incappa in quello che, per Ellis, non è nient’altro che narcisismo. Vuol dire, in questo caso, autocompiacersi del proprio sistema di valori senza metterlo mai in discussione, rendendolo così più debole. Dall’altro lato, invece, chi è vittima di questi meccanismi di esclusione diventa un emarginato. I punti estremi di comportamenti simili sono l’hating, fenomeno esploso proprio con la Generazione Y, e la FOMO (Fear of missing out), l’ansia sociale scatenata dalla paura di essere tagliati fuori. Ellis parla, ironicamente, ma non troppo, dei millennial come della “generazione inetti”, perché incapaci di affrontare i problemi reali della vita, davanti ai quali preferiscono “collassare nel sentimentalismo e creare una narrazione vittimista”.
I limiti di Bianco sono molteplici: in alcuni momenti Ellis si lascia andare a generalizzazioni e semplificazioni eccessive, e su alcuni temi prende posizioni decisamente conservatrici. Ellis però mostra che, per le ragioni più disparate – come interessi economici, comodità e ambizione – la Generazione Y, annullando il conflitto, il pòlemos, che è alla base della vita democratica, si sta appiattendo su una narrazione di sé estremamente conformista, dannosa per l’arte (il suo è comunque il punto di vista di uno scrittore) e per la società. Ellis dice che prima di tutto “ciò che viene cancellato sono le contraddizioni che appartengono a ciascuno di noi. Chi di noi rivela difetti e incoerenze o dà voce a idee impopolari improvvisamente terrorizza quelli intrappolati nel mondo di conformismo e censura sociale delle corporation” in questo modo, si chiede, come può esserci un vero dialogo?
In Bianco Ellis non si tira indietro dall’esporre opinioni scomode, che sa che verranno accolte in malo modo, e non ha paura di risultare divisivo, e in questo modo dimostra l’esclusione compiuta dal pensiero culturale dominante (per quanto liberale) e rifugge proprio quell’appiattimento da cui tutti gli intellettuali e gli artisti in primis dovrebbero allontanarsi. Bianco può essere considerato un libro generazionale, proprio perché si scaglia contro una generazione intera e contro quella che, a sua volta, l’ha generata. A un’opera simile si può reagire o chiudendosi, con quel rigetto che hanno dimostrato le tante stroncature ricevute, o riconoscendone il valore profondo. In un mondo che non contempla il fallimento, costruito solo su immagini fintamente positive di sé e forzatamente allineate, l’anticonformismo diventa il valore più alto. È proprio nel conflitto che risiedono le vere possibilità di maturazione, è nel confronto costruttivo con l’altro che c’è la vera crescita per uscire, citando Ellis, dallo stato di inettitudine in cui al momento la nostra generazione sembra versare.