Alla faccia di un Paese in cui qualsiasi problema, catastrofe o crisi sociale si presenti c’è sempre qualcuno che se ne esce con un “C’è ben altro a cui pensare”, in Italia da circa tre giorni non si fa altro che parlare di una modella, Armine Harutyunyan. Harutyunyan, indossatrice armena di 23 anni, ha lavorato per Gucci nel 2019, sfilando durante la settimana della moda di Milano per la collezione primavera-estate 2020. Gli italiani, sempre sul pezzo per indignarsi per cose assurde con almeno sei mesi di ritardo, si sono accorti della sua esistenza solo oggi e ne hanno fatto un caso di capitale importanza per le sorti di questo Paese: Armine è brutta, è cessa e io rivendico il diritto di dirlo, basta con questa dittatura del politicamente corretto, non mi avrete mai, ma vuoi mettere Eva Herzigova e così via. Spuntano fuori persino notizie secondo cui Harutyunyan sarebbe in una lista delle “100 donne più belle del mondo”, come se queste liste avessero qualche importanza o valore o come se la gente fosse obbligata a riconoscere la bellezza di una modella con una pistola puntata alla testa.
La verità è che questa polemica idiota – che tra l’altro va avanti solo in Italia, nonostante Gucci sia un marchio internazionale – è sbagliata sin dalle premesse. Subito, infatti, si sono create varie fazioni: c’è chi con orgoglio e coraggio si batte per il diritto di dire che Armine è brutta “contro la dittatura del politicamente corretto”, c’è chi al contrario sostiene che Armine sia bellissima perché la bellezza è soggettiva, e poi ci sono quelli convinti che si tratti di una subdola operazione di marketing, come se Gucci avesse bisogno di puntare sul “purché se ne parli” o sulla provocazione fine a se stessa. In realtà, la scelta di un volto come quello di Harutyunyan è perfettamente coerente con l’estetica che Gucci ha intrapreso fin dal 2015, cioè da quando Alessandro Michele è diventato direttore creativo del marchio. L’anno scorso, ad esempio, Michele scelse la musicista Dani Miller come testimonial del rossetto Goldie Red, con una foto in primo piano dei denti storti della cantante, perché a detta sua “Il beauty è un mercato da distruggere a bastonate”. Se nel caso di Miller però si parla di una campagna pubblicitaria molto mirata, diverso è il caso di Harutyunyan, che è una delle tante indossatrici che hanno sfilato per il marchio, e che non è in nessun modo “ambasciatrice” o “testimonial” di alcunché.
L’idea che molte persone hanno del mondo della moda è decisamente fuori dal tempo, ancora legata all’immaginario delle top model degli anni Novanta e dell’inizio dei Duemila, quando – grazie alla democratizzazione del prêt-à-porter portata avanti soprattutto dagli stilisti italiani – la moda doveva essere soprattutto aspirazionale. Mentre in precedenza le indossatrici erano quasi tutte sconosciute (a eccezione delle fotomodelle, che però posavano per i giornali e quindi riuscivano a fissarsi nella memoria del pubblico), verso la fine degli anni Ottanta gli stilisti, convinti che la moda dovesse rappresentare in primo luogo uno status symbol, cominciarono a scegliere modelle sempre più riconoscibili, legandole al proprio marchio. Il tradizionale rapporto tra modella e vestito, rappresentato dal fatto che l’indossatrice dovesse scomparire dietro l’abito in quanto mannequin, letteralmente “manichino”, si rovesciò portando la modella a diventare la vera protagonista delle sfilate. Era importante che la top fosse una bellezza mozzafiato, che incarnasse quasi una deità irraggiungibile, che fosse formosa il giusto e sessualmente desiderabile. Anche le presentazioni delle collezioni, che prima si svolgevano nelle ville delle signore altolocate che facevano sfilare le proprie figlie, diventarono veri e propri show, caratterizzati da un’esclusività diversa da quella nobiliare: alle sfilate vengono invitate le celebrità. In questo periodo, la moda è caratterizzata da un’esaltazione continua del canone ideale e il bello corrisponde al ricco, al famoso, all’opulento.
