Quattromila persone (in maggioranza studenti universitari) si radunano in Piazza di Spagna, a Roma, e marciano verso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia per “liberarla” dalla presenza di poliziotti. Ad attenderli, in cima al sentiero in declivio che conduce alla sede della facoltà stessa, una formazione della squadra mobile della Polizia. È il preludio di una delle battaglie più dure e significative dell’intero movimento sessantottino.
Per la prima volta gli studenti, uniti in una lotta comune nonostante la fede politica eterogenea (a Valle Giulia combattono militanti di estrema sinistra ed estrema destra insieme) reagiscono alle cariche della polizia e quasi “vincono” lo scontro. Non era solo l’incoscienza della gioventù, ma la sensazione che il vento soffiasse dalla loro parte e che la storia li avesse voluti lì per dare voce a un’esigenza profonda: la necessità di cambiamento dell’intero Paese.
Nell’Italia degli anni Sessanta il conflitto generazionale era più vivo che mai: in una società chiusa e bigotta come quella italiana, ancora legata a doppio filo con la morale cristiana e i valori conservatori, le nuove generazioni sentivano il bisogno di cambiare le cose a tutti i costi. Il mondo, del resto, stava facendo lo stesso.
I giovani di molti Paesi manifestavano contro l’imperialismo, il totalitarismo, la guerra in Vietnam. Il dissenso si diffondeva attraverso le movimentazioni studentesche, in Europa e anche in Italia. Qui, dopo una serie di riforme scolastiche emanate nel corso degli anni Sessanta, l’istruzione dopo la scuola primaria era diventata di massa e l’aumento degli studenti, a fronte di un crescente classismo delle università e di una diffusa mancanza di strutture, faceva da catalizzatore di un dissenso già diffuso, rendendo le università il centro dell’impegno politico di quegli anni.
In Italia il problema dell’università era serio: tra il 1956 e il 1966 gli iscritti erano raddoppiati, e da simbolo del potere borghese ed elitario era diventata “di massa” senza però riuscire rinnovarsi. I professori rimasero in molti casi “baroni” incontrastati, disinteressati al loro ruolo di educatori, mentre gli studenti italiani (parteciparono tutti i maggiori atenei italiani, senza esclusione) iniziarono a occupare le sedi universitarie, trasformando quell’ondata di dissenso in una vera e propria rivoluzione. La prima fu Trento, il 24 gennaio 1966, poi fu la volta di Milano, Torino, Roma e Napoli. Le rivendicazioni sono principalmente accademiche e concentrate su una maggiore partecipazione del corpo studentesco alla gestione dell’ateneo. La rivolta degli studenti italiani toccò il suo apice nella primavera del Sessantotto, ma già a febbraio di quell’anno si erano susseguite occupazioni e rivolte praticamente in tutta Italia. A Roma gli studenti occuparono la città universitaria il 2 febbraio 1968. Il rettore della Sapienza, Pietro Agostino D’Avack, chiese collaborazione agli studenti, che di contro avevano un’idea chiara di come l’università dovesse cambiare: gli esami dovevano essere “discussi” alla pari tra studenti, testimoni e professori. La maggior parte dei professori rifiutarono di sottostare alle richieste e lo stesso D’Avack, megafono alla mano, chiese l’intervento “democratico” dello Stato, per porre fine alle rivolte incessanti degli studenti della Capitale. L’intervento delle forze di polizia ebbe due forti conseguenze: compattò il fronte studentesco intorno alla sua causa e trasformò il dissenso in una rivolta vera e propria dai caratteri rivoluzionari.
Il primo marzo 1968, a Valle Giulia, gli studenti caricarono con armi di fortuna la polizia, con l’intenzione di penetrare all’interno della sede distaccata della facoltà di Architettura sgomberata all’inizio dell’anno. La lotta fu spietata e lo scenario inedito: per la prima volta gli studenti risposero alle cariche della polizia. La facoltà venne rioccupata, fino a quando i rinforzi delle forze dell’ordine cacciarono gli studenti, sgombrando l’edificio. Il conto dei feriti alla fine della “battaglia” fu altissimo: 148 rimasero feriti e 200 denunciati. Il giorno dopo i giornali pubblicarono foto di studenti armati di bastoni e forse quella più simbolica dell’automobile rovesciata e in fiamme, vicino a una camionetta della Polizia.