Questo ritratto del sistema moda, che i non addetti ai lavori prendono ancora come riferimento proprio per questa sua iconicità, non è più valido da almeno vent’anni. Complice un diffuso sentimento di disillusione sociale e di una vera e propria caduta degli dei, oggi, a eccezione di pochi volti, le modelle sono quasi tutte anonime e vengono scelte non più per scomparire dietro l’abito, ma per integrarsi a esso. Se non era raro negli anni Novanta che uno stilista disegnasse un abito pensandolo indosso alla top model che l’avrebbe portato in passerella, oggi la scelta di una modella spesso fa parte del processo creativo che anima una collezione. In altre parole, una modella contribuisce a finalizzare l’estetica dell’abito, senza scavalcarla né diventare invisibile. Da questa premessa, appare evidente come credere che dietro la scelta di Gucci di Armine Harutyunyan ci sia una qualche finalità politica a favore della body positivity o un’insidiosa strategia pubblicitaria sia piuttosto ingenuo.
L’immaginario della moda, specialmente quando si parla di haute couture, non è costruito per compiacere uno sguardo, men che meno quello maschile. Nell’abbigliamento, come ci insegnano l’antropologia e la Fashion Theory, si intersecano discorsi e simboli sul corpo, il valore sociale, la cultura, l’immagine di sé. Ma quando parliamo del processo di creazione della moda, cioè delle passerelle e degli stilisti, stiamo parlando di una creazione simbolica più elevata, anche se intrinsecamente legata al sistema produttivo. Nell’alta moda lo sguardo maschile, quel male gaze che permea e condiziona molte delle produzioni artistiche, è praticamente assente. È come se ogni collezione riproponesse un nuovo rapporto tra la donna e la sua stessa immagine, un rapporto esclusivo e intimo, dove uno sguardo maschile desiderante e sessualizzante non può davvero portare alcun significativo cambiamento. Questo non significa che l’alta moda non sia esente da problemi di genere: paradossalmente stiliste e direttrici creative sono ancora una minoranza e molti stilisti si sono distinti per dichiarazioni al limite della misoginia. Ma al di là di questo, da un punto di vista puramente estetico, la corrispondenza morale tra bello e virtù non fa più parte della ricerca artistica della moda contemporanea. Se ciò non vale per gli abiti, vale ancora meno per le modelle, per le quali la “bellezza canonica” è forse l’ultima delle caratteristiche richieste per accedere al mercato della moda.
Come ha scritto Jonathan Bazzi, il caso di Armine Harutyunyan è stato così eclatante perché ha in qualche modo dimostrato in maniera palese che “la libido maschile” vuole imporsi come “misura di tutte le cose, il presupposto accentratore e ineliminabile quando si parla di donne, immagine e scena pubblica”. Accanirsi nel definire Harutyunyan bella o brutta, come se ne dipendesse il destino dell’umanità, sposta l’attenzione dall’unica riflessione che avrebbe senso fare in questo contesto: a chi importa? Nel settore della moda, probabilmente, a nessuno. Ad Alessandro Michele, la cui ricerca artistica è quanto di più lontano possa esserci dalla dicotomia bello/brutto, men che meno. Evidentemente importa solo a noi italiani – la specifica della nazionalità è d’obbligo, visto che all’estero non ne sta parlando nessuno, se non per stupirsi del nostro odio – incapaci di accettare che il mondo non corrisponda al nostro piccolo e limitato immaginario erotico, sempre pronti a trasformare in un affare di stato il corpo di una donna. Aggrappati in questa maniera così infantile al nostro giardinetto del desiderio normale e normato, crediamo che quello che piace a noi debba piacere a tutti, che il bello sia giusto e viceversa. Eternamente intrappolati negli anni Ottanta, mentre il resto del mondo vive nel presente.