Tutti i principali quotidiani ne parlarono e nei testi di Paolo Petrangeli, cantautore, regista e sceneggiatore romano, “Valle Giulia” divenne un brano da cantare nelle manifestazioni insieme al suo “Contessa”, che diventerà la canzone popolare per antonomasia dei Sessantotto italiano.
La battaglia di Valle Giulia fu un momento importante: l’evento diede valore reale (e violento) alla rivolta studentesca, fino a quel momento sottovalutata, ma aprì la polemica sulla sua natura. Sarà una celebre e molto contestata poesia di Pier Paolo Pasolini ad accendere il dibattito. Pubblicata sull’Espresso il 16 giugno 1968, Il Pci ai giovani è una presa di posizione forte da parte dell’intellettuale, quantomeno a una lettura superficiale. Per il poeta bolognese la battaglia di Valle Giulia è stata una lotta di classe, ma a parti inverse. Gli studenti, definiti “paurosi, incerti, disperati” ma anche “prepotenti, ricattatori e sicuri”, vengono accostati a una realtà borghese che gli dona facce “di figli di papà”. Dall’altra parte ci sono i poliziotti, “figli di poveri, provenienti da subtopie, urbane o contadine che siano.”
La posizione di Pasolini è controversa, specialmente per un intellettuale di sinistra come lui, ma la sua poesia non è certo un’ode alla Polizia in quanto istituzione, né tantomeno una presa di posizione contro i moti del Sessantotto, quanto una semplice osservazione, critica ma efficace: quella di quegli anni è stata una rivoluzione borghese, per certi versi. Quantomeno nella lotta studentesca le motivazioni erano prima di tutto sociali: si trattava di una forma di emancipazione culturale dalle vecchie generazioni e non aveva niente a che fare con il contesto lavorativo nel quale i baby boomer (ovvero la generazione di chi all’epoca aveva circa vent’anni) occupavano la cima della gerarchia sociale, grazie a una disoccupazione ai minimi storici.
Pasolini stava dalla parte del Pci e non si trattenne dal criticare l’appartenenza borghese di molti degli appartenenti dei movimenti studenteschi, invitandoli a passare a quello operaio. Cosa che accadde l’anno successivo, quando le istanze operaie inglobarono quelle espresse nelle università italiane.
La rivolta studentesca ebbe una battuta d’arresto dopo i fatti di Valle Giulia e nelle assemblee si capì che la fase di protesta, quella puramente anarchica, non poteva sopravvivere senza darsi un obiettivo. Il problema era decidere l’esito della rivoluzione: nell’ottica di intraprendere una strada comune, gli studenti cercarono appoggio nei partiti, ma con scarsi risultati. L’Italia, guidata da un’alleanza tra Democrazia Cristiana e Partito Socialista Italiano, non aveva nessuna intenzione di tener fede alle promesse riformiste fatte durante i primi giorni delle contestazioni.
Il Sessantotto fu per molti una rivoluzione mancata. Sicuramente si trattò di una protesta senza precedenti e, specialmente con la battaglia di Valle Giulia, la “reazione” violenta dei manifestanti alle forze dell’ordine contribuì a calare l’Italia nel clima degli anni di Piombo del decennio successivo.
Il vero valore del Sessantotto non sta tanto nella “mancata rivoluzione”, quanto nel suo messaggio più intimo e nella spinta rivoluzionaria di un’intera generazione unita per uno scopo comune, ossia il desiderio di cambiare i valori tradizionali, il sapere borghese e l’autorità dei padri. Era prima di tutto il grido di un’intera generazione per tornare a decidere del proprio futuro in un Paese che aveva ignorato i suoi giovani troppo a lungo.